L’alternativa a prefigurarsi reduci
Non li abbiamo interrogati a sufficienza questi reduci di vite non scelte, non fino in fondo, questi stoici senza teorie: non hanno fatto in tempo a chiedersi chi essere, che già erano qualcosa. Libertà senza scelta, la loro, o piuttosto scelta senza libertà? Noi nipoti cresciuti, a ogni modo navighiamo a vista – nel lusso disperante di protrarre il più possibile il rendiconto con l'identità. Chi sono? Che cosa faccio? Che cosa voglio fare? Che cosa posso fare? Chi sono in grado di essere? Nessun imperativo Nessuna scelta da considerare definitiva. E’ rassicurante e spaventoso insieme: Ancora un’opzione, una possibilità, ancora un desiderio!
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Dove sarà mai, allora, il punto in cui «la scelta è più della somma di tutte le scelte compiute prima?» (joan Didion, Run river)? Dove sarà mai l’istante in cui si prende una decisione radicale «con tutta l’intensità della personalità?»
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Si possono mettere in dialogo la poesia e le strade di una città? Se si tratta di versi di Lorca, sì: lo sapeva Pablo Neruda, che nell’ode all’amico spagnolo morto neanche quarantenne, scriveva: «le città che sanno di cipolla rorida | aspettano che tu passi con il tuo canto roco».
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Ad afferrare l’anima intraducibile delle cose, «l’incanto misterioso e ineffabile» per via di ciò che lui chiama duende - un sentore magico, quasi demoniaco. La vita di Lorca è tutta duende, è un sortilegio pazzo, fosforescente, a volte triste.
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Parla ancora con Dio, rimette piede in chiesa; partecipa, confuso, nella folla, a una processione per la settimana santa. Quando arriva a New York, nell’estate del 1929, alza gli occhi verso le cime dei grattacieli, viaggia in metropolitana, va al cinema – sono gli anni in cui esplode il sonoro – canta il dolore sommerso della grande città.
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Tutto ciò che aveva imparato, capito, tradotto in versi della sua terra andalusa – i bambini allegri fuori da scuola, i fior della campagna , le stelle, io pioppi, la sete. I melograni, i ruscelli, le capre, i campi di olivi aperti come ventagli - , tutto entra nella centrifuga della metropoli.
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Siamo visibili, gestori della nostra stessa visibilità – e saturi di visioni. Al punto forse da aver smarrito la facoltà che stava a cuore a Calvino: «il potere di mettere a fuco visoni a occhi chiusi».
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In tutto questo, che cosa c’entra uno come Bartleby? Forse il suo «avrei preferenza di no» funziona come un antidoto? Forse quel suo contegno, quella sua costanza, quella sua – così la chiama Melville – tranquillità, quella sua capacità di silenziosa contemplazione sono un argine, il freno al nostro essere troppo leggeri, troppo rapidi, visibili, molteplici, al punto di perderci e disperderci. «una sua qualità primaria, - scrive Melville, - consisteva in questo: ch’egli era sempre là». Solido, nella sua inattaccabile coerenza.
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La parola «contemplazione» appare quando il personaggio, in una sera estiva, sta facendo la sua nuotata giornaliera. Meglio il morto a galla. «il suo sguardo rovesciato ora contempla le nuvole vaganti e le colline nuvolose di boschi. Anche il suo io è rovesciato negli elementi: il fuoco celeste, l’aria in corsa, l’acqua culla e la terra sostegno. Sarebbe questa la natura?»
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«Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, - conclude il Signor Palomar, - ci si può spingere a cercare quello che quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile»
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«Palomar tenta di recuperare «una porzione, sia pur minima, di spazio non colonizzata dalle parole generiche ed astratte»
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«Gli occhi di Palomar sono quelli di un Bartleby miope («occhio nudo per lui che è miope significa occhiali»)»
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«Si chiama Bucky Cantor ed è il protagonista de
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l romanzo pubblicato da Philip Roth prima di congedarsi dalla scrittura, Nemesi»
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«Roth è magistrale, con la sua prosa sobria, precisa, non si lascia sfuggire una sola declinazione della paura umana: quando diventa rabbia, quando si alimenta di ignoranza, di superstizione, quando uccide ogni forma residua di intelligenza»
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Paolo di Paolo, Tempo senza scelte, Einaudi, 2016