Il processo a Galileo e i documenti
Nel processo del 1633 venne tradita l’impostazione di Bellarmino sulla teoria copernicana
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Il processo contro Galileo Galilei è un grande passaggio di quella che si suole chiamare storia. È stato oggetto di innumerevoli studi e di accurate perlustrazioni d’archivio da parte di moltissimi ricercatori e si tende dunque a pensare che se ne sappia tutto. Invece è da riscrivere, perché i fatti non sono stati ancora intesi. Il 16 giugno 1633 Galileo fu condannato come veementemente sospetto di eresia per aver sostenuto la cosmologia copernicana: la Terra non sta ferma e il Sole le gira attorno, come suggeriscono i sensi, bensì il contrario.
Affinché qualcuno potesse essere notato di eresia per aver sostenuto una determinata dottrina, occorreva — e occorre ancora, dato che la fattispecie non è stata abolita — che la dottrina da lui sostenuta fosse notata di eresia. Per dare logico fondamento al processo, gli storici hanno quindi supposto che tale condanna sia avvenuta in una seduta del Sant’Ufficio tenuta il 25 febbraio 1616 e sia stata poi pubblicata nel decreto dell’Indice datato 5 marzo. Invece questa condanna non esiste. E poiché la sentenza del 16 giugno 1633 non dichiara, neppure contestualmente, che il copernicanesimo è eresia, ma si limita a richiamare titoli insufficienti e ingannevoli, si può ben dire che la sentenza sia stata un imbroglio per lo stesso tribunale d’Inquisizione che la emanò e si sia basata su un documento falso.
Il processo a Galileo parte dal contrasto esistente tra i risultati eliocentrici dell’astronomia copernicana e il passo biblico di Giosuè, X, 12-13 che parla del Sole che corre da est a ovest attorno alla Terra immobile. Per risolvere questo contrasto, Galileo propose un nuovo metodo interpretativo così concepito: la Bibbia insegna verità morali, mentre riguardo alle verità naturali Dio, che ne è l’autore, si è adeguato alle credenze correnti tra le primitive popolazioni ebraiche dell’epoca per non scandalizzarle e rischiare così una ripulsa del messaggio morale.
Il cardinale Roberto Bellarmino rifiutò questa proposta per due ragioni: perché contrastante con il decreto della quarta sessione del Concilio di Trento che vietava ai privati l’interpretazione della Bibbia e perché una tale distinzione introduceva un principio destinato a mettere in discussione l’autorità del testo sacro. In seguito alla denuncia di un domenicano fiorentino, l’Inquisizione romana esaminò il problema e si divise tra un’ala intransigente, di gran lunga maggioritaria e guidata dai domenicani, che voleva dichiarare il copernicanesimo eretico e vietarne qualunque tipo di esposizione, e un’ala minoritaria più prudente guidata dal gesuita Bellarmino, il quale propose una soluzione di compromesso: la realtà è quella scritta nella Bibbia ed è dunque geocentrica, ma gli astronomi possono condurre ed esporre i loro calcoli partendo dall’ipotesi eliocentrica purché non ne affermino la corrispondenza a un fatto reale.
La tesi di Bellarmino prevalse perché appoggiata dal Papa Paolo V, ma l’aspro contrasto interno produsse una divergenza tra l’ammonizione impartita da Bellarmino a Galileo il 26 febbraio 1616 nei termini della sua dottrina e il verbale annotato dal notaio del Sant’Ufficio, Andrea de Pettini, secondo la formulazione intransigente dettatagli dal commissario domenicano Michelangelo Seghizzi. In altre parole, venne impartita a Galileo un’ammonizione formulata da Bellarmino in un modo e messa a verbale dal notaio in un altro.
Considerazioni diplomatiche, grafiche e testuali non lasciano infatti dubbi sul carattere di abusiva interpolazione proprio del cosiddetto «precetto Seghizzi», ma fu sulla base di questo documento che diciassette anni più tardi, nel 1632, l’Inquisizione romana costruì il processo. Quando poi Galileo, nel corso dell’interrogatorio del 12 aprile 1633, produsse il certificato autentico rilasciatogli da Bellarmino, il tribunale cumulò i due documenti senza rilevarne i contrasti e così fece perché questa era la volontà del nuovo Papa, Urbano VIII, che voleva la condanna per il dritto o per il rovescio.
Ciò non significa che Galileo si sia comportato in modo innocente e ligio ai dettami dell’Inquisizione romana per rimanere poi vittima di un’ingiustizia, perché il matematico pisano, a propria volta, violò la consegna, ricevuta nel 1616, di non sostenere la realtà del moto terrestre scrivendo un libro, il Dialogo dei massimi sistemi pubblicato nel 1632, che formalmente rispettava le condizioni postegli da Bellarmino, ma nella sostanza le violava dando risalto e forza agli argomenti diretti a sostenere la realtà del moto terrestre.
Galileo, che era uomo delle istituzioni e operava all’interno delle regole vigenti, cercò di comunicare il proprio pensiero e difendere le proprie idee rispettando formalmente la legalità ecclesiastica e in questo tentativo si infranse concludendo i propri giorni, in amaro ritiro. E questo è precisamente il significato del suo processo: tra la propria intelligenza e l’autorità, il buon cattolico Galileo Galilei scelse se stesso.
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