Volgerassi senza armatura
Volgerassi senza armatura
Tutti in una sentenzia dicevano: «come s'armerà?» e ritornando lui sempre in su quello: «volgerassi senza armatura»
A. Manetti, Vita di Filippo di Ser Brunellesco
Raffaello, panegirico per la salvezza di Roma
MARCO
BUSSAGLI
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L’onda lunga delle celebrazioni di Raffaello, iniziate nel 2020 per il cinquecentenario della scomparsa del grande Urbinate, vessata dalla pandemia e – proprio per questo – prorogata oltremodo, ha prodotto un’altra perla. In occasione della grande mostra alle Scuderie del Quirinale (di cui si è già parlato su queste pagine) fu esposta la minuta, di mano del grande letterato Baldassarre Castiglione, amico e sodale di Raffaello, oggi all’Archivio di Stato di Mantova acquistata nel 2016, proprio in previsione delle celebrazioni: AsMn, Archivio Castiglioni, busta 2, n.12. Si tratta della bozza di quella che è passata alla Storia come la Lettera di Raffaello a Leone X cui il Castiglione diede veste letteraria. Sono sei carte di formato, oggi si direbbe A4 (un solo centimetro di differenza nella larghezza), piegate a metà sul lato lungo per formare un fascicolo non rilegato di 24 pagine che, come ha giustamente scritto Luisa Onesta Tamassia, Direttore dell’Archivio, si deve considerare la prima bozza di quella che sarebbe diventata la più importante dichiarazione di sostegno a quelli che oggi siamo abituati a chiamare “Beni Culturali”, prima dei provvedimenti moderni. A tale convinta posizione aveva aderito anche Francesco Paolo Di Teodoro che nel bel catalogo edito da Skira della citata mostra scriveva pagine importanti (pp. 69-73) che contestualizzavano quella bozza in rapporto alla futura legislazione sulla tutela delle opere d’arte. Infatti, il Chirografo di papa Pio VII Chiaramonti, nel lontano 1° ottobre 1802, proprio alla Lettera faceva ampio riferimento grazie alla cultura del suo estensore materiale don Carlo Fea, già Commissario alle Antichità prima di Antonio Canova che, a sua volta, ricoprì la carica di Ispettore Generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato Pontificio.
In realtà l’attribuzione del testo al grande Urbinate non fu immediata perché – quando, nel 1733, fu pubblicata la lettera definitiva, ricavata da un manoscritto oggi perduto, per la prima volta (e anche per la seconda, nel 1769) –, la paternità fu data giustamente a Baldassarre Castiglione autore della sua forbita stesura stilistica. Ci vollero gli studi dell’abate Daniele Francesconi per capire, nel 1799, che i concetti contenuti nella Lettera erano nati dal genio di Raffaello. Così da questo momento in poi agli attributi agiografici del Sanzio già esistenti (divino pittore, sovrano della grazia e della bellezza e perfino tombeur de femme) se ne aggiunse un altro: primo Soprintendente alle Antichità di Roma.
Contro questa visione romantica dei fatti storici si leva adesso l’autorevole e disincantata voce di Salvatore Settis che, insieme alla filologa Giulia Ammannati hanno pubblicato, per i tipi di Skira, un corposo studio che è destinato a essere una pietra miliare nella bibliografia del grande Urbinate. Il motivo è molto semplice e va cercato nel fatto che – al di là della nitida ricostruzione di Settis che ridisegna la personalità di Raffaello senza i luoghi comuni stratificatisi nel corso dei secoli – in quelle pagine sono messe a confronto le varie versioni della Lettera che fu concepita come un testo a quattro mani su cui i due autori lavoravano a stretto contatto di gomito. Abbiamo, infatti, in successione sinottica di grande chiarezza ed efficacia grafica, da sinistra a destra: la prima bozza (ovvero il manoscritto di Mantova), la versione finale della lettera, una scelta delle varianti più significative presenti nei manoscritti a noi noti e la cosiddetta “versione Raffaello” conservata grazie al manoscritto di Monaco di Baviera che può essere ragionevolmente considerata la minuta finale lasciata da Baldassarre Castiglione a Raffaello nel tardo autunno del 1519 perché vi lavorasse e vi aggiungesse quanto riteneva opportuno, prima della ripulitura finale che avrebbe preceduto una stampa che non c’è mai stata. Infatti, il manoscritto consta di paragrafi aggiuntivi che possono essere usciti solo dalla mente di Raffaello. Purtroppo il destino dispose diversamente e qualche mese più tardi, nella notte del Venerdì Santo del 1520, il grande Urbinate concluse la sua vicenda terrena.
Per la verità si pensava che si fosse detto e scritto tutto il possibile intorno a questo documento, su cui si sono versati i proverbiali “fiumi d’inchiostro”, ma in realtà non è così, perché lo studio di Settis apre prospettive del tutto inedite, a cominciare dal fatto che sotto forma di panegirico, la Lettera è una sorta di rimprovero a Leone X. A dispetto della grande tradizione culturale della schiatta medicea da cui il pontefice proveniva, il Papa con il Breve del 27 agosto del 1515 (come dice lo studioso, «molto citato e poco letto») non attribuisce affatto a Raffaello la funzione di Soprintendente ante litteram, ma gli spiega che «...per costruire il tempio del Principe degli Apostoli in Roma [...] è di massimo interesse disporre di una gran quantità di pietre e marmi, e che è opportuno trovarli in patria anziché cercarli altrove, ho accertato che le rovine dell’Urbe ( Urbis ruinas) bastano a fornire in abbondanza tali materiali». L’unica accortezza che il pontefice raccomanda, è quella di “salvare” le scritte latine che potrebbero essere d’interesse culturale.
Un po’ poco per un artista che aveva concepito e affrescato la Scuola d’Atene in un’architettura che nulla aveva da invidiare alle volte delle Terme di Domiziano o di Caracalla e per chi aveva strisciato fra gli sterpi per studiare e disegnare le bellezze antiche, come racconta in un passo che dà il titolo al libro: Raffaello fra gli sterpi. Le rovine di Roma e le origini della tutela (Skira). Allora l’idea fu quella di scrivere una lettera che si presentasse come un panegirico, ma che – in definitiva – indicasse al Papa la strada maestra da percorrere, evitando gli errori fatali per il patrimonio. Da navigato uomo di corte, Raffaello sapeva bene che doveva affascinare il potere e fare in modo che sembrassero sue le idee che andava a suggerire. Era l’unico modo per salvare Roma e trasformare il suo passato nel suo futuro.
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Da Avvenire 20220719
Dal brogliaccio della celebre lettera che il grande artista, col Castiglione, aveva rivolto a Leone X alle origini della tutela dei beni culturali. Un saggio di Ammanniti e Settis ne spiega l’importanza Lo scrittore inviò al pittore nel 1519 l’ultima bozza affinché la integrasse, però l’Urbinate l’anno dopo morì. Il manoscritto ha parti che possono essere solo opera sua
«Suono per tornare a casa»
Scappa dall’orrore del conflitto in Ucraina e si esibisce in strada per la pace La giovane musicista: «Stop alle bombe, voglio riabbracciare mia madre»
di Ilaria Vallerini
PISA Taya è scesa in strada e ha imbracciato il suo violino. «Fermate la guerra, voglio tornare da mia mamma», ha scritto su un cartoncino appoggiato sulla custodia aperta, dove custodisce il suo prezioso strumento.
Poi si è messa a suonare. La sua musica ieri ha toccato le corde più profonde dei passanti che sono rimasti elettrizzati ad ascoltarla all’angolo tra Corso Italia e via San Martino. Non c’è messaggio più forte che il suo: «Suono per dire basta a questo terribile conflitto che sta martoriando il mio Paese. Mi manca la mia famiglia, voglio tornare a casa in un’Ucraina libera».
La guerra le ha strappato la sua “vecchia“ vita e a soli 23 anni si è ritrovata in un Paese straniero. Parla a malapena italiano, perché è qui da sole tre settimane. Ma in inglese, con un filo di voce, racconta quello che le è successo. In Ucraina era una maestra di violino, poi le bombe hanno improvvisamente squarciato il cielo di Kiev ed è stata costretta ad abbandonare il Pese per mettersi in salvo. «I bombardamenti non cessavano mai e la paura era tanta. Poi sono riuscita a mettermi in contatto con alcuni miei amici di Bucha (città nella regione di Kiev) che mi hanno consigliato di scappare subito», racconta la ragazza.
Così Taya è partita portando con sé il suo più grande tesoro: il violino. Il pensiero corre subito a chi si è lasciata alle spalle. La mamma e le sorelle sono rimaste intrappolate nella morsa del conflitto nel Donbass. «Mio padre, invece, vive in Crimea – spiega –.
Il nostro rapporto si è incrinato da quando è scoppiata la guerra, perché, come tanti, crede alla propaganda russa e quindi ha una posizione diversa dalla nostra».
Intanto, i combattimenti si sono fatti sempre più intensi in Donbass e l’orrore della guerra ha distrutto la vita di chi è rimasto.
«La mia famiglia non è voluta scappare. Mia madre mi ha detto “io resto qua, non lascerò la mia casa né la mia terra“».
«Mi manca la mia famiglia - conclude -, anche se in Toscana ho trovato delle persone gentilissime che mi stanno ospitando».
Infatti, la giovane violinista attualmente vive in casa di una famiglia di Sesto Fiorentino che la sta ospitando da alcune settimane. Ma per Taya l’unica speranza è quella di tornare al più presto indietro «per riabbracciare finalmente sua mamma e le sue sorelle».
Nel frattempo, si è fatta coraggio e per la prima volta nella sua vita è scesa in strada e con il suo violino ha suonato, una musica profondamente straziante, ma al contempo sublime, per la pace e la libertà.
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Da La Nazione del 28 aprile 2022
Il processo a Galileo e i documenti
Nel processo del 1633 venne tradita l’impostazione di Bellarmino sulla teoria copernicana
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Il processo contro Galileo Galilei è un grande passaggio di quella che si suole chiamare storia. È stato oggetto di innumerevoli studi e di accurate perlustrazioni d’archivio da parte di moltissimi ricercatori e si tende dunque a pensare che se ne sappia tutto. Invece è da riscrivere, perché i fatti non sono stati ancora intesi. Il 16 giugno 1633 Galileo fu condannato come veementemente sospetto di eresia per aver sostenuto la cosmologia copernicana: la Terra non sta ferma e il Sole le gira attorno, come suggeriscono i sensi, bensì il contrario.
Affinché qualcuno potesse essere notato di eresia per aver sostenuto una determinata dottrina, occorreva — e occorre ancora, dato che la fattispecie non è stata abolita — che la dottrina da lui sostenuta fosse notata di eresia. Per dare logico fondamento al processo, gli storici hanno quindi supposto che tale condanna sia avvenuta in una seduta del Sant’Ufficio tenuta il 25 febbraio 1616 e sia stata poi pubblicata nel decreto dell’Indice datato 5 marzo. Invece questa condanna non esiste. E poiché la sentenza del 16 giugno 1633 non dichiara, neppure contestualmente, che il copernicanesimo è eresia, ma si limita a richiamare titoli insufficienti e ingannevoli, si può ben dire che la sentenza sia stata un imbroglio per lo stesso tribunale d’Inquisizione che la emanò e si sia basata su un documento falso.
Il processo a Galileo parte dal contrasto esistente tra i risultati eliocentrici dell’astronomia copernicana e il passo biblico di Giosuè, X, 12-13 che parla del Sole che corre da est a ovest attorno alla Terra immobile. Per risolvere questo contrasto, Galileo propose un nuovo metodo interpretativo così concepito: la Bibbia insegna verità morali, mentre riguardo alle verità naturali Dio, che ne è l’autore, si è adeguato alle credenze correnti tra le primitive popolazioni ebraiche dell’epoca per non scandalizzarle e rischiare così una ripulsa del messaggio morale.
Il cardinale Roberto Bellarmino rifiutò questa proposta per due ragioni: perché contrastante con il decreto della quarta sessione del Concilio di Trento che vietava ai privati l’interpretazione della Bibbia e perché una tale distinzione introduceva un principio destinato a mettere in discussione l’autorità del testo sacro. In seguito alla denuncia di un domenicano fiorentino, l’Inquisizione romana esaminò il problema e si divise tra un’ala intransigente, di gran lunga maggioritaria e guidata dai domenicani, che voleva dichiarare il copernicanesimo eretico e vietarne qualunque tipo di esposizione, e un’ala minoritaria più prudente guidata dal gesuita Bellarmino, il quale propose una soluzione di compromesso: la realtà è quella scritta nella Bibbia ed è dunque geocentrica, ma gli astronomi possono condurre ed esporre i loro calcoli partendo dall’ipotesi eliocentrica purché non ne affermino la corrispondenza a un fatto reale.
La tesi di Bellarmino prevalse perché appoggiata dal Papa Paolo V, ma l’aspro contrasto interno produsse una divergenza tra l’ammonizione impartita da Bellarmino a Galileo il 26 febbraio 1616 nei termini della sua dottrina e il verbale annotato dal notaio del Sant’Ufficio, Andrea de Pettini, secondo la formulazione intransigente dettatagli dal commissario domenicano Michelangelo Seghizzi. In altre parole, venne impartita a Galileo un’ammonizione formulata da Bellarmino in un modo e messa a verbale dal notaio in un altro.
Considerazioni diplomatiche, grafiche e testuali non lasciano infatti dubbi sul carattere di abusiva interpolazione proprio del cosiddetto «precetto Seghizzi», ma fu sulla base di questo documento che diciassette anni più tardi, nel 1632, l’Inquisizione romana costruì il processo. Quando poi Galileo, nel corso dell’interrogatorio del 12 aprile 1633, produsse il certificato autentico rilasciatogli da Bellarmino, il tribunale cumulò i due documenti senza rilevarne i contrasti e così fece perché questa era la volontà del nuovo Papa, Urbano VIII, che voleva la condanna per il dritto o per il rovescio.
Ciò non significa che Galileo si sia comportato in modo innocente e ligio ai dettami dell’Inquisizione romana per rimanere poi vittima di un’ingiustizia, perché il matematico pisano, a propria volta, violò la consegna, ricevuta nel 1616, di non sostenere la realtà del moto terrestre scrivendo un libro, il Dialogo dei massimi sistemi pubblicato nel 1632, che formalmente rispettava le condizioni postegli da Bellarmino, ma nella sostanza le violava dando risalto e forza agli argomenti diretti a sostenere la realtà del moto terrestre.
Galileo, che era uomo delle istituzioni e operava all’interno delle regole vigenti, cercò di comunicare il proprio pensiero e difendere le proprie idee rispettando formalmente la legalità ecclesiastica e in questo tentativo si infranse concludendo i propri giorni, in amaro ritiro. E questo è precisamente il significato del suo processo: tra la propria intelligenza e l’autorità, il buon cattolico Galileo Galilei scelse se stesso.
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Venerdì 09 Aprile 2021CORRIERE DELLA SERA
La santa bellezza della basilica-museo
L’insigne Basilica di Sant’Antonio in Padova è riflesso fedele di una storia radicata nel suolo ov’essa sorge, che include la memoria di antichi luoghi di culto pagano del IV secolo a.C. e di quel Patavium che diede a Roma uno dei suoi massimi storici, Tito Livio. Ma la Basilica travalica la dimensione cittadina già per l’origine portoghese del Santo, e più ancora per la possente architettura, che con la sua spettacolare coerenza sfida i tempi lunghi della costruzione. Un’accorta strategia progettuale seppe armonizzare segnali e indizi che vanno – attraverso Venezia – verso l’Oriente bizantino, ma anche lungo le direttrici del romanico e del gotico francese. Questo prodigioso organismo non ha nulla di eclettico o antologico, ma incarna un linguaggio sperimentale dove componenti lessicali di diversa origine si integrano in funzione espressiva.
Al contrasto fra le radici locali della Basilica e il suo respiro universale si accompagna il conflitto, nel nostro tempo, fra due funzioni delle grandi chiese storiche. Nate da un assiduo esercizio della pietà, questi templi della fede sono anche santuari dell’arte. Al Santo incontriamo Giotto e Donatello, Mantegna e Sansovino e Tiepolo; per non dire di una minuta topografia di cappelle, altari, annessi conventuali. Una varietà di voci, di tecniche artistiche, di materiali, di stili, di scuole regionali nella quale è stato possibile (e lo sarà certo anche nel futuro) fare autentiche scoperte, come è accaduto quando l’impronta di Giotto è stata riconosciuta nella sala del Capitolo, nella cappella della Madonna Mora e in una cappella Scrovegni (si veda «Domenica» de «Il Sole 24 Ore» del 5 maggio 2019) che preannuncia quella, più celebre, dell’Arena. Ma pur davanti al turismo di massa, il rapporto fra tempio della fede e sacrario dell’arte dev’essere necessariamente conflittuale?
Troviamo questa domanda nelle pagine di un romanzo famoso, Portrait of a Lady di Henry James (1881). La protagonista, Isabel Archer, mentre visita la Basilica di San Pietro in Roma «pagando il suo silenzioso tributo al sublime», osserva gli altri visitatori: «siccome, per la vastità del luogo, vi sembra diffuso un che di profano, che sembra adattarsi tanto bene alla contemplazione materiale che a quella spirituale, i devoti e i curiosi possono seguire i propri interessi senza scandali e senza conflitti». La distinzione dei visitatori di una chiesa in due schiere, i “devoti” e i “curiosi”, echeggia nell’analisi comportamentale proposta nel 1994 da Pierre Bourdieu. Le opere d’arte raccolte nelle chiese, egli osserva, sono nate per i fedeli e non per i conoscitori; ma la mescolanza di turisti e devoti segmenta lo spazio delle chiese, consacrando alcune aree alla preghiera e ritagliandone altre (dove s’impongano artisti di maggior pregio) per il culto profano dell’arte. Si costituisce così un «campo artistico che ubbidisce a norme proprie», una vera e propria “devozione artistica”. «Opere che all’origine potevano suscitare o, meglio, sollecitare la pietà religiosa sono oggi come istituzioni mutilate, la cui parte oggettivata, l’oggetto di culto, è sopravvissuta alla parte incorporata, la disposizione alla pietà: esse non sono rese a un’esistenza attiva se non come oggetti d’arte, e dunque al prezzo di un “errore di categoria” che provocano mobilitando, nei visitatori colti, la disposizione al piacere estetico».
Proviamo a leggere questa penetrante analisi come lungimirante apertura verso un discorso alternativo. Anziché dare per scontata l’opposizione fra le due “categorie” (devozione e percezione estetica), chiediamoci perché fra esse si è aperto un divorzio così radicale, e se non sia possibile ricomporle. Il bivio fra pratiche della pietà e sentimento della bellezza nasce da una diffusa laicizzazione della società, ma anche dalla musealizzazione di molte opere d’arte religiosa, strappate al loro contesto d’origine e deprivate della carica devozionale senza la quale non sarebbero mai nate. Tale sradicamento dal contesto è, anzi, più antico del museo pubblico come istituzione (la più antica fondazione al mondo che meriti tal nome furono i Musei Capitolini fondati da Clemente XII nel 1734), e responsabili ne furono anche uomini di Chiesa: per citare un esempio famoso, la Deposizione di Raffaello (1507) rimase solo cent’anni nella chiesa di Perugia per cui era stata dipinta, e ne fu trafugata nel 1608 per trasportarla a Roma, nei privati alloggi del cardinal Scipione Borghese (perciò oggi è a Villa Borghese).
Il moltiplicarsi di questo trapianto forzoso di opere d’arte cristiana dalle chiese a contesti collezionistici si traduce nell’etichetta di “museo” spesso affibbiata anche a chiese aperte al culto: «Emozioni da museo» è stato a lungo lo slogan lanciato dal Comune di Firenze per gli affreschi di Masaccio nella chiesa di Santa Maria del Carmine. Anzi, intere città vengono talvolta definite “città – museo”, e si è perfino parlato di un Museo Italia (è il titolo di un libro di Antonio Paolucci). Nonostante le ottime intenzioni, un tal linguaggio accredita la separatezza del “mondo dell’arte” (da confinarsi nei musei) dal mondo “reale”, quasi che in quest’ultimo non si avvertisse il bisogno di bellezza, o di emozioni.
La storia insegna che è vero l’opposto, e non solo per l’arte religiosa: i grandi cicli di arte profana che vediamo in luoghi privilegiati della vita comunale (come a Siena il Palazzo Pubblico, a Padova il Palazzo della Ragione) vennero concepiti perché ispirassero nei cittadini le forme e l’etica del governo. Con simile impulso l’arte cristiana incorporò nei contenuti teologici o devozionali la sapienza e lo splendore dello stile non come ingrediente supplementare e gratuito, bensì come strumento espressivo essenziale non solo a significare l’abilità del pittore o le intenzioni del committente, ma a parlare al fedele trasmettendogli il senso del sacro, la memoria del Vangelo o dei Santi, la visione cristiana del mondo. Quell’assidua ricerca di bellezza fu dunque perseguita in funzione della fede, come dispositivo di devozione e di pietà. Anziché vivere l’arte cristiana ancora conservata nelle chiese come se, invece, fosse in un laico museo, dovremmo saper fare il contrario: quando visitiamo un museo, ricostruire mentalmente ed emotivamente l’originario contesto religioso di quadri e statue. Una ricomposizione delle due dimensioni, la pratica della pietà e l’ammirazione estetica, è infatti necessaria per intendere storicamente le opere d’arte cristiana.
Laboratorio privilegiato per un tale esercizio sono le chiese dove la distinzione fra “devoti” e “curiosi” è meno netta, e fra queste primeggia la Basilica Antoniana di Padova. Qui l’enorme flusso di visitatori (oltre 6 milioni l’anno) è determinato dalla devozione al Santo, e la stessa topografia interna della Basilica (come la collocazione delle preziose sculture di Donatello nel presbiterio) frena la neutralizzazione “turistica” dell’inclinazione alla pietà. La presenza soverchiante del sacro aiuta a cogliere l’intima fusione fra il movente devozionale di ogni opera e l’impegno di artisti e committenti per accrescerne forza e respiro anche per le generazioni successive. La ricchissima messe di immagini non ha nulla del museo, ma è una trama volta a celebrare non solo il Santo, ma la storia della Salvezza.
Questi tre ricchissimi volumi, percorrendo con amore e competenza la storia e i tesori della Basilica, tracciano non solo la mappa e il censimento di quel ch’essa ci dona alla mente e alla vista, ma anche l’invito a riflettere sulla natura e sul destino dell’arte sacra in un tempo difficile e complesso come il nostro. Perciò dobbiamo esserne grati a chi ha voluto offrircelo in lettura: i curatori Luciano Bertazzo e Girolamo Zampieri, la Veneranda Arca di S. Antonio, il Comitato Scientifico, la schiera degli Autori. Le parole introduttive di papa Francesco nella prima pagina del libro dicono da sole l’importanza della Basilica e di questa sua ragionata esplorazione.
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Da Il Sole 24Ore – Domenica – Arte del 23 gennaio 2022
Meraviglie d’Italia. Sant’Antonio a Padova è un luogo di fervido culto e strepitoso scrigno d’arte Come possono armonizzarsi le esigenze della devozione con quelle estetiche del turismo laico?
Di Salvatore Settis
The heaviness of being successful was replaced by the lightness of being a beginner again, less sure about everything.
https://www.youtube.com/watch?v=1i9kcBHX2Nw
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I am honored to be with you today at your commencement from one of the finest universities in the world.
I never graduated from college. Truth be told, this is the closest I’ve ever gotten to a college graduation.
Today I want to tell you three stories from my life. That’s it. No big deal. Just three stories.
The first story in about connecting the dots.
I dropped out of Reed College after the first 6 months, but then stayed around as a drop-in for another 18 months or so before I really quit.
So why did I drop out? It started before I was born. My biological mother was a young, unwed college graduate student, and she decided to put me up for adoption. She felt very strongly that I should be adopted by college graduates, so everything was all set for me to be adopted at birth by a lawyer and his wife. Except that when I popped out they decided at the last minute that they really wanted a girl. So my parents, who were on a waiting list, got a call in the middle of the night asking: “We've got an unexpected baby boy; do you want him?” They said: “Of course.” My biological mother found out later that my mother had never graduated from college and that my father had never graduated from high school. She refused to sign the final adoption papers. She only relented a few months later when my parents promised that I would go to college.
This was the start in my life.
And 17 years later I did go to college. But I naively chose a college that was almost as expensive as Stanford, and all of my working-class parents’ savings were being spent on my college tuition. After six months, I couldn’t see the value in it. I had no idea what I wanted to do with my life and no idea how college was going to help me figure it out. And here I was spending all of the money my parents had saved their entire life.
So I decided to drop out and trust that it would all work out OK. It was pretty scary at the time, but looking back it was one of the best decisions I ever made.
The minute I dropped out I could stop taking the required classes that didn’t interest me, and begin dropping in on the ones that looked far more interesting. It wasn’t all romantic. I didn’t have a dorm room, so I slept on the floor in friends’ rooms, I returned Coke bottles for the 5¢ deposits to buy food with, and I would walk the 7 miles across town every Sunday night to get one good meal a week at the Hare Krishna temple. I loved it. And much of what I stumbled into by following my curiosity and intuition turned out to be priceless later on. Let me give you one example: Reed College at that time offered perhaps the best calligraphy instruction in the country. Throughout the campus every poster, every label on every drawer, was beautifully hand calligraphed. Because I had dropped out and didn’t have to take the normal classes, I decided to take a calligraphy class to learn how to do this. I learned about serif and sans serif typefaces, about varying the amount of space between different letter combinations, about what makes great typography great. It was beautiful, historical, artistically subtle in a way that science can’t capture, and I found it fascinating.
None of this had even a hope of any practical application in my life.
But 10 years later, when we were designing the first Macintosh computer, it all came back to me.
And we designed it all into the Mac. It was the first computer with beautiful typography. If I had never dropped in on that single course in college, the Mac would have never had multiple typefaces or proportionally spaced fonts.
And since Windows just copied the Mac, it’s likely that no personal computer would have them.
If I had never dropped out, I would have never dropped in on this calligraphy class, and personal computers might not have the wonderful typography that they do.
Of course it was impossible to connect the dots looking forward when I was in college. But it was very, very clear looking backward 10 years later.
Again, you can’t connect the dots looking forward; you can only connect them looking backward.
So you have to trust that the dots will somehow connect in your future.
You have to trust in something — your gut, destiny, life, karma, whatever.
Because believing that the dots will connect down the road it'll give you the confidence to follow your heart.
This approach has never let me down, and it has made all the difference.
My second story is about love and loss.
I was lucky — I found what I loved to do early in life. Woz and I started Apple in my parents’ garage when I was 20. We worked hard, and in 10 years Apple had grown from just the two of us in a garage into a $2 billion company with over 4,000 employees. We had just released our finest creation — the Macintosh — a year earlier, and I had just turned 30.
And then I got fired.
How can you get fired from a company you started?
Well, as Apple grew we hired someone who I thought was very talented to run the company with me, and for the first year or so things went well. But then our visions of the future began to diverge and eventually we had a falling out. When we did, our Board of Directors sided with him.
So at 30 I was out. And very publicly out.
What had been the focus of my entire adult life was gone, and it was devastating. I really didn’t know what to do for a few months.
I felt that I had let the previous generation of entrepreneurs down — that I had dropped the baton as it was being passed to me. I met with David Packard and Bob Noyce and tried to apologize for screwing up so badly.
I was a very public failure, and I even thought about running away from the valley. But something slowly began to dawn on me — I still loved what I did.
The turn of events at Apple had not changed that one bit. I had been rejected, but I was still in love. And so I decided to start over.
I didn’t see it then, but it turned out that getting fired from Apple was the best thing that could have ever happened to me.
The heaviness of being successful was replaced by the lightness of being a beginner again, less sure about everything.
It freed me to enter one of the most creative periods of my life.
During the next five years, I started a company named NeXT, another company named Pixar, and fell in love with an amazing woman who would become my wife. Pixar went on to create the world’s first computer animated feature film, Toy Story, and is now the most successful animation studio in the world. In a remarkable turn of events, Apple bought NeXT, I returned to Apple, and the technology we developed at NeXT is at the heart of Apple’s current renaissance. And Laurene and I have a wonderful family together.
I’m pretty sure none of this would have happened if I hadn’t been fired from Apple. It was awful tasting medicine, but I guess the patient needed it.
Sometimes life hits you in the head with a brick. Don’t lose faith. I’m convinced that the only thing that kept me going was that I loved what I did. You’ve got to find what you love. And that is as true for your work as it is for your lovers. Your work is going to fill a large part of your life, and the only way to be truly satisfied is to do what you believe is great work.
And the only way to do great work is to love what you do. If you haven’t found it yet, keep looking. Don’t settle. As with all matters of the heart, you’ll know when you find it. And, like any great relationship, it just gets better and better as the years roll on. So keep looking until you find it. Don’t settle.
My third story is about death.
When I was 17, I read a quote that went something like: “If you live each day as if it was your last, someday you’ll most certainly be right.” It made an impression on me, and since then, for the past 33 years, I have looked in the mirror every morning and asked myself: “If today were the last day of my life, would I want to do what I am about to do today?” And whenever the answer has been “No” for too many days in a row, I know I need to change something.
Remembering that I’ll be dead soon is the most important tool I’ve ever encountered to help me make the big choices in life.
Because almost everything — all external expectations, all pride, all fear of embarrassment or failure — these things just fall away in the face of death, leaving only what is truly important.
Remembering that you are going to die is the best way I know to avoid the trap of thinking you have something to lose.
You are already naked. There is no reason not to follow your heart. About a year ago I was diagnosed with cancer. I had a scan at 7:30 in the morning, and it clearly showed a tumor on my pancreas. I didn’t even know what a pancreas was. The doctors told me this was almost certainly a type of cancer that is incurable, and that I should expect to live no longer than three to six months.
My doctor advised me to go home and get my affairs in order, which is doctor’s code for prepare to die.
It means to try to tell your kids everything you thought you’d have the next 10 years to tell them in just a few months. It means to make sure everything is buttoned up so that it will be as easy as possible for your family. It means to say your goodbyes. I lived with that diagnosis all day. Later that evening I had a biopsy, where they stuck an endoscope down my throat, through my stomach and into my intestines, put a needle into my pancreas and got a few cells from the tumor. I was sedated, but my wife, who was there, told me that when they viewed the cells under a microscope the doctors started crying because it turned out to be a very rare form of pancreatic cancer that is curable with surgery. I had the surgery and thankfully I’m fine now. This was the closest I’ve been to facing death, and I hope it’s the closest I get for a few more decades.
Having lived through it, I can now say this to you with a bit more certainty than when death was a useful but purely intellectual concept: No one wants to die. Even people who want to go to heaven don’t want to die to get there.
And yet death is the destination we all share.
No one has ever escaped it. And that is as it should be, because Death is very likely the single best invention of Life. It is Life’s change agent. It clears out the old to make way for the new.
Right now the new is you, but someday not too long from now, you will gradually become the old and be cleared away.
Sorry to be so dramatic, but it is quite true. Your time is limited, so don’t waste it living someone else’s life.
Don’t be trapped by dogma — which is living with the results of other people’s thinking.
Don’t let the noise of others’ opinions drown out your own inner voice.
And most important, have the courage to follow your heart and intuition. They somehow already know what you truly want to become.
Everything else is secondary.
When I was young, there was an amazing publication called The Whole Earth Catalog, which was one of the bibles of my generation. It was created by a fellow named Stewart Brand not far from here in Menlo Park, and he brought it to life with his poetic touch. This was in the late 1960s, before personal computers and desktop publishing, so it was all made with typewriters, scissors and Polaroid cameras. It was sort of like Google in paperback form, 35 years before Google came along: It was idealistic, and overflowing with neat tools and great notions.
Stewart and his team put out several issues of The Whole Earth Catalog, and then when it had run its course, they put out a final issue. It was the mid-1970s, and I was your age. On the back cover of their final issue was a photograph of an early morning country road, the kind you might find yourself hitchhiking on if you were so adventurous.
Beneath it were the words: “Stay Hungry. Stay Foolish.” It was their farewell message as they signed off.
Stay Hungry. Stay Foolish. And I have always wished that for myself. And now, as you graduate to begin anew, I wish that for you. Stay Hungry. Stay Foolish.
Thank you all very much.
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Tratto da
#EnglishSpeeches#Sottotitoli#LearnEnglish
DISCORSO INGLESE | STEVE JOBS: Stanford Commencement (sottotitoli in inglese)
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STEVE JOBS Stay Hungry. Stay Foolish
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“ Rimani affamato. Rimanere sciocco." Steve Jobs
TRASCRIZIONE completa:
“Sono onorato di essere con te oggi al tuo inizio da una delle migliori università del mondo. Non mi sono mai laureato. A dire il vero, questa è la cosa più vicina che abbia mai ottenuto a una laurea. Oggi voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Questo è tutto. Nessun grosso problema. Solo tre storie.
Ho abbandonato il Reed College dopo i primi 6 mesi, ma poi sono rimasto come drop-in per altri 18 mesi circa prima di smettere davvero. Allora perché ho abbandonato?
È iniziato prima che io nascessi. Mia madre biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e decise di darmi in adozione. Sentiva fortemente che dovevo essere adottato dai laureati, quindi tutto era pronto per farmi adottare alla nascita da un avvocato e da sua moglie. Solo che quando sono uscito hanno deciso all'ultimo minuto che volevano davvero una ragazza. Così i miei genitori, che erano in lista d'attesa, hanno ricevuto una telefonata nel cuore della notte chiedendo: “Abbiamo un bambino inaspettato; lo vuoi? "Hanno detto: "Naturalmente". La mia madre biologica in seguito scoprì che mia madre non si era mai laureata e che mio padre non si era mai diplomato al liceo. Si è rifiutata di firmare i documenti finali di adozione. Ha ceduto solo pochi mesi dopo, quando i miei genitori hanno promesso che un giorno sarei andato al college.
E 17 anni dopo sono andato al college. Ma ho scelto ingenuamente un college che costava quasi quanto Stanford, e tutti i risparmi dei miei genitori della classe lavoratrice venivano spesi per le mie tasse universitarie. Dopo sei mesi, non ho potuto vedere il valore in esso. Non avevo idea di cosa volevo fare della mia vita e non avevo idea di come il college mi avrebbe aiutato a capirlo. E qui stavo spendendo tutti i soldi che i miei genitori avevano salvato per tutta la vita. Quindi ho deciso di abbandonare e confidare che tutto sarebbe andato bene. All'epoca era piuttosto spaventoso, ma ripensandoci è stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nel momento in cui ho abbandonato, ho potuto smettere di frequentare le lezioni richieste che non mi interessavano e iniziare a frequentare quelle che sembravano interessanti.
Non era tutto romantico. Non avevo un dormitorio, quindi dormivo per terra nelle stanze degli amici, restituivo le bottiglie di Coca-Cola per i depositi di 5 ¢ con cui comprare cibo, e camminavo per 7 miglia attraverso la città ogni domenica sera per averne una buona pasto una settimana al tempio Hare Krishna. Lo amavo. E molto di ciò in cui sono incappato seguendo la mia curiosità e intuizione si è rivelato in seguito inestimabile. Lascia che ti faccia un esempio:
Il Reed College a quel tempo offriva forse la migliore istruzione di calligrafia del paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto era scritto a mano in modo meraviglioso. Poiché avevo abbandonato gli studi e non dovevo seguire i corsi normali, ho deciso di seguire un corso di calligrafia per imparare a farlo. Ho imparato a conoscere i caratteri serif e sans serif, come variare la quantità di spazio tra le diverse combinazioni di lettere, su ciò che rende eccezionale una grande tipografia. Era bello, storico, artisticamente sottile in un modo che la scienza non può catturare, e l'ho trovato affascinante.
Niente di tutto questo aveva nemmeno la speranza di un'applicazione pratica nella mia vita. Ma 10 anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Macintosh, mi è tornato in mente tutto. E abbiamo progettato tutto nel Mac. È stato il primo computer con una bella tipografia. Se non fossi mai entrato in quel singolo corso al college, il Mac non avrebbe mai avuto più caratteri tipografici o caratteri con spaziatura proporzionale. E poiché Windows ha appena copiato il Mac, è probabile che nessun personal computer li abbia. Se non avessi abbandonato gli studi, non sarei mai entrato in questo corso di calligrafia, ei personal computer potrebbero non avere la meravigliosa tipografia che hanno. Ovviamente era impossibile collegare i punti guardando avanti quando ero al college. Ma era molto, molto chiaro guardando indietro 10 anni dopo.
Ancora una volta, non puoi collegare i punti guardando avanti; puoi collegarli solo guardando indietro. Quindi devi fidarti che i punti si connetteranno in qualche modo nel tuo futuro. Devi fidarti di qualcosa: il tuo istinto, il destino, la vita, il karma, qualunque cosa. Questo approccio non mi ha mai deluso e ha fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia parla di amore e perdita.
Sono stato fortunato: ho trovato quello che amavo fare presto nella vita. Woz e io abbiamo fondato Apple nel garage dei miei genitori quando avevo 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in 10 anni Apple è cresciuta da solo noi due in un garage a un'azienda da 2 miliardi di dollari con oltre 4.000 dipendenti. Avevamo appena pubblicato la nostra migliore creazione - il Macintosh - un anno prima, e avevo appena compiuto 30 anni. E poi sono stato licenziato. Come puoi essere licenziato da un'azienda che hai fondato? Ebbene, mentre Apple cresceva, abbiamo assunto qualcuno che pensavo avesse molto talento per gestire l'azienda con me, e per il primo anno circa le cose sono andate bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto un litigio. Quando lo abbiamo fatto, il nostro consiglio di amministrazione si è schierato con lui. Quindi a 30 anni ero fuori. E molto pubblicamente. Quello che era stato l'obiettivo di tutta la mia vita adulta non c'era più, ed era devastante.
Non sapevo davvero cosa fare per alcuni mesi. Sentivo di aver deluso la precedente generazione di imprenditori, di aver lasciato cadere il testimone mentre mi veniva passato. Ho incontrato David Packard e Bob Noyce e ho cercato di scusarmi per aver sbagliato così tanto. Sono stato un fallimento pubblico e ho persino pensato di scappare dalla valle. Ma qualcosa lentamente cominciò a sorgere in me: amavo ancora quello che facevo. La svolta degli eventi in Apple non aveva cambiato un po '. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. E così ho deciso di ricominciare.
Allora non l'ho visto, ma si è scoperto che essere licenziato da Apple è stata la cosa migliore che mi potesse capitare. La pesantezza di avere successo è stata sostituita dalla leggerezza di essere di nuovo un principiante, meno sicuro di tutto. Mi ha liberato di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Durante i successivi cinque anni, ho fondato una società chiamata NeXT, un'altra società chiamata Pixar, e mi sono innamorato di una donna straordinaria che sarebbe diventata mia moglie. Pixar ha continuato a creare il primo film di animazione al computer al mondo, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In una notevole svolta di eventi, Apple ha acquistato NeXT, io sono tornato in Apple e la tecnologia che abbiamo sviluppato in NeXT è al centro dell'attuale rinascita di Apple. E Laurene ed io abbiamo una famiglia meravigliosa insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. Era una medicina dal sapore orribile, ma immagino che il paziente ne avesse bisogno. A volte la vita ti colpisce alla testa con un mattone. Non perdere la fede. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha fatto andare avanti è stata che ho amato quello che ho fatto. Devi trovare ciò che ami. E questo vale tanto per il tuo lavoro quanto per i tuoi amanti. Il tuo lavoro riempirà gran parte della tua vita e l'unico modo per essere veramente soddisfatto è fare ciò che ritieni sia un ottimo lavoro. E l'unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. Se non l'hai ancora trovato, continua a cercare. Non accontentarti. Come per tutte le questioni di cuore, saprai quando lo troverai. E, come ogni grande relazione, migliora sempre di più con il passare degli anni. Quindi continua a cercare finché non lo trovi. Non accontentarti.
La mia terza storia riguarda la morte.
Quando avevo 17 anni, ho letto una citazione che diceva: "Se vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno sicuramente avrai ragione". Mi ha impressionato e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato allo specchio ogni mattina e mi sono chiesto: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare?" fare oggi? " E ogni volta che la risposta è stata "No" per troppi giorni di seguito, so che ho bisogno di cambiare qualcosa.
Ricordare che sarò morto presto è lo strumento più importante che abbia mai incontrato per aiutarmi a fare le grandi scelte nella vita. Perché quasi tutto - tutte le aspettative esterne, tutto l'orgoglio, tutta la paura dell'imbarazzo o del fallimento - queste cose semplicemente svaniscono di fronte alla morte, lasciando solo ciò che è veramente importante. Ricordare che stai per morire è il modo migliore che conosco per evitare la trappola di pensare di avere qualcosa da perdere. Sei già nudo. Non c'è motivo per non seguire il tuo cuore.
Circa un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto una scansione alle 7:30 del mattino e ha mostrato chiaramente un tumore al pancreas. Non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I medici mi hanno detto che questo era quasi certamente un tipo di cancro incurabile e che avrei dovuto aspettarmi di vivere non più di tre o sei mesi. Il mio medico mi ha consigliato di andare a casa e mettere in ordine i miei affari, che è il codice del medico per prepararmi a morire. Significa provare a dire ai tuoi figli tutto ciò che pensavi di avere nei prossimi 10 anni per dirglielo in pochi mesi. Significa assicurarsi che tutto sia abbottonato in modo che sia il più semplice possibile per la tua famiglia. Significa dire addio.
Ho convissuto con quella diagnosi tutto il giorno. Più tardi quella sera feci una biopsia, dove mi misero un endoscopio in gola, attraverso lo stomaco e nell'intestino, misero un ago nel mio pancreas e presero alcune cellule dal tumore. Ero sedato, ma mia moglie, che era lì, mi ha detto che quando hanno visto le cellule al microscopio i medici hanno iniziato a piangere perché si è rivelata una forma molto rara di cancro al pancreas curabile con la chirurgia. Ho subito l'operazione e ora sto bene.
Questo è stato il momento in cui sono stato più vicino ad affrontare la morte, e spero che sia il più vicino che ho avuto per qualche altro decennio. Dopo averlo vissuto, ora posso dirti questo con un po 'più di certezza rispetto a quando la morte era un concetto utile ma puramente intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per arrivarci. Eppure la morte è la destinazione che condividiamo tutti. Nessuno è mai sfuggito. Ed è come dovrebbe essere, perché la Morte è molto probabilmente la migliore invenzione della Vita. È l'agente di cambiamento della vita. Cancella il vecchio per far posto al nuovo. In questo momento il nuovo sei tu, ma un giorno, non troppo a lungo, diventerai gradualmente il vecchio e verrai spazzato via. Mi dispiace essere così drammatico, ma è proprio vero.
Il tuo tempo è limitato, quindi non sprecarlo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciarti intrappolare dal dogma, che è vivere con i risultati del pensiero degli altri. Non lasciare che il rumore delle opinioni degli altri offuschi la tua voce interiore. E, cosa più importante, abbi il coraggio di seguire il tuo cuore e il tuo intuito. In qualche modo sanno già cosa vuoi veramente diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero giovane, c'era una pubblicazione straordinaria chiamata The Whole Earth Catalog, che era una delle bibbie della mia generazione. È stato creato da un tizio di nome Stewart Brand non lontano da qui a Menlo Park, e lo ha portato in vita con il suo tocco poetico. Era la fine degli anni '60, prima dei personal computer e del desktop publishing, quindi era tutto realizzato con macchine da scrivere, forbici e fotocamere Polaroid. Era un po 'come Google in formato tascabile, 35 anni prima che Google arrivasse: era idealista e traboccante di strumenti puliti e ottime nozioni.
Stewart e il suo team hanno pubblicato diversi numeri di The Whole Earth Catalog e poi, quando ha finito il suo corso, hanno pubblicato un numero finale. Era la metà degli anni '70 e io avevo la tua età. Sul retro della copertina dell'ultimo numero c'era una fotografia di una strada di campagna di prima mattina, del tipo su cui potresti ritrovarti a fare l'autostop se fossi così avventuroso. Sotto c'erano le parole: “Stay Hungry. Rimanere sciocco."Era il loro messaggio di addio quando hanno firmato. Sii affamato. Rimanere sciocco. E l'ho sempre desiderato per me stesso. E ora, mentre vi diplomate per ricominciare da capo, lo auguro a voi.
Sii affamato. Rimanere sciocco.
Grazie mille a tutti.
Steve Jobs
Rating e merito di credito delle aziende - L'intelligenza (anche artificiale) è italiana)
INNOVAZIONE
Il rating del futuro è italiano E si basa su algoritmi e AI
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Delle trentadue agenzie di rating autorizzate dall’Esma a lavorare in Europa quattro sono italiane. Una è la divisione italiana di Moody’s (S& P e Fitch ci “giudicano” dal quartier generale europeo, in Irlanda), quindi ci sono i nomi noti Crif e Cerved e poi c’è un’agenzia più piccola ma ultra-innovativa, l’unica fintech europea del settore. Si chiama modefinance ed è nata nell’ambiente universitario di Trieste. «Sono un ingegnere, docente di metodi numerici, mi occupavo di tutt’altro, come della progettazione delle barche dell’America’s Cup» racconta Valentino Pediroda, uno dei due fondatori di modefinance. Da una chiacchierata tra ricercatori Pediroda quindici anni fa scopre quanto i sistemi per valutare il merito di credito per le aziende fossero superati, realizzati in gran parte con procedure manuali. L’apertura di un bando del MIUR per la ricerca su “Sistemi complessi in Economia” dà la spinta a questo ingegnere e a Mattia Ciprian, che a Trieste ha conseguito anche un dottorato in finanza aziendale, ad approfondire la realtà dei rating. Modefinance, fondata da Pediroda e Ciprian nel 2009, nasce da quegli studi: «L’idea di partenza è stata quella di digitalizzare il processo di rating. È un’attività che coinvolge un’enorme mole di dati, per chi come me viene dall’ingegneria è stato naturale vedere il potenziale della digitalizzazione di questa attività».
Il cuore tecnologico dell’azienda è la metodologia MORE (sigla che sta per Multi Objective Rating Evaluation), che combina teoria finanziaria, analisi statistica e metodi numerici per analizzare il rischio di credito di qualsiasi società al mondo. Molto si gioca sui database che offrono una straordinaria quantità di dati pubblici sull’attività aziendale. Modefinance in automatico raccoglie i dati, li “pulisce”, li rende omogenei e grazie all’algoritmo MORE fornisce una prima valutazione della solidità dell’impresa.
Sulla base di quelle informazioni i suoi analisti finanziari preparano i rating. Gli algoritmi e sistemi di machine learning affiancano gli analisti, non li sostituiscono: «L’intervento umano resta indispensabile. La valutazione dei dati spesso è molto complessa anche per l’algoritmo, l’analista sa correggerla e arricchirla». Sono sempre di più le aziende che si rivolgono a questa fintech per avere una valutazione del credito per loro o per clienti e fornitori. Modefinance ha lavorato con grandi gruppi come Piaggio, Saxo Bank o Dupont ma si rivolge anche ad aziende di dimensioni più piccole. «Anche società da 10-15 milioni di fatturato grazie ai rating possono accedere a strumenti finanziari come i minibond, il nostro business model si fonda sull’intento di rendere accessibili i rating alle Pmi» spiega Pediroda.
La crescita di questa agenzia di rating italiana – che oggi ha 40 dipendenti tra Trieste e Milano, aumenta il fatturato del 50% anno su anno e ha chiuso il 2020 con 4 milioni di euro di ricavi – non è sfuggita a TeamSystem, società leader in Italia nello sviluppo di sistemi gestionali per le imprese. A marzo TeamSystem ha preso la quota di maggioranza di modefinance (il 59%) con un’opzione per salire al 100% nel 2025. «Questa alleanza è frutto di una tendenza globale chiara. Un tempo c’erano le aziende che producevano i dati e quelle che li compravano. Oggi questi due mondi si stanno unendo, come confermano operazioni come S& P-Markit o Moody’s-Bureau van Dijk – spiega Pediroda –. Noi nel nostro piccolo ci siamo mossi: TeamSystem è un’azienda gestita da manager, controllata da un fondo americano, con un business model che funziona. Questa operazione ci può dare accesso a dati che saranno utilissimi per fare valutazione dei rating anche in tempo reale. Assieme possiamo diventare leader nell’intero mondo dell’analisi e della valutazione del credito » .
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Da Avvenire - 20210810 – PIETRO SACCÒ
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La triestina modefinance, nata dal mondo della ricerca universitaria, è la prima fintech del settore. «Rendiamo i giudizi sul merito di credito accessibili alle Pmi». A marzo è entrato il gruppo TeamSystem, che ne accelererà la crescita
She walks in beauty
George Gordon Byron
1788 / 1824
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https://www.youtube.com/watch?v=Oh81uGnkMqg#action=share
She walks in beauty, like the night
Of cloudless climes and starry skies;
And all that’s best of dark and bright
Meet in her aspect and her eyes:
Thus mellowed to that tender light
Which heaven to gaudy day denies.
Ella incede in bellezza, come la notte
di climi tersi e di cieli stellati;
E tutto il meglio del buio e della luce
s’incontra nel suo viso e nei suoi occhi:
Così addolciti da quel tenero bagliore
che il cielo nega al giorno fatto.
One shade the more, one ray the less,
Had half impaired the nameless grace
Which waves in every raven tress,
Or softly lightens o’er her face;
Where thoughts serenely sweet express
How pure, how dear their dwelling place.
Un’ombra in più, un raggio in meno,
avrebbero turbato la grazia indicibile
che ondeggia in ogni ricciolo corvino,
O dolcemente schiarisce sul suo viso;
dove pensieri serenamente dolci mostrano
quanto pura, quanto cara sia la loro dimora.
And on that cheek, and o’er that brow,
So soft, so calm, yet eloquent,
The smiles that win, the tints that glow,
But tell of days in goodness spent,
E su quella guancia, e su quella fronte,
così dolce, così calma, eppure eloquente,
i sorrisi che incantano, i colori che brillano,
e raccontano di giorni spesi nella bontà,
A mind at peace with all below,
A heart whose love is innocent!
Una mente in pace con il mondo,
Un cuore colmo di amore innocente!
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"She Walks in Beauty" is a short lyrical poem in iambic tetrameter written in 1814 by Lord Byron, and is one of his most famous works.[2]
It is said to have been inspired by an event in Byron's life. On 11 June 1814, Byron attended a party in London. Among the guests was Mrs. Anne Beatrix Wilmot, wife of Byron’s first cousin, Sir Robert Wilmot. He was struck by her unusual beauty, and the next morning the poem was written.[3]
It is thought that she was the first inspiration for his unfinished epic poem about Goethe, a personal hero of his. In this unpublished work, which Byron referred to in his letters as his magnum opus, he switches the gender of Goethe and gives him the same description of his cousin