Vite ed il senso che le racconta

Croce BenedettoBenedetto Croce. Il filosofo napoletano nutrì una grande passione per le biografie «non romanzate». Tracciò profili di personaggi che avevano contribuito con opere e idee alla storia della civiltà

Michele Ciliberto

Grande libro, queste Vite di avventure, di fede e di passione. Pubblicate dapprima singolarmente in riviste ed atti accademici tra il 1929 ed il 1934, furono poi raccolte in un solo volume e in una nuova edizione nell’ottobre del 1935. Esse sono un modello di ciò che Croce pensa debba essere una biografia – un modello totalmente estraneo a quello delle «biografie romanzate», per le quali nutre una sorta di vero e proprio disprezzo: esse infatti «attestano, a dir vero, una certa decadenza nell’accorgimento critico, nella severità etica e altresì nel buon gusto ai giorni nostri».

Il modello cui Croce intende attenersi è l’opposto di queste «biografie romanzate»: «scrupolosa acribia nella documentazione e ricostruzione biografica»; connessione tra i casi degli individui e i problemi delle loro età; ma anche – ci tiene a sottolinearlo – appagamento, «in certa misura», della «fantasia mercé la particolarità dei fatti e la vivezza del racconto».

Le biografie raccolte in questo volume riguardano – in stretta connessione con le posizioni teoriche di Croce a quella data – le grandi personalità, cioè gli «eletti», che hanno dato un contributo importante con le loro opere e le loro idee alla storia della civiltà, proiettandosi, con la loro azione, oltre il cerchio della propria specifica individualità, nella storia della comune umanità. C’è dunque in questi splendidi racconti un intreccio continuo e consapevole tra le storie individuali e la storia universale, alla quale appartengono le opere alle quali gli «eletti» hanno contribuito.

Un esempio eccezionale di questo modello è il saggio sul Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo. Mettendo a fuoco questa grande personalità Croce, in una sorta di movimento a raggiera, parla di Calvino, spiega la sua grandezza, perché avesse ragione nella sua lotta contro Serveto, i sociniani e gli anabattisti – cioè contro l’intellettualismo e l’egualitarismo, e il praticismo tipico della cultura italiana di cui gli antitrinitari erano precursori. Calvino infatti aveva giustamente difeso il dogma della trinità il quale «contiene l’esigenza del concetto speculativo, che non è né l’unità astratta né l’astratta molteplicità, ma l’uno che è molteplice e il molteplice che è uno». Altrettanto importante era stata la dottrina calvinistica della predestinazione perché essa conteneva «in germe un gran pensiero, che è né più né meno che l’idea stessa della storia, la quale, nel suo corso, condanna e distrugge individui e generazioni e popoli, e dall’ecatombe fa sorgere, mercé i grandi uomini o gli eletti, i valori ideali, di pensiero, di bellezza, di dignità morale che vivono eterni». Sulle tracce di Weber Croce sottolinea poi come Calvino avesse spronato «all’operosità come all’adempimento della missione assegnata da Dio a ciascun uomo nella sua particolare professione» facendo «scorgere un segno della grazia divina nella prosperità del proprio lavoro».

Quel saggio è però particolarmente importante perché consente anche di vedere come in certi passaggi la figura di Croce e quella del grande marchese tendano a rispecchiarsi l’una nell’altra, quasi a identificarsi come avviene – ed è una delle pagine più belle – quando Croce difende con parole forte e potenti la decisione del Caracciolo di abbandonare la moglie, i figli, Napoli e di trasferirsi, con scelta definitiva, a Ginevra: «Chi può osare di entrare nel segreto dei suoi umani tormenti, delle sue nostalgie, delle sue brame, dei pungenti ricordi per l’immagine che lo assillava nella sua povera e deserta casetta di Ginevra? E chi può osare di approvare o condannare la deliberazione che egli prese di porre una pietra sul passato e formarsi un nuovo legame e cancellare quell’immagine lontana e pur vicina con la realtà di un’altra figura muliebre, che gli stesse accanto amorevole? Eppure, c’è chi ha osato».

Croce Tuffatori alex trusty naples sense of placeÈ difficile, leggendo queste pagine, sottrarsi all’impressione che Croce parlasse con questo vigore perché egli era passato attraverso tormenti e pene non difformi da quelle che avevano travagliato Gian Galeazzo Caracciolo, e che fosse proprio questo comune patire a consentirgli di intuire qualcosa del travaglio del suo animo quando aveva dovuto fare quella scelta irrevocabile. Una scelta, una decisione, anzi, la presa d’atto di una più profonda e più alta chiamata cui non era possibile sottrarsi, della quale Galeazzo era consapevole in modo profondo e doloroso, essendo pronto a pagare tutti i prezzi. È un testo straordinario, uno dei pochi luoghi in cui traluce, come in un lampo, ciò che si agita nel fondo del cuore di Croce: come se di fronte ai «moralisti», di cui anche a lui era capitato di sentire gli stolti commenti in momenti di scelte difficili, non fosse stato in grado di contenersi e dominarsi, lasciando trasparire il suo più profondo sentire.

Un saggio straordinario, si è detto, nel quale Croce riesce a far intervenire, come in una sorta di straordinaria polifonia, altri personaggi che, in vari modi e in diversi momenti, avevano incrociato la loro vita con quella del Marchese – compresa una figura straordinaria come quella di Giordano Bruno, chiarendo, anche in questo caso, quale era stato il significato dell’uno e dell’altro nella storia europea: essi, pur non essendone consapevoli quando si incontrano, erano «i rappresentanti e i simboli di due grandi correnti spirituali, della Riforma e del Rinascimento».

Si è fatto riferimento al saggio sul Marchese di Vico per mostrare in presa diretta, e attraverso un caso specifico, quale fosse il «problema» di Croce quando scrive queste biografie, come lavorasse, quali fossero i contesti generali nei quali intendeva inquadrare gli «eletti» che aveva scelto di studiare. È lo stesso metodo che si riprova nelle bellissime pagine su Cola di Monforte, su Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro o su Diego Duque de Estrada o nel saggio, straordinario da ogni punto di vista, su Carlo Lauberg.

È difficile trovare nella nostra cultura storica pagine scritte con la stessa profondità e la medesima capacità di tracciare le linee essenziali della vita di un uomo: forse solo Federico Chabod è riuscito ad avvicinarsi a un simile modello nella seconda parte della Storia della politica estera italiana, quella dedicata agli «uomini», nelle quali schizza ritratti indimenticabili di grandi protagonisti della storia italiana, con una maggiore attenzione – sia per gusto personale che per una differente concezione nell’interpretazione degli uomini e delle loro vicende – al personale, al privato, all’empirico. Forse anche quelle memorabili pagine di Chabod andrebbero rimesse in circolazione, e lette con l’ammirazione che meritano.

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Nelle foto:

Benedetto Croce

Tuffatori di Villa della Gaiola. «Naples Sense of place» di Alex Trusty (pseudonimo di Alessandro Fidato), 52 scatti in bianco e nero per accontare Napoli

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Vite di avventure, di fede e di passione

Benedetto Croce

A cura di Marco Diamanti

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Dalla Domenica, de Il Sole 24Ore, 05 giugno 2022

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- 8 maggio 2014

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