Sport luogo di storie ma, soprattutto, di valori.
Sport luogo di storie ma, soprattutto, di valori.
«Al pomeriggio ci portavamo in cortile per la merenda e la ricreazione. Aspettavamo con ansia quel momento per correre dietro a un pallone e per sfinirci in memorabili sfide nel campetto della colonia. Ricordo come fosse adesso quel rombo di aereo. Aevavamo ancora nelle orecchie l'incubo dei motori da guerra e quindi ci fermammo tutti con il naso per aria. Lilina Macotta la nostra assistente, ci regalò un'ipotesi emozionante: «Dev'essere l'aereo del Toro». Ricominciammo subito a correre dietro alla palla». Il Mio Toro. La mia Missione, di don Aldo Rabino (1939 - 2015) e Beppe Gandolfo (1959) Don Aldo Rabino, promessa del calcio giovanile, lascia lo sport attivo per diventare, nel 1968, sacerdote salesiano. Si dedica ai poveri dell'America Latina attraverso OASI [http://www.oasimaen.it] da lui stesso fondata e operante con 500 volontari. Dal 1971 raccoglie il testimone di don Francesco Ferraudo nell'incarico di padre spirituale del Torino FC che manterrà per tutto il resto delal sua vita. Giuseppe "Beppe" Gandolfo è nato a Torino il 19 marzo 1959. È iscritto all'Ordine dei giornalisti del Piemonte-Valle d'Aosta come professionista dal 19 febbraio 1991. Ha collaborato con Telesubalpina Torino e Avvenire. Assunto per 8 anni all'Agenzia Ansa, oggi lavora al Tg5 e ha la qualifica di corrispondente dal Piemonte e dalla Valle d'Aosta.
Così si comporta un vero capitano
Umanità e forza, la lezione di Kjaer Così si comporta un vero capitano
Ha subito soccorso Eriksen, poi organizzato il cordone e consolato la moglie: un leader nel momento del bisogno
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
Ci vorrebbe la penna di Walt Whitman («Capitano! O mio capitano!») per celebrare la figura di Simon Kjaer. Si proverà qui, più indegnamente, a raccontare le gesta di un calciatore che fino a due giorni fa era uno dei tanti, uno che non passerà alla storia come Messi o Ibrahimovic, e che da sabato è celebrato da tutti, indipendentemente dalla propria squadra del cuore. Si badi bene, qui non si tratta di calcio, ma di vita. Simon Kjaer è in sintesi l’amico che tutti vorremmo avere al nostro fianco, nel momento della tragedia. È l’uomo che sa prendere la decisione giusta, ha sangue freddo, umanità e empatia. È un vero primus inter pares, è il Capitano, e infatti nella nazionale danese lo è per davvero. Riguardate le immagini che hanno fatto trattenere il fiato sospeso per il destino di Christian Eriksen, se ne avete la forza. Il campione della Danimarca e dell’Inter piomba a terra, privo di sensi. Kjaer è lontano, arriva di corsa dalla difesa. Caccia via un compagno, perché sa cosa bisogna fare immediatamente: spostare la lingua del compagno e liberare le vie aeree. Kjaer è lucido, quando la disperazione appare scontata. Rimane accanto all’amico mentre i medici iniziano a praticargli i primi soccorsi. Anzi, c’è un attimo in cui il dottore gli chiede di farsi da parte. Lì, mentre i compagni si aggirano disperati, Kjaer fa un gesto di una tenerezza infinita. Mette una mano sulla spalla di Eriksen. Come a dire ‘non ti lascio qui da solo, sono al tuo fianco in questa battaglia. Vada come vada’. Quando i giocatori si dispongono in cerchio per non far trasformare la scena in un macabro spettacolo, c’è quest’altra immagine che è l’emblema di cosa significa essere un condottiero: i compagni che si girano di spalle, chi in lacrime, chi in preghiera, e uno di loro, il Capitano, che guarda Eriksen. È l’unico che non si volterà mai. Guarda lui, a nome di tutta la squadra. E a nome di tutti, si accolla la parte forse più dolorosa, quella di abbracciare Sabrina, la moglie di Eriksen, che è scesa in campo in preda alla disperazione. La stringe, la avvicina al petto, le sussurra parole che rimarranno per sempre loro, e solo allora, Sabrina, forse un pochino rassicurata, gli mette una mano sulla schiena. Io non lo so quanti ‘capitani’ conosciate voi, in grado di incarnare davvero i valori di umanità, forza e coraggio necessari nel momento del bisogno. Siamo abituati ad associare, nello sport come in lavoro o in politica, il ruolo del leader al concetto di privilegio. Il capo sul posto di lavoro è quello che spesso confonde l’autorevolezza con l’autoritarismo, il leader di partito è quello che talvolta pretende solo fedeltà assoluta in cambio di un posto al sole e una qualche poltrona. E il capitano nel mondo del calcio, almeno fino a ieri, era il campione in grado di fare un gol o la parata decisiva, quello che in spogliatoio fa la voce grossa, e magari serve per andare dal presidente a contrattare un premio partita per tutti. Kjaer ha ribaltato in pochi minuti questo paradigma, riportandolo al senso vero delle priorità: il capitano è quello che si mette al servizio della squadra e dei compagni in difficoltà. È il numero uno non perché è bizzoso ma perché dà l’esempio, è la persona su cui si può contare, su un calcio d’angolo o quando la vita ti si rivolta contro. E che poi, quando la partita riprende, esce dal campo dopo pochi minuti, perché forse qualcosa gli si è rotto dentro. Perché un vero capitano sa essere forte per gli altri, e magari fragile per se stesso. Sì, ci vorrebbe Walt Whitman per celebrare degnamente Kjaer. Dargli invece la fascia di capitano anche al Milan ora è un dovere morale.
____________________________________________
Da La Nazione del 14 giugno 2021
Autore: Alessandro Milan
"Proprio per noi, che ci definiamo amatori": L’insegnamento di Mennea: “La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”
“Se l’ho fatto io, lo può fare chiunque”, così rispondeva Pietro Mennea a chi gli chiedeva di commentare una delle sue tante imprese. “Un ragazzo del sud senza pista” come spesso si autodefiniva che, senza tanti clamori e pubblicità, faceva visita nelle scuole per raccontare ai giovani di porsi sempre degli obiettivi sfidanti e che “dalle sconfitte nascono le grandi vittorie” (riferendosi al deludente 4° posto delle olimpiadi di Montreal nel 1976 seguito dai 4 anni successivi dove stabilì il record del mondo, ancora attuale record europeo e giungendo fino alla medaglia d’oro olimpica di Mosca nel 1980).
È stato l’unico velocista al mondo a fare 5 olimpiadi: longevità atletica, purtroppo Pietro se n’è andato via troppo presto da questa vita, lasciandoci comunque un patrimonio culturale, di umanità e di integrità morale straordinarie. Poco più di un mese fa gli è stato dedicato un murale a Formia, città che lo ospitava durante i suoi allenamenti spesso solitari; restava anche d’inverno ad allenarsi al centro federale, anche in occasione delle festività.
Costanza, coerenza, legalità e integrità morale appunto: “La vita è una pista di 8 corsie: 7 sono per i furbi, ma l’ottava lasciatela libera a noi che vogliamo correre e vincere in maniera corretta” (citazione della moglie Manuela).
Chissà cosa direbbe oggi Pietro del nostro tempo, dello sport che si ferma per chi sì, per chi no. Di certo restano le sue parole che molti allenatori anche di altri sport dovrebbero seguire in momenti come questi, da diffondere ai ragazzi, agli atleti di livello. Valgono anche e soprattutto per noi cosiddetti sportivi che troppo spesso ci sentiamo al centro del mondo, minati dalla mancanza delle libertà individuali in periodo pandemico, privati dell’evento. Proprio per noi, che ci definiamo amatori.
“In questa cosiddetta società del tempo libero c’è chi va a caccia, chi a pesca, chi corre quel rito di moda che si chiama maratona dentro la città, un rito tra l’altro molto sponsorizzato, c’è chi va in palestra, chi a donne e chi nei casinò. Io invece ho scelto di correre, ma veloce, per un gusto appreso da ragazzo, quando sfidavo le motorette sui 50 metri, e che non mi è mai passato. Così abbandonata l’attività di atleta vincente, non ho saputo o voluto lasciare quello che per me è stato il divertimento di tutta una vita, l’allenamento. Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede (mentre corro e mi parla delle proprie imprese di corsa, ndr): e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, di più. La fatica non è mai sprecata, soffri ma sogni”.
È questo il compito più difficile per lo sport oggi, vittima di un autentico paradosso: riconoscerne il valore relativo e i suoi valori discendenti, confusamente mescolati in noi adulti e di conseguenza a digiuno nei nostri giovani dove un po’ di storia dello sport come materia propedeutica agli esercizi pratici non farebbe mai loro male.
Ecco, rileggere la storia dei campioni, dove sono nati, come sono cresciuti, le difficoltà che hanno attraversato, cosa hanno fatto nella loro vita, come hanno messo a frutto il loro talento sportivo, potrebbe essere una risposta, riportando il tutto nel giusto ordine e fine come ci ha insegnato Pietro Mennea.
Stefano Chimenti
______________________________________________________________
Tratto da Arno.it del 20 ottobre 2020 [https://larno.ilgiornale.it/2020/10/20/linsegnamento-di-pietro-mennea-la-fatica-non-e-mai-sprecata-soffri-ma-sogni/]
“Vuoi giocare con me?” è uno dei primi gesti di accoglienza che un bambino possa manifestare
Il presidente di Rcs Media Group e del Torino Calcio interviene nel corso dell’iniziativa “Il calcio che amiamo” organizzata dalla Gazzetta dello Sport in Vaticano leggendo una lettera al Santo Padre.
_____________________
Segue un frammento della lettere e il link del filmato integrale
“Il calcio che amiamo è quello dei giovani, che rappresentano il nostro futuro. Quante volte, noi adulti, ci sproniamo a fare squadra? Un concetto mutuato dallo sport e che il calcio, soprattutto, ci ha insegnato fin da bambini. Fare squadra sul campo significa misurarsi con la condivisione e la convivenza. Ma anche misurarsi con il valore del rispetto: per queste stesse persone, per gli spazi comuni e per le regole imposte dal gioco. Calcio è soprattutto sinonimo di inclusione: pensiamo a quando, da ragazzi, nel cortile dell’oratorio o al parco andavamo in cerca di altri bambini per poter fare squadra. “Vuoi giocare con me?” è uno dei primi gesti di accoglienza che un bambino possa manifestare: verso ragazzi più grandi, più piccoli, con disabilità o che siano di altre nazionalità, culture e religioni. Senza mai dimenticare quale sia l’obiettivo di un ragazzo che prende a calci un pallone: divertirsi”. Perché il calcio diverte ed è fatto per divertirsi”.
________________________
Nel rumore delle cose che affollano l’esistenza, il silenzio del «Quarto d’ora granata», un sogno, tesoro speciale di un’antica realtà.
Un giorno, quando tutti avranno motori, e asfalti, e la casa e il frigo, ... allora ciascuno dovrà ritrovare il suo sentiero nel bosco, da solo.
Giovanni Arpino (Pola 27 gennaio 1927 – Torino 10 dicembre 1987, descritto da Gianfranco Ravasi come «un autore dalla scrittura poliedrica, ora ironica, ora elegiaca, ora psicologica»)
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
https://www.youtube.com/watch?v=XMbvcp480Y4
«Finisce qui la partita» chiude lo speaker: «Lazio batte Torino 4 – 0. A seguire le interviste e il commento tecnico».
Anche la pioggia, cospargendo di chiazze, che sembrano nuvole, la rossa superficie della pista di atletica distesa davanti a curve e tribune,sembra prendersi gioco degli sconfitti nel malinconico scherzo della consueta illusione ottica dello stadio uggioso d'autunno.
Il suono dei tacchetti sulle scale è solo un tappeto dal quale si teme di poter scivolare, reso incerto dalla tenera eclissi di una sicurezza svanita dentro a un’età che si credeva matura e che viene ora percorsa da un malinconico brivido, frutto di un grande benessere che tanto ti ha dato ma qualcosa, fatalmente, ti ha tolto, in quel frequente sentirsi arrivati che talvolta appesantisce le gambe ed annebbia la vista e nel quale è facile, ma proprio facile, smarrirsi.
Riaffiora così, dal nulla indistinto dei cori e del chiasso, la paura di quando, bambini, si temeva di restar fuori e di non poter mai arrivare su un campo di serie A.
«Certo, no, adesso non succederà: ma figurati non mi ricapiterà certo di dover stare a guardare gli altri che giocano. E’ tutto a posto. Il contratto, la carriera. Tutto al suo posto. Macché tutto a posto... No. Mah sì. Una bella doccia e passa tutto. Mannaggia, però!! (…) Mi spiace, non guardarmi così, lo so non hai neanche smesso la tuta, oggi meritavi tu, anche se non me la sento di venirtelo a dire, lo sai.... lo spogliatoio, ma in campo, beh! Si va in undici e, poi, se va bene, o male per qualcuno, si entra ancora in tre. Queste sono le regole. Non lo so se ho dato tutto. Forse ti sei allenato meglio di me. Lo so (…) Meno male, finalmente sono davanti allo spogliatoio, ora sì, una doccia e passa tutto, come sempre.Ohi, fanno male le scarpe, cavolo, meno male che oggi ce le fanno come guanti, neanche la necessità di sciogliere i lacci. Meno male, sì, in questo dannato silenzio, oggi si sarebbe sentito sciogliere anche quelli. (…) Uffa…. Non mi va di alzarmi, ora poggio la testa due minuti…. Dai! Solo due minuti. Sono stanco. E questa poltroncina, si questa …. è così comoda, è fatta come i sedili delle auto … le auto sportive …. due minuti.. chiudo gli occhi ….. ».
«Ehi!! ma che ti prende… stavo riposando un attimo, mi hai spaventato…».
«Il Mister, dicono che sia furioso e che stia venendo qui».
«Ma che dici, non è mica la prima partita che perdiamo?!».
«Appunto…».
«No, mi hai svegliato cavolo».
«Hai fatto tardi ieri? Vero?».
«Ma che dici! Sono stanco, mi ero appena appisolato un momento, è stata dura oggi, faceva freddo. E voi? Beh? Non dite niente? Che avrete mai da guardarmi, solo perché dormivo ma giusto da due minuti ...».
«Non hanno voglia di parlare, come ti chiamano? Ah sì, El General» una voce roca e ferrosa da dietro la fila degli armadietti «Non ne hanno proprio voglia. Oggi: silenzio».
«Ehi Tony (magazzieniere) non mettertici anche tu, piuttosto, ma che hai fatto alla voce? Ehi mi hai sentito? Tony?! Che hai fato alla voce?» con il viso proiettato verso gli armadietti. Niente. Sulle prime nessuna risposta.
«Basterebbe un quarto d’ora, QUEL quarto d’ora» continuò la voce di Tony «mica poi tanto, rimboccarsi le maniche, come faceva Valentino (Mazzola), quasi a dire “adesso si comincia” e provare la gioia di stare in quel che fai, adesso, in quel momento che è l’unico ad esistere. E tu lo afferri: un quarto d’ora. Loro lo ribaltarono quel tre a zero in uno splendido quattro a tre, al suonare della tromba del ferroviere … da tre a zero a quattro a tre, in poco più di un quarto d’ora, in quel lontanissimo Torino – Lazio, ma, poi, in fondo come tante e tante altre volte, prima e dopo di allora».
«Ehi! Tony, ma di che parli? Tony ma ti senti? Ti va di fare il filosofo vah! Senti, Tony, non ho capito nulla.. di quale partita parli? Un quarto d’ora?».
«Mister?!» che ci dirà?
Ancora Tony: «Inutile ragazzi che vi guardiate gli uni con gli altri… tanto quello che ha da dirvi ve lo dirà, ma a ciascuno di voi, in privato».
«Cosa? Tony non ho capito niente.... Ma se siamo tutti qui?»
Il mister muove qualche passo, ma in silenzio, e il pavimento diventa un manto
di foglie d’autunno, gialle e rosse, secche, perché il Mister non parla, fino a quando, giunto in fondo alla stanza, si volta, sempre senza dire niente.
E ad ognuno si volge, perché le ascoltino quelle parole non dette e le leggano quelle non scritte.
«Simone (Verdi), sei arrivato quest’anno, non avere fretta, a Napoli non ti sarebbe andata meglio».
«Nicolas (Nkoulou), com’è facile ritrovarsi così, eh? Ti ricordi quando sei entrato negli spogliatoi a prendere in giro Andrea (Belotti) con il tuo vestito nuovo di zecca? Sembravi un modello, è bastato qualche titolo sul giornale per un squadra più blasonata a farti perdere la testa, a crearti tensione con gli amici, quelli che hai trovato qui; ma, soprattutto l'allegria, che ne è stato di quella? E pensi che in campo non si veda? Ritrova l’allegria ragazzo mio. Fai in fretta, che fai il lavoro più bello del mondo».
Il mister continuava a guardarli senza parlare ma loro lo sentivano, si fermava qualche secondo davanti a loro e li guardava severo ma come può esserlo un papà.
«Andrea (Belotti), a te che devo dire? Ti batti sempre come un leone, sei un uomo ma giochi sempre pensando a quanto ancora potresti crescere, hai persino imparato a battere i rigori: non posso dirtelo davanti a tutti, non capirebbero, sei l’unico che mi fa dare ragione ai giornalisti quando parlano di “sano individualismo”…. Quello di un vero attaccante che guarda, anzi, sente, la porta prima ancora di averla intravista».
«Non posso invece dire la stessa cosa di te, Simone (Zaza), quanto ancora pensi di farcela pagare per il fatto di non avere un posto da titolare? Io non mollo! Ti lascio in panchina. Pensi che entrare in campo e spingere l’avversario che ti marca, ogni volta, ogni volta che ti arriva il pallone ti servirà a qualcosa? Continua a stare in panchina tutti i primi tempi, quando sarai abbastanza umile da tornare sulla terra, vedrò, non dipende solo da me come pensi tu».
Poi si avvicina a lui, bello come un attore di Hollywood ma, oggi, con la testa bassa, a nascondere quegli occhi di un ghiaccio nei quali solitamente si esprime il suo coraggio, quando vola tra i pali, quando spedisce la sua voce fin quasi al centro del campo, tagliando l'atmosfera spessa, fitta del pubblico quando è teso e preoccupato perché la palla la fan girare gli altri, ma che adesso sono immersi nei guantoni che li coprono, mentre inseguono quella voce nell'eco delle istruzioni che ogni volta regala con un'instancabile generosità: Salvatore (Sirigu) condannato ad essere sempre l’ultimo a mollare, «a te che devo dire, sei sempre il migliore in campo, ma se il migliore è il portiere, qualcosa questo dovrà pur dire?? E non è niente di buono».
«Soualiho, (Meïté) quanto è lontana Parigi con la tua nazionale under 19? Voglio dirti che la misura della tua forza cambia ma, fossi in te, manterrei la stessa tranquillità che avevi allora, ti conosco poco, ma puoi giocar bene solo se non rinunci a divertirti».
«Koffi (Djidji), Gleison (Bremer), ah se vi potessi unire, il senso della posizione, Koffi, e la potenza che, se non fosse stato per quell’errore l’anno scorso su Ronaldo…, Gleison, a ventidue anni, dai! E’ possibile, lui ha avuto una gigantesca carriera, tu pensa solo ad imparare».
«Lyanco, preferisco chiamarti con il cognome, ti voglio bene come agli altri, ma è che non ho mai allenato un giocatore con tutti i nomi che hai tu, Evangelista Silveira Neves Vojnović; peccato per i tuoi infortuni, lo schiererei sempre un gigantesco armadio a quattro ante di quasi un metro e novanta come te al centro della difesa».
Il Mister si aggirava per lo spogliatoio e ci guardava mentre lo ascoltavamo.
Nel silenzio, solo la voce roca da dietro gli armadietti, «ascoltate il Mister, in fondo basterebbe un quarto d’ora».
«Ehi Tony, non è proprio il mome…» mi si annodò la voce in gola a trovarmelo davanti. «Mister ....»
«Thomas (Rincon)» e, spostando lievemente lo sguardo accanto a me, «Armando (Izzo), El General, sì, dovrebbero dare anche a te il soprannome di Thomas, mi ricordo di avervi visto sbagliare, qualche volta, ma mai, davvero mai di avervi visto mollare».
Ci siamo guardati interrogandoci su quello che avevamo sentito ma il Mister era già alla porta, da una parte Daniele (Baselli), dall’altra Ola (Aina),
«parlatevi, siete i due rintocchi di una stessa storia di eterna giovinezza non sbocciata, tu Ola, però, hai solo ventitré anni e ancora tanta, tantissima strada da fare».
Ad inizio corridoio, in piedi, Cristian (Ansaldi) e Jago (Falque), gli unici capaci di strappargli un sorriso, appena accennato e che, in quella sua faccia larga e paciosa, lo fece assomigliare per un attimo a quell’emoticon che accompagna i messaggini allo smartphone strizzandoti l’occhio, «non so se oggi è la giornata adatta ma vorrei proprio ringraziarvi per averci riportato in campo un’eleganza ch’era un po’ che non si vedeva da queste parti».
Infine Saša (Lukić) che se ne sta lì appoggiato alla parete, in corridoio, attento più di quanto non voglia mostrare, anche adesso; fa finta che la cosa non lo riguardi ma, forse, solo perché è un timido, quel ragazzone serbo alto un metro e ottantadue di quasi ottanta chili di muscoli. «Abbiamo finito per oggi. Va’ a cambiarti» ma questo a lui il Mister davvero lo disse pronunciandone le parole, prima di
allontanarsi definitivamente.
«Ma che avrà voluto dirci? Ah, chiediamo al magazziniere: ehi Tony?!?, Ci sei? Dai lo so che sei lì, non fare il furbo, non ti ho visto uscire… vabbè». Non saprei dire perché, ma quelle parole, fate scivolare dentro a ciascuno di noi, il fatto che il Mister avesse voluto parlarci uno ad uno, mi aveva messo di buon umore «allora vengo io, ma non attaccarmi il tuo raffreddore» scherzai.
«Non ho il raffreddore».
«Sì sì, come no?!? ora vengo. Oh, eccoci qua! Allora…. Mah? Dove sei? Ehi! Tony, dove sei finito?» mi guardai avanti, indietro: nulla. «Cristian tu l’hai visto uscire?».
«Io? No! Chi?».
«Ma come chi? Tony, macché cavolo» imprecando uscii, eccolo lì, «oh ti ho trovato finalmente» sovrastato come sempre dalla rete piena di palloni sulle spalle, in una sagoma curva che faceva pensare a Shrek a Notre Dame.
«Eccoti qua, Tony, hai visto il Mister?» Lui mi guarda….. «Il Mister? Ma di che parli Thomas?».
«Ehi, gli dico io, ma che hai fatto alla voce? Un attimo fa’ eri così rauco, adesso la tua voce è limpidissima».
«Cosa?» Guardandomi con la smorfia di chi ti sente parlare un’altra lingua e vuole in tutti modi manifestarti quanto tu gli risulti incomprensibile ...».
«Sì, dai, la voce che avevi prima quando eri negli spogliatoi».
«Ehi ragazzo ma di che parli? Io vengo dal campo, non li vedi
i palloni? Che diavolo ci avrei dovuto fare negli spogliatoi…. dai! Non è proprio giornata. Torna dentro, adesso vengo a ritirare tutto e partiamo».
«Ma che roba» proseguì borbottando mentre si avvicinava alla porta dello spogliatoio «Questa decisamente mi mancava… sto in campo a recuperare i palloni sotto la pioggia e mi dicono "che ci facevi negli sogliatoi"».
Non seppi che dire… né come spiegarmelo, ma chi? Chi c'era allora dietro gli armadietti? Feci allora per seguirlo ma sentivo le gambe pensatissime, tentai allora di rispondergli ma non ci riuscii. Subito però mi sentii come risucchiato, trovandomi, finalmente, ad occhi aperti, per un istante soltanto non sapendo dove fossi: una mano mi scuoteva la spalla cadenzando il ritmo di una voce «Thomas… Ehi! Thomas, sveglia … dai! Non è ora di dormire, a fare la doccia, su, il pullmann ci aspetta». Dovetti ricomporre un attimo l’orientamento nello spazio e nel tempo ma feci come mi diceva: la doccia, poi una sistematina alla barba, appena un po' largo il nodo alla cravatta che volgeva al contrario mentre andavo cercandomi dentro allo specchio.
Salii come sempre e mi sedetti al finestrino: le gocce di pioggia sul vetro confondevano gli indistinti contorni del paesaggio, ora ingoiato nell’avvio del "gigante", come lo chiamavo da bambino, il pullman che ci trasportava ovunque andassimo.
Decisi di mettere le cuffie ma questa volta niente rock, no. Meglio l’aria dei nostri nonni, Cavalleria Rusticana (https://www.youtube.com/watch?v=K28B9GJMOzA): non potevo fare a meno di pensare a quella voce: il “Quarto d’ora”, Valentino Mazzola che si rimbocca platealmente le maniche della maglietta girandosi, umile e fiero al contempo, verso gli spalti, quasi a voler fare una carezza ai tifosi, in quell’attimo, quello che non ti sfugge più, mentre l’obiettivo lo cattura in una foto oggi sbiadita ma che rivela come fosse una splendida giornata di sole. Il Quarto d’ora granata: un sogno, una leggenda? Forse. Sul pullman nessuno aveva voglia di parlare: così cercai di riaddormentarmi, alla ricerca di quel sogno nel quale ero stato spinto dalla realtà, quella di un ferroviere, un uomo semplice, appassionato di calcio ed eroe per caso allo stadio, che chiama la carica e fa esplodere il quarto d'ora granata.
Joseph Rà
______________________________________________________________________________________________________________________________________________________
«Credo che se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse potremmo capire»
Roberto Benigni in “La Voce della Luna” di Federico Fellini (1990)
Il famoso quarto d'ora granata era un momento particolare della partita, dedicato al pubblico dello Stadio Filadelfia, dove il Torino giocava le partite casalinghe. Sugli spalti la gente aspettava quei quindici minuti e i giocatori si divertivano a farlo attendere. Quando la squadra avversaria non era temibile, i calciatori del Torino erano soliti giocare volutamente al di sotto delle loro potenzialità, finché partivano tre squilli di tromba dalla tribuna di legno dove era presente tale Oreste Bolmida, un tifoso particolare di professione ferroviere. Da quell'istante partiva il quarto d'ora granata: Valentino Mazzola si rimboccava le maniche, dando il segnale del cambiamento, e la squadra aumentava il ritmo.
Il tutto ebbe inizio nella primavera 1946, allorché si ebbero diverse partite sfociate in goleade realizzate in quindici minuti, la più incredibile lo 0-7 allo Stadio Nazionale contro la Roma il 28 aprile 1946. Una volta messo al sicuro il risultato, il Torino addormentava la partita, limitandosi al controllo della stessa, praticamente facendo il minimo necessario in un quarto d'ora.
A volte la tromba veniva suonata anche quando il Torino era in difficoltà, oppure quando era sotto, come successe il 30 maggio 1948 quando perdeva 0-3 in casa contro la Lazio e il risultato fu ribaltato per il definitivo 4-3.
Andrea Belotti, come è la sua famiglia? “È una famiglia bergamasca doc"
I GOAL di Andrea Belotti
https://www.youtube.com/watch?v=BGCkHetQ1tk
______________________________________________________
Andrea Belotti, come è la sua famiglia?
“È una famiglia bergamasca doc. Prima mio papà lavorava in una fabbrica dove si stampavano agende, libri... Mia mamma era in una fabbrica dove si producevano camicie; si occupava del lavaggio, dello stiraggio. Sempre stati grossi lavoratori. Mio padre a 14 anni faceva il muratore, il piastrellista. Mio nonno era morto presto e papà ha sempre lavorato perché, essendo il più grande di 4 figli, toccava a lui prendersi in carico la famiglia. Mia mamma lavorava in questa stireria però non portava a casa tanti soldi. Arrivava a casa sempre stanca e io, quando tornavo dagli allenamenti, scaricavo sempre panni sporchi. Così come mio fratello, che lavorava in una pizzeria. Quando sono andato via di casa per andare a Palermo l’ho convinta a smettere di lavorare. Le ho detto: “Non voglio più che lavori perché penso che in questo momento non sono quei 500 euro che ti cambiano la vita, preferisco che ti occupi più della famiglia, che hai più tempo per te e per papà”. Ha accettato, dopo un po’”.
Dopo di che arriva il Torino. Il presidente Cairo l’ha voluta…
“Arriva il Torino. Ero in Austria in ritiro col Palermo per due settimane e c’era la sosta di Ferragosto. Torno a Palermo perché nel frattempo mi ero fidanzato. Sapevo che c’era qualche contatto, il presidente diceva: “Devi andare via da Palermo”, poi diceva “no devi rimanere” e verso Ferragosto, mancava poco alla fine del mercato, mi chiama e mi dice “Domani mattina devi partire e andare a Torino, firmiamo e ti alleni”. Mi ricordo che era notte quando ho chiamato il magazziniere e gli ho detto “mi devi preparare le scarpe perché domani me ne vado”. Era sconvolto. La mattina alle sei, siamo passati allo stadio e lui mi aveva lasciato le scarpe. Mi hanno detto poi che lo aveva fatto piangendo”.
L’avevano cercata altre squadre oltre al Torino?
“C’erano l’Atalanta, il Sassuolo, principalmente loro due. Anche la Sampdoria. Però io ero più attratto dal Torino e dal progetto di Cairo”.
Parliamo di Nazionale. Quanto le è dispiaciuto saltare le prime due gare di qualificazione all’Europeo?
“Giocare in Nazionale è un sogno, per chiunque. Io non nego che per me è sempre un’emozione incredibile. Quando indosso la maglia azzurra io vivo come un onore il rappresentare la mia nazione. È difficile da spiegare, è un’emozione unica. Per questo spero di tornare e lavoro perché questo accada”.
Cosa è successo con la Svezia?
“Diciamo che ci sono state tante cose andate tutte male. La partita in Svezia era stata strana. Un palo di Darmian, poi un gol su rimpallo, perdiamo 1-0. Eravamo arrabbiati perché qualche svedese aveva pure provocato. Anche questa cosa ci aveva tolto serenità. Finita quella partita tutti abbiamo pensato che sicuramente ci saremmo rifatti a Milano. E siamo arrivati a San Siro contratti. Nei giorni precedenti la partita mancava lucidità, non c’è stata sicurezza. Era una grande squadra. Ma quando ti trovi senza serenità e convinzione le cose non ti riescono mai. Mi ricordo un’azione in cui forse non è stato fischiato un rigore su Parolo dopo pochi minuti. Quello è sembrato un segnale che le cose si mettevano male e ha aumentato l’insicurezza”.
Dove immagina il suo futuro? A Torino o da un’altra parte?
“Lo immagino qui perché sono quattro anni che mi trovo benissimo a Torino. Sono in una grande piazza, in una grande società, con dei compagni fantastici. E io ho sempre pensato che Torino sia una città bellissima. Se devo dire un posto dove immagino il mio futuro dico sicuramente Torino”.
_________________________________
Da La Gazzetta dello Sport del 28 marzo 2019, Intervista a Andrea Belotti, di Walter Veltroni
Bergamo. L'Atalanta si mette in gioco contro l'azzardo e le dipendenze
Firmato l’accordo fra la società calcistica e l’Ats per promuovere stili di vita sani e contrastare ludopatie, stupefacenti e alcol. In arrivo svariate iniziative
No all’azzardopatia e alle dipendenze in generale, sì alle buone pratiche per la tutela della salute: sono sempre più le persone, le associazioni e le istituzioni a lavorare in questa direzione. Ma se a farlo, ora, è pure una squadra calcistica di serie A, questo sussulto di umanità acquista una luce e una forza dirompenti. Un accordo in questa direzione tra l’Ats (ex Asl) di Bergamo e l’Atalanta è stato firmato ieri a Zingonia, presso l’Accademia Favini del Centro sportivo di Bertolotti, e produrrà una serie di iniziative contro il gioco d’azzardo, le dipendenze da alcol e droga, gli stili di vita non sani (come la sedentarietà) e tutto ciò che può essere d’ostacolo ad un corretto sviluppo della persona.
Ma perché proprio l’Atalanta? «S’identifica col territorio – spiega Massimo Giupponi, direttore generale dell’Ats Bergamo – e per questo è un partner fondamentale per la tutela del benessere». Ma non solo: «Ci occupiamo di formazione sportiva ma anche di educazione personale – aggiunge Stefano Bonaccorso, responsabile dell’attività di base del club neroazzurro –, promuovendo uno stile di vita salutare dell’atleta». Ed è lo stesso dirigente a parlare con chiarezza di «contrasto alle ludopatie», anticipando fin d’ora che quest’azione «partirà dalla formazione interna dei 520 tesserati del settore giovanile».
Dichiarazioni importanti le sue, tanto più perché vengono da un mondo – quello del calcio, appunto – che molto condivide con i colossi dell’azzardo. Saranno tre le linee d’azione previste dall’accordo orobico: diffusione di un’app telefonica contapassi in grado di stimolare i ragazzi, anche attraverso competizioni a distanza, verso la giusta dose di attività fisica, programmazione di eventi dedicati ai social network, strumenti in grado di aiutare il contrasto a fumo e dipendenze varie, e organizzazione di iniziative di prevenzione ed educazione alla salute ufficialmente legate all’immagine dell’Atalanta.
Da qui, la proposta di Viviana Beccalossi, consigliere regionale del Gruppo Misto e – nel 2013, ai tempi del suo assessorato – promotrice della legge contro le azzardopatie: «Sarebbe eccezionale se, almeno per una partita, l’Atalanta portasse in campo il simbolo "no slot" di Regione Lombardia»; un gesto che, aggiunge, sarebbe «in grado di dare grandissima visibilità alla lotta contro il gioco d’azzardo patologico che da anni stiamo portando avanti».
A farle eco, sia pure con parole non riferite a questa specifica proposta, l’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera: «I simboli – ha detto ieri, presenziando alla firma dell’accordo a Zingonia – hanno una forza enorme, perché trasmettono messaggi forti in tema di prevenzione, e i calciatori al giorno d’oggi sono simboli universali». Intanto, sulla proposta di Beccalossi, dalla società filtra un «perché no?».
Tuttavia, fa sapere l’Atalanta, qualsiasi sbilanciamento su singole iniziative risulta al momento prematuro. Quello di ieri, nella sostanza, resta un accordo quadro. E come tale, per generare iniziative concrete, necessita ancora di tanto lavoro. In ogni caso, gli ambiti d’azione sono già definiti: l’Ats, con le sue competenze tecniche, proporrà le iniziative; sarà poi compito della società sportiva, nel momento in cui dovesse accoglierle, sottoporle sia al grande pubblico, mettendo a disposizione la sua immagine di club calcistico di serie A, sia direttamente al suo settore giovanile, sfruttando gli incontri settimanali con i ragazzi. D’altronde, rimarca la società ad "Avvenire", «noi siamo convinti che
sia necessario crescere prima l’uomo e poi il campione. Perché se non cresci l’uomo, non avrai mai il campione».
___________________________
Da Avvenire di giovedì 05 settembre 2019 di Marcello Palmieri
La corsa di Tseng, asso del tennis in missione per salvare la mamma
LA STORIA
di Gaia Piccardi
Da Taiwan brucia le tappe e mantiene la famiglia. Ma Pechino rischia di fermarlo
(…)
Perché Chun-hsin Tseng è un ragazzo in missione per conto della sua famiglia taiwanese: deve diventare un tennista vero, in grado di mantenere se stesso, i genitori e il fratellino, prima che il corpo della madre ceda alla malattia e che gli spifferi della crisi tra la Cina e Taiwan diventino venti di guerra.
Affacciato sulla soglia del tennis professionistico, numero 441 del ranking mondiale zavorrato da un peso più grande di lui, attraverso un interprete Tseng ha raccontato al New York Times le sue giornate poco spensierate: «Momenti per rilassarmi o uscire con gli amici, non ne ho. La mia vita è tennis, tennis, tennis. Sto facendo tutto quello che posso per riuscire nello sport».
Il tempo stringe. Mentre Chun – hsin Tseng viaggia per tornei insieme al padre Yu-te Tseng, che lo allena, mamma Chung-han Tsai manda avanti il baracchino di street food al mercato notturno di Lehua, a Taipei: vende tanghulu, un tipico dolcetto di frutta caramellata o pomodori, infilzati su uno stecchino. «Mia moglie dopo tanti anni di duro lavoro si è ammalata — dice Yu-te con le lacrime agli occhi —. Ha un’infiammazione cronica agli arti che le rende molto doloroso stare in piedi. Si rende conto che, fisicamente, non ce la fa più. Noi in giro per il mondo e lei a casa con il piccolo Yun-di. Le spese sono tante, i soldi pochi. Così non possiamo andare avanti a lungo…».
(…)
Cresciuto di umili origini su un’isola di solida tradizione tennistica, all’ingombrante ombra della Cina, Chun – hsin Tseng potrebbe già ritenersi soddisfatto dei risultati ottenuti fin qui. Ma non basta.
(…)
Sua madre ha un chiosco notturno ma si è ammalata e non può resistere a lungo
Sulla carriera di Tseng incombono le minacce sempre più concrete di Xi Jinping da Pechino. Il presidente della Repubblica popolare punta alla riunificazione di Taiwan sotto la bandiera della Cina dopo 70 anni di «separazione» mal sopportata dell’isola. Le misure per ottenerla, oltre all’uso della forza, potrebbero prevedere una limitazione dei viaggi all’estero dei cittadini di Taipei, meno libertà di movimento, il taglio degli sponsor cinesi. Per il ragazzo con una missione, sarebbe la fine.
Durante l’anno si allena in Francia alla Mouratoglou Tennis Academy, gestita dall’allenatore della fuoriclasse del tennis Serena Williams. Un costo sostenuto grazie ai contributi di China Airlines, del gruppo plastico Formosa, della federtennis taiwanese. «È un gran lavoratore, in campo non si risparmia — dice di lui coach Mouratoglou — però è piccolino…». 1,75 per 61 chili. Quasi una condanna a morte, nel tennis dei giganti di due metri che sparano servizi a 250 chilometri all’ora.
(…)
L’8 agosto Chun-hsin compirà 18 anni, un’età chiave. È lo stesso giorno del compleanno di Roger Federer. Per chi crede nei segni del destino, un fausto presagio.
________________________________________________
Dal Corriere della sera del 07 gennaio 2019