"Magia della prospettiva, questa, potenza di un dispositivo prodigioso"
Fu Filippo a dirimere la questione. Disse che la collaborazione sarebbe stata impossibile. Troppo diverse le due formelle, per concezione e fattura. Aggiunse però che la formella di Lorenzo meritava la vittoria: più sapiente la concezione, più squisita la fattura.
Che un artista posponesse la sua opera a quella di un rivale era una cosa stupefacente: non s'era ancora mai vista. Ma ai giurati non parve vero prendere la palla al balzo e risolvere in tal modo la faccenda.
Era sincero Filippo? O la sua dichiarazione nascondeva qualche retropensiero, o addirittura ironia, sarcasmo? Entrambe le cose.
In effetti le due formelle appaiono diversissime, quasi appartengano, benché simili per forma (un po' quadrilobo bronzeo a sbalzo dorato) e contenuto (il sacrificio di Isacco da parte di Abramo), a regioni spirituali agli antipodi. Filippo rappresenta la scena puntando all'opposto di ciò cui mira Lorenzo. Mentre Filippo intende far deflagrare tutto l'assurdo che in essa è contenuto, Lorenzo invece vuole innalzare l'assurdo stesso sul piano di una sua più alta comprensione. Riesce perfettamente nel suo intento, Lorenzo. Al contrario, in Filippo è come se la nuda forza della realtà si imponesse a qualsiasi proposito e perfino all'intenzione artistica.
Lorenzo colloca il sacrificio in una dimensione temporale che non è quella del momento presente, dell' hic et nunc, dell'istante, ma del rito. L'evento appare già da sempre ritualizzato e come ricompreso fin dall'origine in una sorta di temporalità intemporale, se non di vera e propria sospensione del tempo. Tutto è stato deciso da sempre e per sempre. E tutto accade da sempre per sempre, secondo necessità. La potenza del dramma non è che l'impensabile si riveli possibile, ma che il possibile, sia pure il possibile più sconcertante e più sconvolgente, venga fatto rientrare in un ordine che non è l'ordine naturale delle cose ma è l'eterno, e l'assoluto. Insomma, la potenza del dramma non è che un padre possa realmente uccidere suo figlio in ottemperanza a un comando ex alto, e che sia reale e che stia realmente per farlo, e che questa cosa folle e perversa gravi sul mondo come una terribile realtà incombente, ma che questa cosa si scrive in un disegno divino dove essa appare tutta illuminata, giustificata, redenta, come se anche il buio più buio sprigionasse luce.
L'esatto contrario di quanto Filippo vuole mostrare.
Per Filippo il possibile è semplicemente possibile, ma ciò lo rende agghiacciante, tremendo. Che un padre giunga a uccidere suo figlio perché Dio gli ha ordinato di farlo non è che una possibilità tra le altre, ma per l'appunto è una possibilità. Non ancora qualcosa di necessario: lo sarebbe se un destino guidasse la mano omicida, ma da quale passato immemorabile emergerebbe questo destino e in ogni caso come potrebbe dirsi tale un'enormità tanto inconcepibile? E neppure qualcosa di reale: lo sarà fra un istante, non appena dalla gola tagliata spruzzerà il sangue, un istante eterno, però, e dunque separato infinitamente da ogni futuro. Tra la decisione già presa e la sua esecuzione c'è un vuoto spaventoso, e in questo vuoto Filippo lascia implodere la realtà tutt'intera.
L'azione drammatica è isolata dal resto della scena, pur restandone al centro. Nel lobo in basso a destra, un garzone ignaro e indifferente a ciò che sta per accadere è impegnato a togliersi una spina dal piede. A sua volta nel lobo in basso a sinistra un secondo garzone si guarda le mani, mentre il suo asino bruca la terra. Perfino il montone, già pronto a sostituire la vittima designata, gira la testa sul fianco per scansare il morituro che sta per cadergli addosso e non per evitare lui stesso la morte in agguato. E nel centro della scena? Nel centro della scena Abramo ha disteso il braccio fino a raggiungere il collo di Isacco, quasi a tastare la vena iugulare per meglio affondare il coltello. Un angelo nel lobo in alto a sinistra afferra l'altro braccio di Abramo a fermare il colpo ormai scagliato. Lo fa come sforzando la realtà.
In questa rappresentazione del sacrificio di Isacco nulla induce a pensare ad esso come un sacrificio, se non il piccolo altare su cui la vittima è stata fatta inginocchiare. Come potrebbe essere un sacrificio se i convenuti, tolti i protagonisti, non vi partecipano, ma sono distratti, assenti, occupati in altro? Filippo sembra voler dire, forse addirittura al di là delle sue intenzioni: questo sacrificio non è un sacrificio, ma è un assassinio, per la precisione uno sgozzamento. Il contrario, appunto, di ciò che dice Lorenzo nella sua rappresentazione: questo sgozzamento non è uno sgozzamento, ma un sacrificio. Tutto è luce, in Lorenzo, tutto è trasfigurazione: luce sacrificale, luce di senso, luce che stana l'assurdo dalle tenebre in cui si annida e le dirada, anziché riprecipitarvelo.
Per ottenere questo risultato Lorenzo dovette dar prova di una maestria semplicemente sublime. Non solo le figure della sua formella, ma principalmente la materia di cui sono fatte possiedono una luminosità che le figure di Filippo non hanno e questa luminosità non è un effetto di superficie, ma proviene dal cuore della materia stessa, ed è espressiva dello spirito che anima la scena, muove i personaggi, li fa tutti partecipi dell'evento rappresentato. Se messa a confronto con la formella di Lorenzo, come la gara prescriveva, la formella di Filippo appare bensì illuminata ad una sua luce peculiare, ma che nulla a che fare con la luce di quella: uniforme, fissa, cruda la luce dell'una, mobilissima, trascendente, spirituale l'altra. Come Filippo aveva intuito, con la sua arte mirabile e inarrivabile Lorenzo era riuscito a trasfigurare la realtà, a portarlo in una regione più alta, a strapparla alla opaca insensatezza dell'essere per consegnarla alla gloria del mistero disoccultato. La nuda verità cedeva il passo alla verità che infinite tramature luminose velavano e rivelavano.
Perciò Filippo disse pubblicamente che la palma della vittoria andava data a Lorenzo. E almeno quella volta fu ascoltato anche troppo prontamente.
Tenne invece per sé un pensiero che lo assillava.
Era luce di verità, la luce sacrificale e redentrice che aveva abbagliato tutti, lui per primo. O non piuttosto suadente menzogna, inganno, illusione?
La prova che le cose stessero come lui si aspettava era sotto gli occhi di tutti, anche se nessuno sembrava alzarli, gli occhi, e finalmente vedere, capire, quando sarebbe stato così facile farlo, e prendere atto dell'inoppugnabile. Quale prova? Ma quella! La Chiesa. La Chiesa diruta, anzi, mai costruita, mai finita, lasciata a se stessa. Se il tempio è crollato, come si fa a parlare di sacrificio, di redenzione, di salvezza? E se, peggio, il tempio non è mai stato edificato; se il tempio, che è cosa della terra, non ha innalzato le sue colonne fino a toccare il cielo e se il cielo non si è abbassato ad abbracciare il tempio fino a mostrarsi in esso, come si può evitare di pensare che la sola parola di verità sia quella che dice il non senso di tutte le cose?
Questa era stata la ragione per cui Filippo nel sacrificio di Isacco aveva voluto rappresentare tutta la crudeltà e tutta la proprietà di cui può farsi carico la vita dell'uomo. Avevano capito i fiorentini? No, i fiorentini non avevano capito niente.
Si tenessero Lorenzo. Quel Lorenzo che lui odiava almeno quanto ammirava. Si tenessero l'illusione. E l'inganno. Chi non ha occhi per la verità non può vederla.
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Sa anche, però, che questo niente è un niente è ben strano.
Lui gli ha dato un nome e questo nome è: infinito. La stranezza dell'infinito è che esso toglie la differenza fra l'essere e il non essere. Nell'infinito tutto è, anche il non essere. L'infinito non è mai tutto, ma sempre qualcosa in più di questo tutto.
Non basta. L'infinito toglie anche la differenza fra soggetto e oggetto. Nell'infinito tutto è punto di vista soggettivo, ma ogni punto di vista restituisce l'oggetto allo sguardo nella sua tridimensionalità effettiva.
E non basta ancora. L'infinito toglie la differenza fra apparenza e realtà. Nell'infinito la realtà è apparenza, è rappresentazione. Ma nell'infinito non c'è rappresentazione che non sia rappresentazione della realtà.
Magia della prospettiva, questa, potenza di un dispositivo prodigioso, suggestione di una tecnica che ha dato risultati stupefacenti fin dalle sue prime applicazioni.
Filippo ha scoperto le leggi di quest'arte. Ne ha codificato le regole. Le applicate.
Ma sei un bambino gli chiede se, come lui sta chiedendo se stesso in questo momento, a che cosa serve la prospettiva, non saprebbe rispondere.
Infatti una risposta potrebbe essere: serve a fissare la realtà a se stessa, al suo essere qual è e non altrimenti.
Un'altra risposta, invece: serve a mostrare come la realtà non sia mai soltanto quella che è ma sia anche sempre altra, infinitamente altra. C'è ancora verità, dove la verità si sdoppia? E c'è ancora realtà, dove la realtà esplode in tanti microcosmi quanti sono gli sguardi gettati su di essa?
«Questo è» dice la prospettiva. Così stanno le cose.
Ecco la verità, ecco la realtà: che sono la stessa cosa, in fondo, perché la verità è la realtà messa nella giusta prospettiva, è la realtà colta secondo verità, è la realtà qual'è veramente. La prospettiva volesse, idee, una finestra spalancata sul mondo.
[Pagg. 144 - 145]
[Sergio Givone - Fra Terra e Cielo]
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