Sapere per edificarsi: e questa è prudenza
Così vi sono coloro che vogliono sapere per vendere la loro scienza, o per procurarsi denaro od onori: ed è un turpe guadagno. Ma vi sono anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità. E vi sono ancora altri che vogliono sapere per edificarsi: e questa è prudenza.
(Bernardo di Chiaravalle – Sermione XXXVI)
Vite ed il senso che le racconta
Benedetto Croce. Il filosofo napoletano nutrì una grande passione per le biografie «non romanzate». Tracciò profili di personaggi che avevano contribuito con opere e idee alla storia della civiltà
Michele Ciliberto
Grande libro, queste Vite di avventure, di fede e di passione. Pubblicate dapprima singolarmente in riviste ed atti accademici tra il 1929 ed il 1934, furono poi raccolte in un solo volume e in una nuova edizione nell’ottobre del 1935. Esse sono un modello di ciò che Croce pensa debba essere una biografia – un modello totalmente estraneo a quello delle «biografie romanzate», per le quali nutre una sorta di vero e proprio disprezzo: esse infatti «attestano, a dir vero, una certa decadenza nell’accorgimento critico, nella severità etica e altresì nel buon gusto ai giorni nostri».
Il modello cui Croce intende attenersi è l’opposto di queste «biografie romanzate»: «scrupolosa acribia nella documentazione e ricostruzione biografica»; connessione tra i casi degli individui e i problemi delle loro età; ma anche – ci tiene a sottolinearlo – appagamento, «in certa misura», della «fantasia mercé la particolarità dei fatti e la vivezza del racconto».
Le biografie raccolte in questo volume riguardano – in stretta connessione con le posizioni teoriche di Croce a quella data – le grandi personalità, cioè gli «eletti», che hanno dato un contributo importante con le loro opere e le loro idee alla storia della civiltà, proiettandosi, con la loro azione, oltre il cerchio della propria specifica individualità, nella storia della comune umanità. C’è dunque in questi splendidi racconti un intreccio continuo e consapevole tra le storie individuali e la storia universale, alla quale appartengono le opere alle quali gli «eletti» hanno contribuito.
Un esempio eccezionale di questo modello è il saggio sul Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo. Mettendo a fuoco questa grande personalità Croce, in una sorta di movimento a raggiera, parla di Calvino, spiega la sua grandezza, perché avesse ragione nella sua lotta contro Serveto, i sociniani e gli anabattisti – cioè contro l’intellettualismo e l’egualitarismo, e il praticismo tipico della cultura italiana di cui gli antitrinitari erano precursori. Calvino infatti aveva giustamente difeso il dogma della trinità il quale «contiene l’esigenza del concetto speculativo, che non è né l’unità astratta né l’astratta molteplicità, ma l’uno che è molteplice e il molteplice che è uno». Altrettanto importante era stata la dottrina calvinistica della predestinazione perché essa conteneva «in germe un gran pensiero, che è né più né meno che l’idea stessa della storia, la quale, nel suo corso, condanna e distrugge individui e generazioni e popoli, e dall’ecatombe fa sorgere, mercé i grandi uomini o gli eletti, i valori ideali, di pensiero, di bellezza, di dignità morale che vivono eterni». Sulle tracce di Weber Croce sottolinea poi come Calvino avesse spronato «all’operosità come all’adempimento della missione assegnata da Dio a ciascun uomo nella sua particolare professione» facendo «scorgere un segno della grazia divina nella prosperità del proprio lavoro».
Quel saggio è però particolarmente importante perché consente anche di vedere come in certi passaggi la figura di Croce e quella del grande marchese tendano a rispecchiarsi l’una nell’altra, quasi a identificarsi come avviene – ed è una delle pagine più belle – quando Croce difende con parole forte e potenti la decisione del Caracciolo di abbandonare la moglie, i figli, Napoli e di trasferirsi, con scelta definitiva, a Ginevra: «Chi può osare di entrare nel segreto dei suoi umani tormenti, delle sue nostalgie, delle sue brame, dei pungenti ricordi per l’immagine che lo assillava nella sua povera e deserta casetta di Ginevra? E chi può osare di approvare o condannare la deliberazione che egli prese di porre una pietra sul passato e formarsi un nuovo legame e cancellare quell’immagine lontana e pur vicina con la realtà di un’altra figura muliebre, che gli stesse accanto amorevole? Eppure, c’è chi ha osato».
È difficile, leggendo queste pagine, sottrarsi all’impressione che Croce parlasse con questo vigore perché egli era passato attraverso tormenti e pene non difformi da quelle che avevano travagliato Gian Galeazzo Caracciolo, e che fosse proprio questo comune patire a consentirgli di intuire qualcosa del travaglio del suo animo quando aveva dovuto fare quella scelta irrevocabile. Una scelta, una decisione, anzi, la presa d’atto di una più profonda e più alta chiamata cui non era possibile sottrarsi, della quale Galeazzo era consapevole in modo profondo e doloroso, essendo pronto a pagare tutti i prezzi. È un testo straordinario, uno dei pochi luoghi in cui traluce, come in un lampo, ciò che si agita nel fondo del cuore di Croce: come se di fronte ai «moralisti», di cui anche a lui era capitato di sentire gli stolti commenti in momenti di scelte difficili, non fosse stato in grado di contenersi e dominarsi, lasciando trasparire il suo più profondo sentire.
Un saggio straordinario, si è detto, nel quale Croce riesce a far intervenire, come in una sorta di straordinaria polifonia, altri personaggi che, in vari modi e in diversi momenti, avevano incrociato la loro vita con quella del Marchese – compresa una figura straordinaria come quella di Giordano Bruno, chiarendo, anche in questo caso, quale era stato il significato dell’uno e dell’altro nella storia europea: essi, pur non essendone consapevoli quando si incontrano, erano «i rappresentanti e i simboli di due grandi correnti spirituali, della Riforma e del Rinascimento».
Si è fatto riferimento al saggio sul Marchese di Vico per mostrare in presa diretta, e attraverso un caso specifico, quale fosse il «problema» di Croce quando scrive queste biografie, come lavorasse, quali fossero i contesti generali nei quali intendeva inquadrare gli «eletti» che aveva scelto di studiare. È lo stesso metodo che si riprova nelle bellissime pagine su Cola di Monforte, su Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro o su Diego Duque de Estrada o nel saggio, straordinario da ogni punto di vista, su Carlo Lauberg.
È difficile trovare nella nostra cultura storica pagine scritte con la stessa profondità e la medesima capacità di tracciare le linee essenziali della vita di un uomo: forse solo Federico Chabod è riuscito ad avvicinarsi a un simile modello nella seconda parte della Storia della politica estera italiana, quella dedicata agli «uomini», nelle quali schizza ritratti indimenticabili di grandi protagonisti della storia italiana, con una maggiore attenzione – sia per gusto personale che per una differente concezione nell’interpretazione degli uomini e delle loro vicende – al personale, al privato, all’empirico. Forse anche quelle memorabili pagine di Chabod andrebbero rimesse in circolazione, e lette con l’ammirazione che meritano.
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Nelle foto:
Benedetto Croce
Tuffatori di Villa della Gaiola. «Naples Sense of place» di Alex Trusty (pseudonimo di Alessandro Fidato), 52 scatti in bianco e nero per accontare Napoli
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Vite di avventure, di fede e di passione
Benedetto Croce
A cura di Marco Diamanti
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Dalla Domenica, de Il Sole 24Ore, 05 giugno 2022
Alessandro Baricco
Ehm, c’è una notizia da dare e questa volta la devo proprio dare io, personalmente. Non è un granché, avverto. Quel che è successo è che cinque mesi fa mi hanno diagnosticato una leucemia mielomonocitica cronica. Ci sono rimasto male, ma nemmeno poi tanto, dai. Quando hai una malattia del genere la cosa migliore che puoi fare è sottoporti a un trapianto di cellule staminali del sangue, cosa che farò tra un paio di giorni (bè, non è così semplice, ci stiamo lavorando da mesi, è un lavoro di pazienza).
A donarmi le cellule staminali sarà mia sorella Enrica, donna che ai miei occhi era già piuttosto speciale prima di questa avventura, figuriamoci adesso. Molto altro non mi verrebbe da aggiungere. Forse, ecco, mi va ancora di dire che percepisco ogni momento la fortuna di vivere tutto questo con tanti amici veri intorno, dei figli in gamba, una compagna di vita irresistibile, e il miglior Toro dai tempi dello scudetto. Sono cose, le prime tre, che ti cambiano la vita. La quarta certo non te la guasta. Insomma, la vedo bene. Per un po’ non contate su di me, ma d’altra parte non abituatevi troppo alla cosa perché i medici che si sono ficcati in testa di guarirmi hanno tutta l’aria di essere in grado di riuscirci abbastanza in fretta.
Abbracci, AB
BARTOLOMÉ ESTEBAN MURILLO: Il restauro e la scoperta
C’è una figura misteriosa, un altro quadro dipinto sotto al quadro che si ammira oggi, di cui non si sapeva nulla. C’è una vicenda legata all’origine di quest’opera e a come arrivò a Roma, ancora da ricostruire. E c’è un accenno di erotismo — un capezzolo prima coperto, poi svelato dopo vari ripensamenti — là dove mai ce lo si aspetterebbe da un pittore consegnato alla storia come il grande cantore delle Inmaculadas, alfiere della devozione e della religiosità popolare.
Per la serie, dunque, un restauro e mille storie: quelle che stanno emergendo dai «lavori in corso» su una celebre tela del XVII secolo, la cosiddetta Madonna del latte di Bartolomé Esteban Murillo (1618-1682), conservata da secoli nella Galleria Corsini di Roma, sede, con Palazzo Barberini, delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica. Il quadro dall’estate scorsa è stato sottoposto, per la prima volta, a una serie di indagini diagnostiche: raggi X e multispettrale (riflettografia infrarosso, Uv, X-Ray Fluorescence analysis), di cui si attendono ancora i risultati definitivi. Ma tanto è bastato a individuare, sotto all’imponente tela (164 centimetri di altezza per oltre un metro) un precedente dipinto in avanzato stato di composizione, raffigurante un San Francesco in preghiera.
Non sono rari, soprattutto nel corso del XVII secolo, i quadri che hanno rivelato diversi stati di composizione. Tra i casi più noti, i Caravaggio della Cappella Contarelli nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi, dove indagini diagnostiche simili confermarono anni fa il percorso travagliato delle tele del Merisi. Ma se cambi di composizione in corso d’opera sono documentati, «raro ed eclatante — racconta Alessandro Cosma, storico dell’arte, funzionario delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica — è il caso di un quadro, già dipinto, con volto e mani praticamente finiti, cui se ne sovrappone un altro dal soggetto totalmente diverso. Non si tratta qui di una tela riutilizzata, ma di una figura precedente di cui parti vengono riusate per costruire il nuovo quadro. Le pieghe del saio del santo, ad esempio, con cui Murillo crea la gamba della madonna».
Un’astuzia del pittore, forse per guadagnare tempo, che in queste ore, a restauro in corso, si riesce a osservare perfino a occhio nudo: «Si vedono anche un libro, un albero sullo sfondo e altri dettagli — osserva Cosma —. Date le dimensioni del dipinto, non certo una tela da cavalletto, è probabile che si sia trattato di una commissione importante, interrotta per chissà quale motivo; al momento possiamo fare solo ipotesi». Cosma, insieme alla responsabile del Laboratorio di restauro del museo, Chiara Merucci, e ad Alessandra Percoco, che sta eseguendo materialmente il lavoro, è ora impegnato nello studio della tela, il cui restauro sarà presentato a marzo con una pubblicazione che ripercorrerà anche la storia del quadro, vera icona di successo nella Roma tra Sette e Ottocento, fonte di ammirata ispirazione per scrittori, artisti e viaggiatori del Grand Tour.
A restare folgorato dal Murillo di casa Corsini anche Gustave Flaubert durante un viaggio a Roma nel 1851. L’autore di Madame Bovary in una serie di lettere al fratello raccontò di non riuscire addirittura a dormire, ossessionato dalla visione di quella che le guide dell’Ottocento avevano già ribattezzato, con azzardato esotismo, la Madonna zingara (Murillo è di Siviglia, città dei gitani). «Sono innamorato della Vergine della Corsini — scrive Gustave —. La sua testa mi perseguita e i suoi occhi continuano a passarmi davanti come due lanterne danzanti». E che tra i punti focali dell’opera ci siano proprio quegli occhi lo confermano le indagini in corso: «Velature, spostamenti, ritocchi, un lavoro infinito», dicono le restauratrici, le quali hanno anche individuato un quasi certo ripensamento del pittore per la veste appena scollata sul seno di Maria, prima coperto, poi svelato. Un’immagine esplicita e poco consona ai canoni dello spirito post-tridentino, di cui era ancora permeato il XVII secolo. D’altronde l’erotismo in Murillo — che la storiografia ha restituito a lungo come il pittore devoto per antonomasia, quello più riprodotto fino ai santini da comunione, ma che in realtà fu uomo tormentato, ossessionato dai denari, finito in carcere per debiti — non è più da tempo argomento tabù: un tema affrontato nel 1982 da Jonathan Brown e più volte confermato da Benito Navarrete, tra i massimi studiosi dell’artista.
Ma come entrò questa conturbante raffigurazione sacra in collezione Corsini? Di pari passo con il restauro stanno procedendo gli studi sulle sue origini, che però restano ignote. Murillo, in vita e fino a tutto l’Ottocento, fu una stella del mercato collezionistico, pagato come e più del genio indiscusso del Siglo de Oro, quel Velázquez che nel mite Bartolomé Esteban vide un rivale facendo di tutto per tenerlo alla larga dalla corte di Madrid. Una leggenda, di cui si trova traccia anche in articoli di stampa del XIX secolo, voleva che il quadro della Madonna zingara fosse un regalo del re di Spagna al cardinale Neri Maria Corsini (1685-1770), nipote di papa Clemente XII, esponente di spicco del casato, collezionista e fondatore della raccolta nel Palazzo di via della Lungara, dove ha ancora sede la Galleria. La prima notizia del quadro di Murillo è però un inventario corsiniano tardo, del 1784, motivo per cui si pensò che a comprarlo fosse stato Andrea, nipote di Neri Maria. Ma Alessandro Cosma ha recentemente intercettato un diario poco noto di un altro innamorato celebre della Virgen gitana, il pittore Jean-Honoré Fragonard. Il quale già dieci anni prima, 24 marzo 1773, annotando le sue impressioni su una visita a Palazzo Corsini citava proprio la merveilleuse madonna di Murillo nella camera da letto del cardinale Neri Maria, morto tre anni prima.
Le lancette vanno perciò spostate indietro, con i documenti più antichi rintracciati che rimandano sì a un regalo al Gran cardinale di famiglia, ma non del re di Spagna, bensì del suo segretario particolare per testamento, Gian Battista Pontici, poeta e arcade, cavaliere dell’Ordine di Santiago, dunque legato ai circoli spagnoli nella Roma settecentesca. Come e quando il quadro dell’allora costosissimo Murillo sia giunto nelle mani di Pontici è quanto resta da scoprire. Nota invece l’immensa fortuna dell’opera, almeno fino a quando l’astro Murillo non si spegnerà con il prevalere di un gusto legato alle avanguardie. Da ricordare, almeno, la vendita forzata della Gipsy Madonna durante l’occupazione francese del 1799 (poi ricomprata dai Corsini) per la cifra record di 600 scudi, sei volte più del Rembrandt di famiglia; e le innumerevoli richieste di copie del quadro, ancora oggi sparse nel mondo: Victoria & Albert Museum, Russia, Messico, Usa. C’è poi la piccata testimonianza di un puritano avvocato e diarista inglese, Henry Crabb Robinson, che nel XIX secolo si compiaceva della neutra dicitura con cui in Galleria era indicato il quadro: A Mother and Child, non riconoscendo dunque a quella peasant girl (contadina) il sacro appellativo di Vergine. Infine, l’aulico omaggio di Tito Alacci, alias Alacevich, biografo delle dive del muto, che in un libro del 1919 sui volti del cinematografo sentenziava: «La deliziosa Madonna di Murillo dai grandi occhi è la più bella delle donne».
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Da La Lettura del Corriere . Domenica 24 Gennaio 2021
BARTOLOMÉ ESTEBAN MURILLO (SIVIGLIA 1618 – CADICE 1682)
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Galiziane alla finestra (o Las Gallegas) è un dipinto di Bartolomé Esteban Murillo realizzato a olio su tela 124 × 104 cm. È conservata alla National Gallery di Washington.
IL GIOVANE MENDICANTE (1645 CIRCA) MUSEO DEL LOUVRE DI PARIGI - TELA CM. 137 X 115
Madonna del latte
1675 ca. - olio su tela - cm 164 x 108 - Galleria Corsini - Inv: 464
Strehler e “Il Piccolo” grande teatro
Insomma secondo te – c’è un modo di fare teatro alla maniera del Piccolo – il tuo stile è riconoscibile e ha esercitato un’influenza...
La parola stile applicata alla regia non mi piace affatto. Ma ci sono certe metodologie, certe “cose fondamentali”, perfino delle suggestioni visive, che, forse, sono il mio contributo personale al teatro anche se sono stati rifiutati da alcuni, amati da altri. Per quel che concerne il Piccolo, la sua filosofia organizzativa ha avuto una grande influenza in Italia, dove non esisteva il concetto di un teatro pubblico d’arte. Nel resto del mondo la sua influenza è soprattutto estetica, troppo spesso formale. L’idea o l’aspirazione a una certa forma di teatro non ha sempre avuto seguito. Perché il Piccolo è un teatro troppo povero, troppo limitato, troppo miracoloso per servire d’esempio. Non consiglierei a nessuno di vivere, se si sceglie la vita del teatro pubblico, una vita teatrale come quella del Piccolo. Il Piccolo è un teatro pubblico inventato da troppa poca gente, un’illusione che corre sempre il pericolo d’annientamento.
Vuoi forse dire che esistono solo i tuoi spettacoli e che il Piccolo non esiste? Esistono prima di tutto i miei spettacoli e ci sono anche gli spettacoli degli altri. Ma gli spettacoli di un regista direttore costituiscono l’identità di un teatro e sarà sempre così. Il Piccolo non è un esempio di struttura; non ha potuto esserlo date le condizioni nelle quali ha vissuto e vive ancora. Ma può essere esemplare da molti altri punti di vista. Paradossalmente la sua grande povertà è un esempio per molti altri teatri che in tutta Europa ricevono troppi soldi dai pubblici poteri. Troppo sovente i teatri pubblici europei finiscono per diventare delle mostruose macchine di produzione teatrale, a scapito della qualità, con un’eccedenza di personale in tutti i suoi settori, una colpevole burocratizzazione e una sindacalizzazione mal compresa.
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Estratto da Giorgio Strehler - Intervista a me stesso – De Piante Editore
Da avvocato delle grandi banche alla Chiesa. Padre Augusto Zampini-Davies
A tu per tu. Padre Augusto Zampini-Davies,
Da avvocato delle grandi banche alla Chiesa. Padre Augusto Zampini-Davies, 51 anni, un tempo era un brillante avvocato delle banche e delle corporation, e prima ancora dentro la Banca Centrale argentina. Oggi è sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, il “ministero” del Welfare globale della Santa Sede
Carlo Marroni
Ci scherza su, e parla di «umorismo di Dio». Già, perché un tempo era un brillante avvocato delle banche e delle corporation, e prima ancora dentro la Banca Centrale argentina. Insomma, lavorava per chi i soldi ce li aveva, e parecchi. I ricchi. Oggi è un avvocato difensore dei poveri. Su incarico diretto di Papa Francesco. Una storia che sembra un romanzo, ma che nella chiesa cattolica non è poi così infrequente. Padre Augusto Zampini-Davies sorride quando racconta la sua di storia, delle sue aspirazioni giovanili e della chiamata, dell’incontro con Bergoglio, ma anche con Christine Lagarde. Ad appena 51 anni, è sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, il “ministero” del Welfare globale della Santa Sede, potrebbe essere definito anche il think tank della Santa Sede dove si elaborano le strategie sociali del papato di Bergoglio, a partire dalle encicliche. «Per tutta la vita ho voluto essere un avvocato, come mio padre. Sono stato fortunato a studiare all’Universidad Católica Argentina ed entrare nella Banca Centrale della nazione in un momento di ripresa economica da una delle crisi più importanti della nostra storia» racconta poco tempo dopo la sua nomina nella task force voluta dal Papa per studiare le strade di uscita dalla crisi evitando gli errori commessi dopo il 2008.
Ma, come dicevamo, prima di diventare sacerdote è stato anche un avvocato d’élite: «Ho lavorato tre anni presso lo studio legale Baker McKenzie, dove sono stato in grado di conoscere non solo il mondo delle banche, ma anche quello delle società internazionali e di investimento di ogni tipo. È stata un’esperienza meravigliosa; è così che ho saputo cos’è il mondo degli affari». All’epoca il managing partner della legal firm globale con sede centrale a a Chicago – oggi fattura quasi tre miliardi di dollari – era la Lagarde, prima di diventare ministro del governo francese (all’economia prima e poi alle finanze), e poi direttore generale del Fondo Monetario Internazionale e, da novembre, Presidente della Bce. L’ha mai incontrata? «Forse ad un evento. Poi, sono stato con lei nel 2018, durante gli incontri annuali del Fmi e del gruppo della Banca mondiale, in Indonesia. Dalla mia vita precedente ho mantenuto stretti contatti con persone del mondo della finanza e degli affari con i quali adesso lavoro e collaboro da un’altra prospettiva». Prima avvocato, quindi, poi il seminario diocesano e anni spesi tra parrocchie di periferia in Argentina. E una sfilza di nuovi titoli accademici, specie in teologia morale, tra cui uno a Cambridge.
E il mondo legale e finanziario? «Quando sono entrato in seminario, ho pensato che tutto ciò fosse rimasto nel passato. Ma ora, per l’umorismo che Dio talvolta manifesta nei nostri confronti, sono tornato alle mie vere radici, la ricerca della giustizia, ma con un altro scopo; difendere i poveri, promuovere il bene comune (non solo quello di alcuni) e il benessere di tutte le persone. La mia conoscenza di ciò che sta accadendo nel mondo dell’economia e della finanza forse può aiutare a creare un dialogo costruttivo e a capire cosa funziona e cosa no. L’esperienza è un dono. Ho sempre chiesto a Dio perché mi ha lasciato fare l’avvocato quando ero destinato a una vita nella Chiesa. Sembra che la risposta possa scoprirla ora». La sua è certamente una figura in forte ascesa dentro la Santa Sede, per i temi delicati che tratta.
Forse in futuro potrebbe essere chiamato da Bergoglio ad occuparsi più direttamente di “finanze”, visti i problemi ancora evidenti che i recenti fatti attorno al caso del palazzo di Sloane Avenue – che già ha fatto saltare molte teste e ancora non si vede la fine – hanno rimesso sotto i riflettori. Ma il Papa, si è visto, non è incline a promozioni per affinità nazionali né a disegnare carriere a tavolino, come accaduto per decenni. Conosceva Bergoglio quando era in Argentina? «Ero nella diocesi di San Isidro, non di Buenos Aires, dopodiché ho iniziato a lavorare a stretto contatto con i vulnerabili e i poveri. Una volta la parrocchia stava lavorando con le comunità insediate intorno alla diga di Luján quando la nostra barca si è rotta. In uno scenario drammatico e provvidenziale, il cardinale Bergoglio, che aveva sentito parlare del lavoro che stavamo conducendo, venne in nostro soccorso con un nuovo motore per poter continuare a evangelizzare. Questo è stato il primo dei nostri incontri, ma ci siamo conosciuti a un livello più personale durante il Sinodo pan-amazzonico (due anni fa, ndr)».
Ora padre Zampini risiede a San Calisto, il complesso extra-territoriale vaticano nel cuore di Trastevere, ma il suo pensiero è spesso rivolto al suo Paese, che visse una ventina di anni fa una delle crisi più gravi della sua storia. «Come argentino cresciuto tra gli anni 70 e 90, sfortunatamente, ho dovuto sperimentare molte inadempienze finanziarie. Come per molte persone della mia generazione, tutti i miei risparmi dalle prime fasi del lavoro sono svaniti. Uno dei miei primi lavori è stato presso i tribunali nazionali argentini e ricordo che ho ricevuto il mio primo stipendio durante il periodo di iperinflazione: 300% di inflazione mensile! Dovevi spendere tutto in un giorno a causa dell’instabilità economica e poi vivere senza nulla per un mese. È un’esperienza triste, ma dà resilienza e comprensione di come le finanze influenzano le persone comuni».
La pandemia mette in ginocchio famiglie, imprese, e i Paesi più deboli. «Come sacerdote nei quartieri poveri ho imparato dalla gente; dalla loro resilienza contro entrate insufficienti e molti debiti. Inoltre, in Argentina, tutti, anche la Chiesa, vivono l’esperienza del debito. È quasi una situazione “esistenziale”. Questo ci educa ad avere uno sguardo sulla finanza più ampio di quello che è semplicemente numerico». E cita un classico dell’economia: «Non lo dico solo io: il premio Nobel Robert Schiller afferma che la finanza dovrebbe essere un mezzo per raggiungere obiettivi sociali. Quando questi mezzi diventano un fine in sé, la finanza diventa prepotente e distruttiva. E questo io l’ho imparato da giovane». Il suo dicastero, presieduto dal cardinale ghanese Peter Turkson, è molto ascoltato da Bergoglio, specie ora che si naviga a vista. I numeri che emergono sono drammatici per l’economia. «Penso che uscirà necessariamente un mondo diverso. Dipenderà da noi renderlo migliore o peggiore rispetto a prima di questa crisi, che non è solo sanitaria, ma anche sociale, economica e, direi, anche politica. Infatti, questa crisi del Covid-19, nelle sue varie dimensioni, ha messo in evidenza le contraddizioni e le debolezze inerenti alle nostre strutture e istituzioni socioeconomiche. Come ha detto papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’”, l’attuale modello economico mondiale non porta beneficio allo sviluppo di ogni persona né è sostenibile perché si basa sullo sfruttamento della nostra casa comune, nonché su una cultura dello scarto che ha intorpidito il nostro senso di solidarietà e fratellanza. Questo è il motivo per cui insistiamo sul fatto che questa è un’opportunità unica per fare un profondo cambiamento: costruire un mondo più sano e più equo con persone sane, istituzioni sane e un pianeta sano».
Ma di certo come sempre tanti soffriranno, «come tutte le crisi, anche questa colpisce in modo sproporzionato i poveri. Per esempio, i lavoratori del settore informale che non ricevono protezione dallo Stato o dal mercato, ma che sono obbligati a rimanere nelle proprie case, si devono confrontare con il dilemma di uscire per trovare lavoro con il rischio di contagiarsi e di contagiare, o di non poter essere in grado di sfamare la propria famiglia». E il mondo delle banche e della finanza, che lei conosce bene, da cui scaturì la crisi del 2008? «Per quanto riguarda l’industria finanziaria, che è un mezzo per servire l’economia, possiamo dire che negli ultimi decenni si è distorta, servendo sé stessa. La pandemia può essere una chiamata affinché il mondo della finanza serva a rigenerare un’economia sostenibile e inclusiva». Intanto i Paesi poveri sprofondano. «Mi sembra che non si possa uscire da questa crisi indebitando ulteriormente coloro che sono già indebitati. È tempo di ridurre, se non condonare, il debito sovrano dei Paesi in via di sviluppo, in modo che utilizzino tali risorse per mitigare la pandemia e per la loro crescita; e questa è una delle più alte espressioni di solidarietà universale».
Dalla Chiesa, e in particolare dal suo dicastero, potranno uscire delle proposte, come con “Laudato Si’”: salario universale, come ha già proposto il Papa? «È una alternativa che è stata analizzata dalla Commissione ed è una delle tante proposte che stiamo progettando per rispettare il nostro impegno nei confronti dei poveri e garantire che godano di una protezione prioritaria. Di fronte a questi eventi inaspettati e le cui conseguenze incidono in modo sproporzionato su coloro che hanno il minimo, dobbiamo esplorare tutti gli strumenti a nostra disposizione per evitare che i poveri vengano colpiti di nuovo e diventino sempre più poveri. È difficile comprendere la realtà di coloro che affrontano la difficile decisione di uscire al lavoro ed esporsi al contagio o alla fame; di quelli che non hanno acqua corrente per lavarsi le mani; di coloro che vivono in condizioni precarie e mancano di servizi sanitari o spazio fisico per soddisfare la distanza sociale». Insomma, per questa crisi globale «non esiste un’unica ricetta. Poiché si tratta di un problema di comunità, le soluzioni devono essere comuni, recuperando lo spirito dei padri fondatori dell’Unione europea. Inoltre, poiché la crisi è complessa e non esiste un “technofix”, tutte le soluzioni devono essere a lungo termine e senza scorciatoie».
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Da La Domenica - Il Sole 24Ore del 04 ottobre 2020
Brahms, Esattamente e integralmente
Daniele Gatti dirige con l’Orchestra Rai le quattro «Sinfonie» del compositore tedesco, tenendo insieme l’aspetto speculativo e quello agreste. Notevoli le due spalle, in gara di bravura
Misteri. Fino all’anno scorso non aveva mai diretto un concerto con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Forse aveva l’agenda occupata. Forse non veniva invitato. La vita musicale italiana è fatta di percorsi sotterranei a volte insondabili. Meglio andare oltre. Attenersi ai fatti. Eccoli: Daniele Gatti, bacchetta internazionale, milanese di nascita, di casa a Parigi, Amsterdam e di nuovo a Roma – trentenne a Santa Cecilia, ora al Teatro dell’Opera - nel 2020 viene a sorpresa chiamato a Torino. La sua Nona di Mahler incanta orchestra e pubblico (si era a gennaio, pre-pandemia) e probabilmente non solo loro. Anche il Maestro.
Che infatti da allora ritornerà con continuità, sul medesimo podio, per programmi diversi. Ben sei. Cioè, facendo i conti, più di quelli che altri presentano, magari fregiati dei galloni di direttore principale. Ultimo raccolto di questa semina fruttifera di concerti a porte chiuse, trasmessi attraverso le consuete dirette di RadioTre, ora in video, in streaming sul portale di RaiCultura e su Rai5, il 9 e 10 giugno prossimi, sono arrivate le quattro Sinfonie di Johannes Brahms. Eseguite a coppie, prima le dispari (n.3 e n.1) e poi le pari (n.2 e n.4), per una integrale che ha reso tangibili il concreto lavoro, la reciproca stima, tra podio e strumentisti. A segnare uno dei punti fermi nella storia della Nazionale Rai. E di questo nostro tempo.
I programmi e le stagioni, mai come nella tempesta del virus sono stati messi a dura prova. Ne sa qualcosa il direttore artistico della Sinfonica torinese, Ernesto Schiavi, che si è trovato più volte a dover modificare in corsa cartelloni pronti, ma piegati dal continuo susseguirsi di restrizioni. All’Auditorium Toscanini però la musica non ha mai taciuto. E dato che la fortuna premia gli audaci, ecco che proprio nelle due ultime puntate della “musica-per-poltrone-vuote”, come una corona è planata l’integrale Brahms. Punto fermo per concludere, e da cui ripartire. Nessuno avrebbe potuto prevedere se, quando e come si sarebbe arginata la meno immaginabile esperienza della nostra vita artistica, quella delle esecuzioni in totale solitudine. Qui, pensando in grande, si è sognato. E il sogno è diventato una fine memorabile.
Gatti da sempre ama le integrali. Le sa costruire. Conferisce loro originalità, secondo intuizioni e propositi interni. Ricordiamo la sua prima, un tutto Beethoven quando era poco più che studente di Conservatorio. Ma poi anche l’ultima con Beethoven, entusiasmante, nei piccoli teatri di Lombardia e insieme alla Mahler Chamber Orchestra. Per far conoscere LaFil, la nuova compagine creata a Milano un paio di anni fa, l’aveva impegnata in due maratone, quattro più quattro, Brahms-Schumann, meravigliose. Di nuovo sul medesimo sinfonismo romantico, in confronto ravvicinato - un edificio che giganteggia, mentre contemporaneamente si sbriciola - il direttore ha portato nel mese scorso Schumann in tournée in Spagna, con la MCO, e ora appunto Brahms a Torino. Puntando a obiettivi evidenti.
Innanzitutto la definizione di suono. Non teutonico, perché le nostre orchestre non lo sono. Ma pieno. Cioè sensibile alla tinta diversa delle quattro Sorelle. Ciascuna con un carattere. Restituito attraverso lo spessore timbrico, sciolto in articolazioni spianate. Anche un poco forzate, dove necessario. Coinvolgendo tutte le sezioni, comprese le tradizionalmente deboli.
La distribuzione dei leggii in orizzontale sull’intera platea, coi fiati a distanza, alle spalle, spaziati sulle gradinate dell’anfiteatro, visivamente contribuiva all’evidenza di ogni strumento. A Berlino, i Filarmonici già da qualche concerto sono tornati alla disposizione originale, con gli archi a coppie e una compattezza che fa bene alla musica, non solo come gesto simbolico. Auspicabile torni presto da noi. Perché la Nazionale Rai sfoggia tante giovani leve, entrate fresche nei ranghi e eccellenti, ma erano proprio loro a mettere tristezza. I ragazzi. Isolati e privi di quel naturale contatto che fa un’orchestra.
Il Brahms di Gatti - memoria di ferro - tiene insieme le due facce del compositore: quella speculativa, astratta, giocata principalmente sulla frantumazione dell’idea tradizionale di tempo (che infatti è in mutazione progressiva) e che il gesto del direttore plasma, contenuto, esatto; e quella invece agreste, bucolica, nostalgica, semplice (si fa per dire, perché sempre esposta nell’intonazione) affidata alle finestre dei fiati. Notevoli le prime parti Rai.
Sia nella prima che nella seconda tornata di Sinfonie. Con alternanza delle due spalle in gara di bravura, nelle personalità diverse. La chiave italiana per supplire alla graniticità, estranea al nostro dna, si fondava sull’esaltazione del passo cameristico, fatto di temi luminosi e in continuo rilancio tra le sezioni, disegnati con chiarezza. Stupendi i finali, così brahmsiani nello stare sospesi, tra rivoli melodici ancora pronti ad affiorare. Oppure negli incastri ossessivi, infiniti.
Una cattedrale la Passacaglia della Quarta, vero addio programmatico alla Sinfonia. Perché Brahms - come Beethoven e Mozart - sapeva esattamente dove metterle la parola fine.
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Di Carla Moreni - Da Il Sole 24Ore – Domenica 09 maggio 2021
«Per l'uomo è tempo di ritrovare se stesso»
Parla il sociologo.
Edgar Morin: «Per l'uomo è tempo di ritrovare se stesso»
Alice Scialoja
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Alle soglie dei 100 anni legge l’emergenza ecologica e la pandemia alla luce dell’estemporaneità della storia, invitando i giovani a ricostruire sulle fondamenta di un nuovo umanesimo
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Attento, sorridente, disponibile, Edgar Morin ti guarda negli occhi quando parla e mentre ti ascolta. Il sociologo e filosofo francese, nato nel 1921, ha attraversato un secolo di storia e raccontato la sua in memorie di recente pubblicazione. Alla scrivania del suo studio nell’Istituto di botanica di Montpellier, risponde a queste domande un giorno di febbraio, all’inizio della pandemia da coronavirus. Così legge il presente il padre del “pensiero complesso”.
Pensa che il coronavirus possa segnare per l’umanità una presa di coscienza dell’interdipendenza e comunità di destini di tutti gli esseri umani?
Stiamo vivendo una tripla crisi: quella biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite, quella economica nata dalle misure restrittive e quella di civiltà, con il brusco passaggio da una civiltà della mobilità all’obbligo dell’immobilità. Una policrisi che dovrebbe provocare una crisi del pensiero politico e del pensiero in sé. Forse una crisi esistenziale salutare. Abbiamo bisogno di un umanesimo rigenerato, che attinga alle sorgenti dell’etica: la solidarietà e la responsabilità, presenti in ogni società umana. Essenzialmente un umanesimo planetario.
Lei ha scritto che la storia, in particolare quella umana, è imprevedibile e che il futuro dell’umanità sarà altrettanto inaspettato. Si può, tuttavia, parlare di una qualche lezione della storia?
La prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia, che siamo ciechi a ciò che ci ha insegnato. Per esempio che essa comporta un certo numero di determinismi, come lo sviluppo delle forze produttive o i conflitti di classe indicati da Marx, ma anche una dimensione shakespeariana, di noise and fury. Ai nostri antenati cacciatori e raccoglitori non è saltato in mente che sarebbero diventati contadini, così come gli imperi dell’antichità non pensavano minimamente al proprio crollo, né l’Egitto, né i Sumeri, né Roma. C’è una gran parte d’ignoto e d’inaspettato: è a mio avviso una delle lezioni. Il movimento hitleriano negli anni 20 sembrava condannato alla sterilità. Ma la congiunzione tra la crisi del 29, una Germania umiliata dal trattato di Versailles, la divisione tra socialisti e comunisti, i poteri finanziari che pensavano di manipolare Hitler senza sapere che lui avrebbe manipolato loro, ha fatto accadere l’impensabile: che il Paese più colto d’Europa affondasse nella barbarie. La storia, dunque, ci insegna a essere vigili e a pensare che i periodi che appaiono progressisti possono essere seguiti da regressione e barbarie, e che nemmeno questa è eterna. Prima della guerra, la dominazione nazista in Europa sembrava generale e che cosa ha fatto cambiare le cose? Il Duce. Perché ha voluto attaccare la Grecia ma è stato fermato dal piccolo esercito greco, allora ha chiamato Hitler in aiuto, che ha dovuto rimandare di un mese l’at- tacco all’Urss previsto a maggio del ’41, perché si è scontrato con la resistenza serba prima di arrivare a piantare la bandiera con la svastica sull’Acropoli. Così, arrivato alle porte di Mosca, l’esercito tedesco è stato congelato da un inverno precoce. Ma, se avesse attaccato a maggio, avrebbe preso Mosca e il destino sarebbe cambiato.
Significa che la storia è governata dal caso?
Il caso interviene spesso, ma è la complessità dei fattori che operano nella storia a modificarla di più, avvenimenti che fermentano e lavorano sulla realtà. Gorbaciov, per esempio, chi se lo aspettava? O il precedente re di Spagna, che era stato nutrito dal franchismo… Scaturiscono conversioni psicologiche, se così si può dire, uno spirito sotterraneo che rovescia le parti: la storia è anche questo.
Vede una nuova devianza nel presente e ritiene preoccupante la recrudescenza dei nazionalismi?
Siamo in un’epoca regressiva. La regressione si manifesta con la crisi delle democrazie che in molti luoghi, Europa compresa, lascia il posto a regimi semidittatoriali, in Turchia, in Ungheria, in Russia, un po’ anche in Polonia. Una tendenza quasi universale, cui si somma il dominio di gigantesche forze economiche, che nelle condizioni di neoliberismo attuali pesano sui popoli, che si sollevano ma falliscono. Queste rivolte si sgonfiano o vengono schiacciate perché non c’è una forza che le guidi, una voce capace di dare un senso al futuro. Stanno prevalendo fattori negativi. Ogni tanto, interviene un fattore gradevole e inatteso, come l’elezione di Papa Francesco.
Le piace Papa Francesco?
Sì certo, pur essendo io agnostico.
Lei sostiene che l’incapacità di gestire la complessità ci porta verso l’autodistruzione. Abbiamo possibilità di salvarci?
Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicidi. Fin dove arriveranno questi danni e quando avverrà una reazione, non si sa. Da 50 anni sono tra coloro che lanciano l’allerta. Ma i progressi della coscienza sono lenti. È tardi. Non lo so. Penso possa esserci devastazione, ma non vedo la distruzione della specie umana. La storia insegna anche come a un certo punto tutto sembri crollare, la romanità per esempio; poi da un processo multisecolare scaturisce qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Siamo in un mondo incerto e possiamo immaginare un avvenire in cui intervengono forze catastrofiche, ma la probabilità non è mai certezza.
In un libro con Mauro Ceruti, scrive che l’idea dell’Unione europea è figlia dell’improbabile perché è immaginata da uomini al confino durante la guerra. L’improbabile come motore di ottimismo?
Io ci credo. Ma non so quale improbabile possa comparire oggi. Nella storia umana, comunque, i due inconciliabili ma inseparabili nemici che sono Eros e Thanatos continueranno ad affrontarsi, e Thanatos non riuscirà a distruggere Eros né Eros a eliminare Thanatos. Ognuno a turno prenderà il sopravvento. Oggi i più forti sono Polemos eThanatos, ma non c’è eternità nella storia.
Alexander Langer diceva che la rivoluzione ecologica potrà affermarsi nella misura in cui sarà desiderabile; è d’accordo?
Ci sono gli ecologisti ma la scienza ecologica non è insegnata da nessuna parte. È una scienza polidisciplinare e in quanto tale non accolta nelle nostre università. La seconda lacuna è che, nonostante si sappia da Darwin in poi che siamo frutto di un’evoluzione biologica, tutta la nostra cultura continua a separare il biologico dall’umano. Abbiamo creato una frattura epistemologica. Le catastrofi, come Chernobyl, scuotono, poi vengono dimenticate, e così i nuovi uragani. Altre culture hanno un senso dell’inglobamento dell’umano nella natura ben superiore al nostro.
Greta Thunberg?
Ha svegliato qualcosa nella gioventù di molti Paesi e questo è davvero positivo.
L’economia procede in modo del tutto incontrollato. Come si potrebbe orientarla e quale controllo sarebbe auspicabile?
L’unico controllo auspicabile sarebbe quello esercitato da organismi economici mondiali, che esistono ma sono al servizio della corrente dominante. Servirebbe una coscienza planetaria della comunità dei destini umani. Oggi, al contrario, l’angoscia fa che ci si richiuda sull’identità nazionale, etnica, sul nazionalismo. Invece di un’apertura della coscienza, vitale, c’è una chiusura, mortale. Questa regressione non possiamo nascondercela, meglio vederla e formare degli isolotti di resistenza. Creare oasi di libero pensiero, fraternità, solidarietà, isolotti di resistenza che difendono valori universali e umanisti, e pensare che un giorno questi possano diventare un’avanguardia. È successo tante volte nella storia, succederà di nuovo.
Crede nell’idea di progresso?
No. Ci sono progressi possibili, progressi incerti e ogni progresso che non si rigeneri degenera. Tutto può regredire.
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Da Avvenire di mercoledì 15 aprile 2020