La santa bellezza della basilica-museo
L’insigne Basilica di Sant’Antonio in Padova è riflesso fedele di una storia radicata nel suolo ov’essa sorge, che include la memoria di antichi luoghi di culto pagano del IV secolo a.C. e di quel Patavium che diede a Roma uno dei suoi massimi storici, Tito Livio. Ma la Basilica travalica la dimensione cittadina già per l’origine portoghese del Santo, e più ancora per la possente architettura, che con la sua spettacolare coerenza sfida i tempi lunghi della costruzione. Un’accorta strategia progettuale seppe armonizzare segnali e indizi che vanno – attraverso Venezia – verso l’Oriente bizantino, ma anche lungo le direttrici del romanico e del gotico francese. Questo prodigioso organismo non ha nulla di eclettico o antologico, ma incarna un linguaggio sperimentale dove componenti lessicali di diversa origine si integrano in funzione espressiva.
Al contrasto fra le radici locali della Basilica e il suo respiro universale si accompagna il conflitto, nel nostro tempo, fra due funzioni delle grandi chiese storiche. Nate da un assiduo esercizio della pietà, questi templi della fede sono anche santuari dell’arte. Al Santo incontriamo Giotto e Donatello, Mantegna e Sansovino e Tiepolo; per non dire di una minuta topografia di cappelle, altari, annessi conventuali. Una varietà di voci, di tecniche artistiche, di materiali, di stili, di scuole regionali nella quale è stato possibile (e lo sarà certo anche nel futuro) fare autentiche scoperte, come è accaduto quando l’impronta di Giotto è stata riconosciuta nella sala del Capitolo, nella cappella della Madonna Mora e in una cappella Scrovegni (si veda «Domenica» de «Il Sole 24 Ore» del 5 maggio 2019) che preannuncia quella, più celebre, dell’Arena. Ma pur davanti al turismo di massa, il rapporto fra tempio della fede e sacrario dell’arte dev’essere necessariamente conflittuale?
Troviamo questa domanda nelle pagine di un romanzo famoso, Portrait of a Lady di Henry James (1881). La protagonista, Isabel Archer, mentre visita la Basilica di San Pietro in Roma «pagando il suo silenzioso tributo al sublime», osserva gli altri visitatori: «siccome, per la vastità del luogo, vi sembra diffuso un che di profano, che sembra adattarsi tanto bene alla contemplazione materiale che a quella spirituale, i devoti e i curiosi possono seguire i propri interessi senza scandali e senza conflitti». La distinzione dei visitatori di una chiesa in due schiere, i “devoti” e i “curiosi”, echeggia nell’analisi comportamentale proposta nel 1994 da Pierre Bourdieu. Le opere d’arte raccolte nelle chiese, egli osserva, sono nate per i fedeli e non per i conoscitori; ma la mescolanza di turisti e devoti segmenta lo spazio delle chiese, consacrando alcune aree alla preghiera e ritagliandone altre (dove s’impongano artisti di maggior pregio) per il culto profano dell’arte. Si costituisce così un «campo artistico che ubbidisce a norme proprie», una vera e propria “devozione artistica”. «Opere che all’origine potevano suscitare o, meglio, sollecitare la pietà religiosa sono oggi come istituzioni mutilate, la cui parte oggettivata, l’oggetto di culto, è sopravvissuta alla parte incorporata, la disposizione alla pietà: esse non sono rese a un’esistenza attiva se non come oggetti d’arte, e dunque al prezzo di un “errore di categoria” che provocano mobilitando, nei visitatori colti, la disposizione al piacere estetico».
Proviamo a leggere questa penetrante analisi come lungimirante apertura verso un discorso alternativo. Anziché dare per scontata l’opposizione fra le due “categorie” (devozione e percezione estetica), chiediamoci perché fra esse si è aperto un divorzio così radicale, e se non sia possibile ricomporle. Il bivio fra pratiche della pietà e sentimento della bellezza nasce da una diffusa laicizzazione della società, ma anche dalla musealizzazione di molte opere d’arte religiosa, strappate al loro contesto d’origine e deprivate della carica devozionale senza la quale non sarebbero mai nate. Tale sradicamento dal contesto è, anzi, più antico del museo pubblico come istituzione (la più antica fondazione al mondo che meriti tal nome furono i Musei Capitolini fondati da Clemente XII nel 1734), e responsabili ne furono anche uomini di Chiesa: per citare un esempio famoso, la Deposizione di Raffaello (1507) rimase solo cent’anni nella chiesa di Perugia per cui era stata dipinta, e ne fu trafugata nel 1608 per trasportarla a Roma, nei privati alloggi del cardinal Scipione Borghese (perciò oggi è a Villa Borghese).
Il moltiplicarsi di questo trapianto forzoso di opere d’arte cristiana dalle chiese a contesti collezionistici si traduce nell’etichetta di “museo” spesso affibbiata anche a chiese aperte al culto: «Emozioni da museo» è stato a lungo lo slogan lanciato dal Comune di Firenze per gli affreschi di Masaccio nella chiesa di Santa Maria del Carmine. Anzi, intere città vengono talvolta definite “città – museo”, e si è perfino parlato di un Museo Italia (è il titolo di un libro di Antonio Paolucci). Nonostante le ottime intenzioni, un tal linguaggio accredita la separatezza del “mondo dell’arte” (da confinarsi nei musei) dal mondo “reale”, quasi che in quest’ultimo non si avvertisse il bisogno di bellezza, o di emozioni.
La storia insegna che è vero l’opposto, e non solo per l’arte religiosa: i grandi cicli di arte profana che vediamo in luoghi privilegiati della vita comunale (come a Siena il Palazzo Pubblico, a Padova il Palazzo della Ragione) vennero concepiti perché ispirassero nei cittadini le forme e l’etica del governo. Con simile impulso l’arte cristiana incorporò nei contenuti teologici o devozionali la sapienza e lo splendore dello stile non come ingrediente supplementare e gratuito, bensì come strumento espressivo essenziale non solo a significare l’abilità del pittore o le intenzioni del committente, ma a parlare al fedele trasmettendogli il senso del sacro, la memoria del Vangelo o dei Santi, la visione cristiana del mondo. Quell’assidua ricerca di bellezza fu dunque perseguita in funzione della fede, come dispositivo di devozione e di pietà. Anziché vivere l’arte cristiana ancora conservata nelle chiese come se, invece, fosse in un laico museo, dovremmo saper fare il contrario: quando visitiamo un museo, ricostruire mentalmente ed emotivamente l’originario contesto religioso di quadri e statue. Una ricomposizione delle due dimensioni, la pratica della pietà e l’ammirazione estetica, è infatti necessaria per intendere storicamente le opere d’arte cristiana.
Laboratorio privilegiato per un tale esercizio sono le chiese dove la distinzione fra “devoti” e “curiosi” è meno netta, e fra queste primeggia la Basilica Antoniana di Padova. Qui l’enorme flusso di visitatori (oltre 6 milioni l’anno) è determinato dalla devozione al Santo, e la stessa topografia interna della Basilica (come la collocazione delle preziose sculture di Donatello nel presbiterio) frena la neutralizzazione “turistica” dell’inclinazione alla pietà. La presenza soverchiante del sacro aiuta a cogliere l’intima fusione fra il movente devozionale di ogni opera e l’impegno di artisti e committenti per accrescerne forza e respiro anche per le generazioni successive. La ricchissima messe di immagini non ha nulla del museo, ma è una trama volta a celebrare non solo il Santo, ma la storia della Salvezza.
Questi tre ricchissimi volumi, percorrendo con amore e competenza la storia e i tesori della Basilica, tracciano non solo la mappa e il censimento di quel ch’essa ci dona alla mente e alla vista, ma anche l’invito a riflettere sulla natura e sul destino dell’arte sacra in un tempo difficile e complesso come il nostro. Perciò dobbiamo esserne grati a chi ha voluto offrircelo in lettura: i curatori Luciano Bertazzo e Girolamo Zampieri, la Veneranda Arca di S. Antonio, il Comitato Scientifico, la schiera degli Autori. Le parole introduttive di papa Francesco nella prima pagina del libro dicono da sole l’importanza della Basilica e di questa sua ragionata esplorazione.
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Da Il Sole 24Ore – Domenica – Arte del 23 gennaio 2022
Meraviglie d’Italia. Sant’Antonio a Padova è un luogo di fervido culto e strepitoso scrigno d’arte Come possono armonizzarsi le esigenze della devozione con quelle estetiche del turismo laico?
Di Salvatore Settis