Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede!

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 SIGNORA PONZA - Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede. (Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. In   silenzio.) LAUDISI - Ed ecco, o signori, come parla la verità. (Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.) Siete contenti?

Luigi Pirandello - Così è (se vi pare) Edizione 1925

 

 

​PIET MONDRIAN, L’ARTE SENZA CORNICI

PIET MONDRIAN, L’ARTE SENZA CORNICI

Lucian Lechintan S.I.

Mondrian Composizione GialloGeneralmente si passa in fretta accanto ai frammenti di arte astratta sparsi nello spazio pubblico e nei musei, talvolta con indignazione o ironia. Per la maggior parte delle persone, la mancanza dell’oggetto in un’opera d’arte costituisce un’esperienza sconcertante, associata per lo più all’incapacità dell’artista di creare un modello di disegno. Questo scritto vuole suggerire il contrario, cioè che la scelta di staccarsi dal figurativo è un’opzione coraggiosa, e che gli artisti che hanno fatto questo passo riescono a trasmettere un messaggio universale, al pari dell’arte classica.

Nel centocinquantesimo anniversario della nascita di Piet Mondrian (1872-1944), che ricorre il 7 marzo di quest’anno, risuonano ancora le parole profetiche pronunciate nel 1926 da Katherine Dreier, secondo le quali i Paesi Bassi hanno conosciuto tre grandi artisti, che, «sebbene fossero l’espressione logica della loro nazione, acquisirono risonanza internazionale grazie al vigore delle loro personalità: il primo era Rembrandt, il secondo Van Gogh e il terzo Mondrian»

1. Il successo della mostra al Mudec di Milano e i dibattiti recenti sulla figura dell’artista ci offrono l’occasione di constatare quanto i suoi quadri siano divenuti parte del nostro quotidiano, mentre rivendicano ancora la comprensione della loro portata rivoluzionaria.

L’arte rende l’uomo consapevole

All’inizio, Mondrian si è affermato come un raffinato pittore naturalista. Arrivato a una svolta, egli sceglie con molta determinazione la via dell’astrazione, che non abbandonerà più, nonostante la mancanza di commissioni e la vita di stenti alla quale sarà relegato per molto tempo. Quali sono stati i presupposti di una scelta così radicale? Come si spiega il continuo ritornare dell’artista sulle sue impronte, intervenendo a più riprese sulle sue composizioni? Per rispondere a queste domande, occorrerà introdursi nel vivo della società olandese della fine del XIX secolo e negli importanti cambiamenti avvenuti in essa.

Questo periodo coincide in Olanda con la forte industrializzazione dei centri urbani, accompagnata dalla campagna di fondazione o di restauro di chiese e di costruzione di quartieri popolari, fenomeno che portò allo sviluppo di rami artistici collaterali, come la pittura murale o la tecnica delle vetrate. Su questo terreno di elaborazione concreta, diventano fondamentali per gli artisti le teorie concepite soprattutto in Germania, e tra esse ha una certa preminenza quella dei colori. Per Goethe, alcuni colori sono radiosi, altri spirituali, ma nella loro essenza tutti si possono ridurre al bianco e al nero. In seguito, uno dei principi fondamentali dell’arte astratta sarà rappresentato dall’armonia cromatica della composizione e dall’introduzione del colore all’interno di un reticolo portante, simile al vetro colorato nella gola del righello.

Qualsiasi artista alla ricerca di un interlocutore usa varie strategie per avvicinarlo. Le ritroviamo anche nella pittura di Mondrian, talvolta eccessivamente accentuate da un certo tipo di interpretazione. Senza rinchiudere i propri spettatori in considerazioni generiche, l’artista stimola il proprio pubblico ad affrontare con lui alcune domande concrete, insieme alle sue intuizioni sulla vita, sulla società e sui valori dello spirito. Come afferma in uno dei suoi scritti: «Il contenuto della cultura occidentale consiste soprattutto nel rendere l’uomo consapevole». Mondrian credeva soltanto nell’arte capace di provocare una riflessione su temi profondi, nell’arte che diventa confronto, senza accontentarsi della visione illusionistica o decorativa, specifica dell’arte tradizionale.

La linea «quasi opera d’arte»

Il cammino di Mondrian verso l’astrazione ha avuto alcune tappe fondamentali. Una di esse è il primo periodo Mondrian Composizione A Losangaparigino, inaugurato nel 1912: periodo nel quale l’artista perfeziona la sua tecnica entrando in contatto con i pittori cubisti. Nel 1914 Mondrian ritorna in Olanda per far visita al padre malato, ma, a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, non può più a tornare a Parigi. Si stabilisce allora a Domburg, una località sul Mare del Nord, dove ritorna ai soggetti dipinti negli anni del suo successo: la torre della chiesa di Domburg, il faro di Westkapelle, le dune di sabbia, emblemi pittoreschi dipinti nel passato in ipostasi realistiche, simbolistiche o luministe. Secondo Yves Alain-Bois, è proprio questo lavoro in serie che ha portato Mondrian a concepire la possibilità dell’astrazione. A esso si aggiunge certamente il bagaglio sperimentale acquisito a Parigi, a contatto con Pablo Picasso e Fernand Léger.

Una lettera del 1919, indirizzata a Theo van Doesburg, ci fa capire che il passo verso l’astrazione era già stato compiuto: «Ora lavoro – afferma l’artista – alla ricostruzione di un cielo stellato, ma senza rifarmi a un dato presente in natura». L’astrazione diventa qui il resoconto intuitivo di una visione sorta nell’a priori, prima di situarsi in un punto di vista particolare. A un amico, che nella sua opera Molo e oceano - Composizione 10, in bianco e nero (1915) nota «l’atmosfera gioiosa del Natale», Mondrian risponde chiaramente: «Il significato del quadro – nel senso normale della rappresentazione – non era importante, e avevi ragione ad affermare che i miei lavori comunicano un sentimento natalizio… Se si visualizza l’idea del Natale in maniera totalmente astratta, si visualizzano la pace, l’equilibrio, il dominio spirituale ecc. Deve essere questo che intendevi». L’abbandono della forma particolare e la ricerca di nuovi rapporti universali anticipa l’idea che illustreremo in seguito: quella che l’arte ha un ruolo essenziale per l’equilibrio dell’umanità.

Per Mondrian, l’obiettivo dell’arte non è soltanto quello di costruire lo spazio, ma anche quello di rivendicare per esso una consistenza qualitativa. Per questo l’artista era sempre attento al modo in cui venivano esposti i propri lavori, alla posizione e alla luce necessaria. Nel 1915 egli scriveva a Theo van Doesburg: «La linea è diventata quasi opera d’arte per se stessa; non ci si può trastullare con lei». La linea è interrotta o percorre la tela da una parte all’altra, talvolta è affetta dal cromatismo, ma il più delle volte è un semplice tratteggio nero, retto, attraverso il quale si annuncia un nuovo piano visivo. Le linee non sono quasi mai vibrate e si aggregano nella composizione seguendo leggi rigorose. In un’altra lettera, indirizzata allo stesso van Doesburg, Mondrian precisa: «Si tratta, come si può vedere, di una composizione di linee verticali e di linee orizzontali che, in senso astratto, devono dare l’idea di una tensione verso l’alto, di un moto verticale: è la stessa idea che un tempo era collegata alla costruzione delle cattedrali».

Mondrian Place De La ConcordeMondrian arriva a superare l’idea di cornice e vuole indirizzare lo spettatore al di là dello spazio ristretto di una tela. Per esempio, nella Composizione a losanga del 1921, se si guardano attentamente le linee nere, esse non toccano mai i margini del quadro. Esiste una sola eccezione: quella dell’orizzontale al centro, che si spinge nella parte destra oltre la tela. Questo procedimento è riconoscibile anche nell’arte delle icone, dove si verifica che la preminenza della frontalità è soppiantata da un particolare: ad esempio, un piede o un’aureola che fuoriesce dal quadro nella trascuratezza dell’impianto. L’artista era quindi consapevole che la bidimensionalità aveva ancora delle risorse inesplorate; che l’Occidente si era concentrato esclusivamente sulla tridimensionalità, cercando di imitare più perfettamente la natura, creando l’illusione della realtà.

In cammino verso la bellezza reale

Il saggio «Il neoplasticismo in pittura» (De Nieuwe Beelding), nel quale si trovano le basi teoriche della svolta proposta da Mondrian, fu pubblicato in parte nel primo numero della rivista De Stijl (1917), redatta da Theo van Doesburg, e nei numeri successivi a cadenza mensile, fino al mese di dicembre del 1918. Il pittore poi ritorna costantemente sulle sue concezioni teoriche, e in un saggio del 1931, per spiegare il concetto di neoplasticismo, parte da una legge non scritta della natura: quella dell’ondulazione universale. Basta sezionare il tronco di un albero per capire che gli anelli di crescita sono disposti in cerchi concentrici; oppure far rimbalzare un sasso sulla superficie dell’acqua per percepire i cerchi concentrici che si formano.

Alle leggi della creazione il pittore contrappone una prospettiva puramente razionale, che contraddice il ritmo della natura: la costruzione nella cadenza di linee rette e ortogonali, in continuo riferimento alla forma del quadrato. A livello di percezione, la successione di queste linee porterà alle cosiddette «equivalenze», un equilibrio che compensa ciò che nella natura si trova in disequilibrio o non è ancora giunto alla consapevolezza di sé. Al ritmo opprimente della vita Mondrian oppone il concetto di «ritmo semplice», purificato da ogni contraddizione, che sorge dall’equivalenza. Se nel passato l’arte si concentrava sulla forma particolare, la nuova arte dovrà occuparsi di quei rapporti che sono apparentemente contradittori: la linea orizzontale e quella verticale. Il risultato di tali elaborazioni consisterà nella creazione di una «nuova cultura d’arte». A livello sociale, acquisire l’equivalenza coincide con la scelta di una cultura della vita: l’impegno contro l’oppressione e lo sfruttamento, contro il militarismo, e contro il trascurare il disabile.

Dopo il periodo trascorso in Olanda – tempo nel quale l’artista ha dipinto poco, dedicandosi soprattutto, nell’estate del 1919, all’elaborazione delle basi del neoplasticismo –, Mondrian ritorna a Parigi. È un periodo intenso di creazione, che si riflette anche nella Composizione con giallo, rosso, nero, blu e grigio (1920), considerata da Joop Josten come il primo quadro di espressione neoplastica. Qui il discorso pittorico si svolge su un piano ravvicinato e in assenza di un punto di vista particolare, dal momento che il campo visivo è costituito dall’intera superficie del dipinto. L’artista è alla ricerca di nuove formule per esprimere l’idea di equivalenza, e in questo senso svincola la tela dall’idea di «centro della composizione», compensandola attraverso l’equilibrio cromatico. Le tonalità di bianco qui dialogano con i rettangoli colorati nelle tonalità semplici dei colori di base. Gli spazi di colore grigi e neri servono a mettere in rilievo l’intero rappresentazionale, evitando così, attraverso un riuscito accordo cromatico, l’idea di fondo o quella di profondità dell’immagine. Tuttavia, a causa di una concezione quasi simmetrica, l’attenzione dello spettatore resta ancora rivolta all’interno del quadro, senza essere proiettata al di fuori, come si è visto nella Composizione a losanga del 1921.

La città, luogo di memoria e profezia

I quadri dell’ultimo periodo artistico di Mondrian sono tra i più interessanti, per lo spunto che traggono dai paesaggi urbani parigini, londinesi e newyorkesi. Essi nascono dalla consapevolezza che «tutto ciò che si dà come fatto storico è interpretabile, suscettibile di attribuzione di valore, oggetto di giudizio». La pittura riferita alla città non è necessariamente volta a rivelare una sintonia dell’artista con le sue realtà: Mondrian era consapevole delle disuguaglianze che vi si trovavano. Tuttavia, all’interno di queste megalopoli, al di là di ogni mutamento, l’artista assume il compito di cogliere le loro basi rigenerative. Si tratta di un progetto che affonda le radici nella prima tappa del cammino dell’artista verso l’astrazione, quando nel 1922 egli annunciava che «la completa realizzazione del neoplasticismo dovrà avvenire in una molteplicità di edifici, come città». Come osserva Anna Vallye, per gli artisti dell’epoca le architetture urbane non sono più progetti in scatola, ma «di natura incorporea che dissolve il volume nell’aria e che annulla le distinzioni tra interno ed esterno».

Place de la Concorde è tra i quadri più significativi di questo ultimo periodo creativo, e si segnala per la sua lunga gestazione dal 1938 al 1943. Il pittore è tornato continuamente su questo quadro, nelle peregrinazioni continentali fino all’ultimo periodo newyorkese. Inoltre, esso nasce dopo un periodo creativo molto sobrio dal punto di vista cromatico. La rappresentazione ha come riferimento un paesaggio reale, uno dei luoghi più frequentati sull’asse che attraversa il centro di Parigi. Dalla topografia reale della piazza l’artista riprende soltanto la vaga idea di uno spazio centrale, possibile allusione alla forma dell’impianto ottagonale della piazza. Questo volume, in rapporto alle traiettorie dei colori primari che dai lati avanzano verso di lui, si presenta come un grembo privo di qualsiasi vitalità coloristica. Il reticolo di linee nere, alle quali non si sovrappongono affatto i colori, è a sua volta implicato, in modo del tutto autonomo, in un gioco di intersecazioni. Un modulo di due linee orizzontali e parallele viene ripetuto, ogni volta con dimensioni differenti. Come faceva notare Yves-Alain Bois riguardo ad altri quadri della stessa serie, si tratta di una falsa ripetizione, o piuttosto del «gioco con qualsiasi ripetizione». L’artista avvolge di ottimismo la composizione, e la serie di quadri ispirati dai paesaggi urbani è il preludio a «un’architettura del futuro», quella che avrà come fondamento «l’instaurazione di pure relazioni e di colori puri».

L’arte fa sperare

Mondrian ha volto lo sguardo a una bellezza che non è sensibile e immediata, legata più al «sesto senso» che alle forme sensibili o estetizzanti. Per lui, la bellezza coincide con la possibilità di elevarsi dalla forma particolare a quella universale, più esattamente all’«universalmente valido». Nell’opinione dell’artista, per essere veritiere, le forme devono attraversare il fuoco della purificazione dell’astrazione. L’arte non è una questione di gusto, ma di verità e di dogma. Ciò che è «bello » dev’essere anche vero: qui non c’è più la possibilità di una deroga. Attraversando il «punto zero», che è l’astrazione, l’arte rinasce continuamente dalle proprie ceneri in una molteplicità di espressioni. L’arte astratta si trova in un rapporto di continuità, e non di rottura, con l’arte realista, quella concepita in funzione di un modello. La giovialità, l’arricchimento cromatico, la rinuncia alle linee nere sono le caratteristiche dell’ultima tappa creativa di Mondrian, avvolta in un ottimismo sorprendente. Come afferma l’artista, «l’arte fa sperare». Essa ha il doppio ruolo dimostrativo e profetico, quello di aiutare a capire che la libertà è possibile, «in modo da poterci riavvicinare al vero sentimento e ricuperare il buon cuore. […]. Molti secoli fa fu imposto l’alto messaggio dell’amore universale: anche se la sua influenza è innegabile, l’uomo non è mutato. Noi insistiamo dunque su ciò che si è rivelato irrealizzabile».

Per Mondrian, quanto più, nella nostra epoca, si fa l’esperienza del «vuoto», dell’inquietudine e dei disequilibri, tanto più si è coinvolti nella logica ricerca di una «nuova bellezza». Il fatto che questa esiste è il messaggio del pittore olandese, che nel panorama dell’arte del XX secolo rimane quello che era sempre stato: una figura solitaria, ma certamente un grande umanista.

1K. Dreier - H. Janssen, «La modernità di Mondrian», in B. Tempel(ed.), Mondrian. L’ armonia perfetta, catalogo di mostra (Roma, 8 ottobre 2011 - 29 gennaio 2012), Milano, Skira, 2011, 36. Certamente il fatto di aver dimenticato Vermeer è sorprendente.

2. La mostra Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione, in corso fino al 27 marzo 2022 presso le sale del Museo delle Culture di Milano, raccoglie più di 60 capolavori portati dal Kunstmuseum Den Haag dell’Aja. Per l’occasione, è stato pubblicato anche un catalogo: B. Tempel (ed.), Piet MondrianDalla figurazione all’astrazione, Milano, Motta 24 ore Cultura, 2021.

3. Cfr M. White, «De Stijl: un’arte per il popolo?», ivi, 64.

4. Cfr Come osserva Els Hoek, i primi studi su Mondrian accentuavano l’importanza delle scelte cromatiche compiute dall’artista. Ad esempio, nel 1932, Jacob Bendien attribuiva a ciascun colore impiegato un significato: «Il giallo è da porre in relazione al senso di attivismo, l’azzurro alla passività, il rosso alla vita naturale, il nero alla morte, il bianco alla potenzialità vitale; il grigio neutrale, colore che si trova a metà strada fra nero e bianco, per lo più esprime il senso di tedio per la vita […]. L’effetto non dipendeva soltanto dalla scelta del colore, ma veniva condizionato in buona misura anche dalla quantità e dalla posizione dei colori sulla tela. Un piano di colore nella parte superiore della composizione aveva un valore completamente diverso da un piano identico posto nella parte inferiore e, situato a destra, aveva un effetto diverso che situato a sinistra» (E. Hoek, «Piet Mondrian», in C. Blotkamp[ed.], De Stijl. Nascita di un movimento, Milano, Electa, 1989, 117; 125, nota 73).

5P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova vita», in Id.,Tutti gli scritti, Milano, Feltrinelli, 1975, 298.

6. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», in Id.,Piet Mondrian (1872-1944), Milano, Leonardo Arte, 1994, 313 s.

7P. Mondrian, «Lettera a H.-P. Bremmer», 5 gennaio 1916: cfr ivi, 170.

8. Cfr H. Janssen, «La modernità di Mondrian», cit., 45 s.

9. Parole di Theo van Doesburg che si riferiscono alla Composizione 10. Cfr S. Polano, «Introduzione a “De Stijl”», in Id. (ed.), Theo van DoesburgScritti d’arte e di architettura, Roma, Officina Edizioni, 1979, 256.

10P. Mondrian, «Lettera a Theo van Doesburg» (ca. 1915), in G. Fanelli,De Stijl, Roma - Bari, Laterza, 1983, 5. Sul rapporto di Mondrian con le dottrine teosofiche, cfr M. Di Capua, «Mistico Mondrian», in Mondrian l’armonia perfetta, cit., 68-77.

11. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 353. Per la questione dell’assenza delle cornici, problema che ha ispirato anche il titolo del nostro saggio, cfr A. Vallye, «Il pittore sul boulevard», in F. Léger,La visione della città contemporanea, Milano, Skira, 2014, 41 s.

12. Cfr P. Mondrian, «Il neoplasticismo in pittura», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 29- 76. Cfr S. Polano (ed.), Theo van Doesburg, cit., 252-270.

13. Cfr P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova arte», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 285.

14. Cfr ivi, 304 s.

15. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 367, nota 31.

16G.-C. Argan,Storia dell’arte come storia della città, Roma, Editori Riuniti, 1993, 228.

17P. Mondrian, «La realizzazione del neoplasticismo nel lontano futuro e nell’architettura d’oggi. (L’architettura concepita come il nostro ambiente totale [non naturale])», in G. Fanelli,De Stijl, cit., 176.

18A. Vallye, «Il pittore sul boulevard», cit., 42.

19Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 361.

20P. Mondrian, «Verso la visione vera della realtà», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 381.

21Id., «La realizzazione del neoplasticismo…», cit., 175.

22P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova vita», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 313 s.

23. Ivi, 284.

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Da: La Civiltà Cattolica – 4121 – 5/19 marzo 2022

Amore alla gente del mondo è l'«arte della mercatura»

Francesco Datini brueghel 04 Le sette opere di misericordiaL’ANALISI

Lettere e diari dei mercanti medievali ci fanno entrare nella loro anima d'imprenditori e, forse, capire la nostra

Amore alla gente del mondo è l'«arte della mercatura»

Commercio virtuoso e di successo è quello di chi lavora per denaro e per vocazione Le due cose insieme. La ricchezza, come la felicità, arriva cercando (anche) altro

LUIGINO

BRUNI

Chi osserva la vita economica da lontano, spesso finisce per perdersi le note più belle di questo pezzo di vita. Vede incentivi, riunioni, uffici, algoritmi, razionalità, profitti, debiti. Quasi mai si accorge che dietro strategie, contratti e affari ci sono delle persone, e tra queste ce ne sono alcune che in quelle imprese ci mettono la carne, tutte le loro passioni e intelligenza, la vita. Da lontano e da fuori vediamo le tracce del lavoro, raramente vediamo il corpo di chi quelle tracce lascia, quasi mai vediamo l’anima. Ma quando riusciamo a vedere le anime, in quelle stesse imprese vediamo spiriti e demoni, angeli salire e scendere dal paradiso. L e lettere, i diari e le memorie dei mercanti del Trecento e Quattrocento italiano ed europeo sono fonti preziose perché ci fanno entrare dentro l’anima delle persone dei mercanti nella fase aurorale di questa professione. La vita e le lettere di Francesco di Marco Datini (1335-1410) hanno dei tratti straordinari e appassionanti. Francesco era figlio di Marco (di Datino), un macellaio di Prato che morì, insieme alla moglie e due dei quattro figli, durante la peste del 1348. Francesco fu cresciuto da Piera, la vicina di casa – il 'buio' Medioevo sapeva fare anche questo. Dopo un breve periodo a Firenze come garzone, a quindici anni parte per Avignone, dove prima fa il ragazzo di bottega e poi inizia il suo mestiere di mercante. Fondò una vera e propria multinazionale, con aziende a Prato, Avignone, Firenze, Pisa, Barcellona, Valencia, disponendo alla fine della sua lunga vita di un patrimonio di oltre 100mila fiorini, che lasciò in beneficenza. L’Europa l’hanno creata soprattutto monaci e mercanti, spirito e commercio, che insieme hanno fatto cose stupende. Nei trentadue anni in Avignone realizzò, dunque, una notevole ricchezza, tanto che quando tornò a Prato era chiamato «Francesco ricco» (Paolo Nanni, Ragionare tra mercanti: per una rilettura della personalità di Francesco di Marco Datini). Diede vita a un innovativo sistema aziendale, una vera holding: ogni impresa aveva una sua autonomia economica e giuridica, ma la compagnia fiorentina 'Francesco Datini e compagni' deteneva le quote di maggioranza di quella complessa rete aziendale, che si snodava nelle principali piazze europee, incentrata sulla produzione e il commercio della lana, della seta e «di ogni chosa volesse trafficare». Un tale network mercantile si reggeva soprattutto su una fitta e densa trama di relazioni. Ed è nell’arte della mercatura intesa come arte delle relazioni che si svela il genio di Datini.

Con lui si staglia il carattere del mercante, il suo habitus, qualcosa di molto simile all’abito del monaco, inteso come postura esistenziale, un modo di stare al mondoFare il mercante coincide con l’essere mercante, il mestiere col destino. In una lettera Datini scrive che se dovesse continuare a lavorare solo per il denaro non ne varrebbe la pena: «Nostro mestieri si tira tante chose di drieto che si inpacerebono più danari che non vale il chastello» (lettera del 1378). La sua giovane moglie Margherita in una lettera del 1386 gli rimproverava che quella «bella vita» che le aveva promesso non era mai arrivata: «Tu sempre predichi che terai una bella vita... Questo ài detto già è diece anni e ogi mi pari aconcio a men riposare che mai: questo è tua colpa». L’attività del mercante finisce per coincidere con la sua vita: «Sono deliberato di fare chome il medicho che il mentre vive e’ medicha» (1388).

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Pieter Brueghel il Giovane, Le sette opere di misericordia, 1616, Olio su tavola, 44×57.5 cm, Collezione privata, Belgio
 
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Scorrendo le sue lettere, conservate nell’Archivio di Stato di Prato, colpiscono alcune note di quell’etica mercantile. Innanzitutto il rapporto tra il mercante e la ricchezza. Le virtù alle quali ammaestra sistematicamente i suoi soci sono molte e non tutte noi oggi le assoceremmo al mestiere del mercante. Raccomanda il rischio («chi lasciasse di seminare per paura delle passere non seminerebbe nulla»), ma insieme raccomanda la temperanza («chi troppe volpi caccia, l’una perde e l’altra lascia»); elogia la velocità («chi fa tosto fa due volte»), ma insieme il sapersi accontentare («volere innanzi pincione in mano che tordo in frasca»); incoraggia l’audacia («a huomo d’arme non manchò mai i chavalli») ma insieme la moderazione («disse una volta un savio merchatante che e’ danari ghuadagniavano dieci per cento a tenerli nella chassa»). Una saggezza di pratica mercantile condita dalla sapienza antica (Seneca, Cicerone, la Bibbia), dai proverbi popolari, che insieme portano Datini a elaborare la regola aurea della sua etica degli affari: non fare della ricerca della ricchezza l’unico né il primo scopo della mercatura. Il desiderio esclusivo di guadagnare è una passione che può accecare, tanto che il saggio mercante dovrebbe ogni tanto guardarsi con gli occhi di un osservatore esterno e imparziale; come in una partita di scacchi, dove un fanciullo che osserva i giocatori «ne vede alle volte più di loro, perché colui che sta a vedere non è passionato di paura di perdere né di guadagnare» (1402). Per Datini il grande vizio del mercante, inteso come grande errore, è l’avarizia, che impedisce anche di guadagnare, poiché il mercante saggio per guadagnare deve controllare la sua stessa bramosia di guadagno. Un'etica aziendale che rimanda direttamente quindi all’etica delle virtù (che Datini conosce e insegna). In quella visione del mondo la virtù è intesa come attitudine da coltivare per raggiungere l’eccellenza in un determinato ambito della vita. I comportamenti, per essere virtuosi, non possono essere solo e interamente strumentali, perché c’è bisogno di una certa dose di valore intrinseco: un’azione deve essere praticata anche perché è buona in se stessa e non solo come mezzo per ottenere qualcosa di esterno a quella azione. L’atleta non sarà virtuoso (eccellente) se gareggia solo per vincere e non anche per amore dello sport in sé, né lo sarà lo scienziato che fa ricerca solo per la fama e non per amore della scienza. Nel commercio, però, la dimensione esterna o strumentale è particolarmente importante. È difficile immaginare che un mercante operi soltanto per amore del commercio e delle relazioni con i suoi clienti e fornitori, perché l’ottenimento di un guadagno esterno all’azione è parte della natura del commercio stesso. Datini però ci ricorda che senza una dose di amore per la mercatura e per quel mestiere e compito, il 'mercatante' si snatura (cambia natura) e diventa altro – usuraio, ad esempio.

Statua di Francesco DatiniIl virtuoso mercante è allora qualcuno che lavora per denaro e per vocazione. Quindi è un cattivo mercante chi lavora solo per denaro (o chi lavora solo per vocazione, che può essere anche peggiore del primo). E chi lavora solo per denaro non farà nemmeno denaro, perché va contro la natura del proprio mestiere. È antica legge della mercanzia che non si arricchisce chi fa il mercante solo per arricchirsi. Come a dire che la ricchezza arriva, come la felicità, cercando (anche) altro. Tanto che al termine della vita scriverà di aver dedicato alla mercatura «anima e chorpo, non per avarizia né per volontà di guadagnare, ma solo perché m’è rincresciutto [deluso] ogni altra chosa» (1410).

Continuando la lettura delle lettere di Datini, emerge poi un secondo elemento o virtù del 'civil mercatante': uno sguardo positivo sul mondo e ancor prima sugli altri uomini, che rimase il suo faro esistenziale e commerciale. In una lettera del 1398 ci dice quale era stata la prima ragione che lo spinse a entrare in società con altri compagni ai tempi di Avignone: «L’amore che io avea alla gente del mondo». Una frase splendida che dice il pre-requisito per svolgere con profitto il mestiere-vocazione del mercante. Un imprenditore che non abbia 'amore per la gente del mondo' non diventerà un buon imprenditore. Senza guardare il mondo e la gente con uno sguardo buono e positivo, senza vedere in un nuovo incontro una opportunità per crescere insieme, senza dare fiducia come ipotesi di partenza, non si può praticare l’arte della mercatura. L’imprenditore è prima di tutto qualcuno che guarda il mondo come un insieme di opportunità relazionali, che crede che la gente è la sua prima ricchezza e che la ricchezza degli altri è una possibilità anche per se stesso. Qui sta la sua generatività, che nasce sempre dalla generosità dello sguardo sugli esseri umani. Il pessimismo, il cinismo, l’invidia e la diffidenza sono i grandi vizi capitali dell’impresa. come conseguenza di questa seconda virtù 'antropologica', dalle lettere emerge una terza virtù, fondamentale nella vita e nel successo di Datini: la sua cura delle relazioni. Datini fu un grande tessitore di relazioni, di amicizia e persino di fraternità: «Quando io m’achompagnai chon Toro di Bertto a Vignone, molti si fecciono beffe di me, dicendo: 'Tu eri libero e se’tti fatto servo'. Io rispondeva che io era chontento d’avere chompagnio per due rispetti: l’una per avere uno fratello, appresso per avere chui temere per guardarmi dalle giovaneze [ragazzate]». E poi aggiunge: «Quanto sarebbe più sichura via e di maggiore diletto d’essere due compagni in uno traffico, che s’amassero come fratelli?!» (1402). Nonostante le molte delusioni che i compagni gli avevano procurato nel corso della sua attività commerciale – «non hai niuno che non ti tradisse 12 volte al giorno», gli ricordava nel 1386 la moglie Margherita –, con la saggezza degli antichi proverbi concludeva: «Chi à chompagnia à signoria». Per il mercante pratese la compagnia è «il maggiore parentado che sia» (1397), che paragona a una famiglia e al rapporto tra fratelli. Quando un’amicizia si spezzava Datini invitava i suoi soci a praticare il perdono: «Salvo tradimento o furto o omicidio o uno sconcio o adulterio o chosa iniqua da non perdonare, d’ogni altra chosa l’uomo dovea sempre cerchare di ritornare nell’amore dell’amico suo» (1397).

Francesco Datini 03Virtù cardinale dell’imprenditore è l’arte di cooperare, e l’arte di cooperare non dura senza imparare l’essenziale arte del perdono. Anche se le business school di oggi, tutte prese dalle tecniche e dagli strumenti e ammaliate da metafore sbagliate (quelle militari o sportive), hanno dimenticato la forza delle virtù gentili, quelle davvero essenziali per fare questo difficile mestiere.

L’imprenditore ha sempre vissuto e vive di molte e diverse forme di mutuo vantaggio, è creatore e consumatore di compagnia e di amicizia, dentro e fuori l’impresa. Allora prima di tutto dovrebbe educarsi e formarsi a queste virtù, è questo il carattere che deve coltivare. Praticando la gentilezza, l’amabilità, investendo tempo, molto tempo, nell’ascoltare la gente, sviluppando tutte quelle arti che facilitano la creazione e la manutenzione dei beni relazionali, di cui si compone il primo asset essenziale, invisibile e realissimo, della propria azienda, da cui dipende la sua prima bellezza. Francesco di Marco Datini lo sapeva molto bene, noi dobbiamo impararlo di nuovo. Usciremo da questa crisi, e da questo dolore degli imprenditori, tornando ad 'amare la gente del mondo'.

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Da Avvenire del 17 gennaio 2021

In Viaggio

In Viaggio

(Fiorella Mannoia)Fiorella Mannoia

https://www.youtube.com/watch?v=aH0HJe60Z6c

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Domani partirai
non ti posso accompagnare
sarai sola nel viaggio
io non posso venire
il tempo sarà lungo
e la tua strada incerta
il calore del mio amore
sarà la tua coperta

ho temuto questo giorno

è arrivato così in fretta
e adesso devi andare
la vita non aspetta
guardo le mie mani
ora che siamo sole
non ho altro da offrirti
solo le mie parole

Rivendica il diritto ad essere felice
non dar retta alla gente
non sa quello che dice
e non aver paura
ma non ti fidare
se il gioco è troppo facile
avrai qualcosa da pagare

Ed io ti penserò in silenzio
nelle notti d'estate,
nell'ora del tramonto
quando si oscura il mondo

l'ora muta delle fate
e parlerò al mio cuore, più forte
perchè tu lo possa sentire

è questo il nostro accordo
prima di partire
prima di partire
domani, non ti voltare

Ama la tua terra
non la tradire
non badare alle offese
lasciali dire

ricorda che l'umiltà
apre tutte le porte
e che la conoscenza
ti renderà più forte

Lo sai che l'onestà
non è un concetto vecchio
non vergognarti mai
quando ti guardi nello specchio
non invocare aiuto nelle notte di tempesta
e non ti sottomettere tieni alta la testa

ama la tua terra
ama, non la tradire
non frenare l'allegria
non tenerla tra le dita
ricorda che l'ironia ti salverà la vita
ti salverà

Ed io ti penserò in silenzio
nelle notti d'estate,
nell'ora del tramonto
quella muta delle fate
e parlerò al mio cuore
perché, domani partirai
in silenzio
ma in una notte di estate
io ti verrò a cercare
io ti verrò a parlare
e griderò al mio cuore
perché...tu lo possa sentire
sì, lo possa sentire
Mannoia in Viaggiotu lo possa sentire

Il Bene e il Male. Dio, Arte e Scienza

Sgarbi L’anticipazione Due voci fuori dagli schemi si interrogano sul mistero: uno scambio libero e senza confini che ha dato vita a un volume in uscita il 17 settembre per La nave di Teseo. Qui ne pubblichiamo alcuni estratti

Giorello e Sgarbi

Dialogo per il futuro

dialogo tra GIULIO GIORELLO e VITTORIO SGARBI

Scienza, arte, etica, morale: un confronto serrato

tra il critico e il filosofo da poco scomparso

GIULIO GIORELLOIo credo che la grande scienza e la grande arte incrinino le aspettative consuete e indichino nuovi modi di vedere il mondo, ricchi e significativi. E non solo cambiano il modo di vedere il mondo, ma cambiano anche il nostro modo di stare nel mondo. Pensiamo al grande successo dei vaccini, per esempio, o alle grandi conquiste della scienza della prospettiva, che ha permesso di vedere in modo nuovo il rapporto tra l’osservatore e il mondo. Sono grandissime operazioni culturali. Sono convinto che proprio ciò costituisca la vera grande forza dell’impresa scientifica.

VITTORIO SGARBI — Di certo il rapporto fra arte e scienza è fondamentale. Vedi, quando da bambino ti fanno quella domanda inquietante, «Che cos’è l’arte?», tu non sai cosa rispondere tanto è vasta la materia. Poi capisci: l’arte è un modo nuovo di far vedere il mondo. L’artista è tale perché vede prima di te quello che tu scorgerai quando te l’avrà indicato. Brecht diceva: «Se vuoi diventare una guida devi dubitare delle guide». L’arte è questo: un modo nuovo di vedere il mondo, cui l’artista è arrivato per primo.

Pensa a Turner, che rovescia l’assunto rinascimentale dell’uomo come centro per arrivare alla concezione romantica della natura più grande dell’uomo; pensa alla prospettiva rispetto alla visione medioevale; pensa al Futurismo… L’arte è veramente «visione», anche se non è fatta da visionari: ti consente di vedere il mondo con gli occhi di un altro, per come lui l’ha visto prima di te. L’artista, con la sua intuizione, è un anticipatore. E la scienza è qualcosa di analogo. Prendiamo il passaggio dal mondo tolemaico a quello copernicano: un cambio di visuale radicale. In questo, arte e scienza sono affini, perché entrambe sono espressioni della mente dell’uomo; sono movimento della mente, che quando si muove trova punti di vista diversi. In quest’ottica, la sregolatezza che possiamo evocare con personaggi quali Caravaggio e Giordano Bruno non è altro che contraddizione dell’ordine precedente. Cioè, non è che l’artista sia sregolato perché è viziato o perverso…

Sgarbi giulio giorello 677361.660x368GIULIO GIORELLO — Lo è perché va contro la tradizione che ha ereditato. Per esempio la concezione dell’universo infinito che Giordano Bruno fa sua va contro la tradizione con la quale doveva confrontarsi. E gli ci vuole coraggio per postulare un universo infinito, senza margini o confini.

VITTORIO SGARBI — Esattamente. Quello che chiamiamo «sregolatezza» è invece un ordine nuovo, che naturalmente si accompagna all’isolamento che l’artista vive rispetto a quanti la pensano nell’altro modo, nel modo tradizionale; un isolamento che magari gli causa traumi o nevrosi, e lo porta alla necessità di drogarsi, di ubriacarsi… Insomma, la sregolatezza letta in termini morali c’entra poco, perché è una compensazione psicosomatica di un turbamento che si vive per la propria diversità. Ti percepisci diverso, e quella diversità ti porta talvolta all’incapacità di trovare un equilibrio; diventi sregolato perché sembra che le regole ti diano torto. In realtà hai dimostrato che le regole non sono incontrovertibili, insostituibili e non passibili di revisione. Il grande artista sarà anche sregolato, ma lo è come conseguenza di uno sregolamento della mente, di un uscire dalle regole che hanno fino a quel momento guidato il mondo.

GIULIO GIORELLO — Io ritengo che la scienza possa benissimo rompere alcuni dei presupposti morali più noti. Pensa ancora a Giordano Bruno, a una scienza che parla di un cosmo infinito in cui non c’è un centro; o meglio, in cui può diventare centro il punto che ciascuno meglio crede. Ebbene, questa è anche una conquista di relativismo politico, morale; ed è un fatto molto importante nella progressiva liberazione dell’essere umano dalle forme di assoggettamento più tradizionali. Giordano Bruno si presta meravigliosamente a tutto questo. Naturalmente non era uno scienziato nel senso nostro del termine, però era un grande visionario capace di intuire quale sarebbe stata la forma dell’universo una volta che si fosse andati fino in fondo nell’accettare appunto il cosmo infinito, e quando fosse stato messo bene in luce cosa significa avere un cosmo dove non c’è un centro. Il centro è in ogni punto, dove vuoi, ovvero non c’è. Questo è l’elemento potentissimo di Giordano Bruno. Una visione che i grandi scienziati del Seicento non erano molto disposti ad accettare, ma che si sarebbe poi imposta.

VITTORIO SGARBI — Intanto bisognerebbe dire, e tu lo sai bene, che etica e morale sono sinonimi, quindi farei fatica a distinguere tra le due. Non c’è una morale che non sia etica e un’etica che non sia morale. Come termine, «morale» viene semplicemente da mores, i costumi. I costumi dell’uomo sono qualcosa che si sovrappone ai principi logici, gnoseologici, fisici e metafisici. C’è una struttura del mondo che avrebbe un suo andamento, poi intervengono i costumi che — come diceva Senofane o lo stesso Giordano Bruno — fanno sì che il cavallo immagini Dio come un cavallo, e l’uomo bianco come un uomo bianco. I costumi diventano una variabile di valori più oggettivi legati ad altri ambiti del sapere. Dunque la morale condiziona la scienza, l’arte, i comportamenti. La morale è la consuetudine che prevale su dati fondamentali. Per esempio, l’uomo nasce nudo, quindi è normale che sia nudo. Eppure, se immagini una società in cui gli uomini vadano in giro nudi invece che vestiti troverai chi ti dice che è immorale. Io trovo immorale che siano vestiti! (...)

GIULIO GIORELLO Non amo molto che uno valga uno: non vedo perché qualcuno uscito dai social debba avere uno status privilegiato. Lo dico sinceramente: è una cattiva democrazia, una degenerazione della democrazia che non ha niente a che vedere con l’interesse che può avere un pubblico serio per la ricerca scientifica. Le varie polemiche sui vaccini lo hanno dimostrato ampiamente. Le uscite sui social sono talvolta oscurantiste, grottesche e regressive.

Questa democrazia social è molto poco social e molto poco democratica, se devo dirti il mio parere. Non è così che uno gioca l’informazione in chiave democratica, e va a controllare la formazione delle opinioni. Le campagne ridicole pro o contro i vaccini, le lotte in cui il mondo viene diviso fra coloro che sono per vaccinare tutti e quelli che dicono che i vaccini sono una cosa spaventosa: sono forme ridicole di impostazione, e vanno contro quella onesta capacità di informazione di cui peraltro la buona medicina si è dimostrata, anche nel nostro Paese, estremamente capace.

VITTORIO SGARBI Diciamo che il dato fondamentale è che il potere dei social è un potere di influenza sul piano della persuasione occulta. Non è un potere reale: è un potere persuasivo, nel senso che il consenso o il dissenso dei social può influenzare quelli che sono influenzabili. Quindi non è un potere reale, ma un potere manovrato.

Io non credo che rischiamo veramente una democrazia diretta basata sui social. Certo, possono influenzare, hanno un potere di «persuasione quantitativa», diciamo, ma la ragionevolezza rimane tutta, almeno in alcuni. D’altra parte quelli che ragionano sono sempre un numero limitato, quindi non è che dobbiamo pensare che le masse ragionino. Le masse hanno sempre, in un modo o nell’altro, subìto: un tempo l’influenza della televisione, prima ancora l’influenza delle persuasioni legate alle grandi idee che hanno mosso la storia…

Ora, però, si procede per contagio inverso: il contagio delle masse sulle minoranze. Ne consegue che i social sono una forma di virus, un virus contagioso sul piano della persuasione, che però non incarna la verità. E se un’influenza del genere è priva di sostanza, mostra in fretta la corda: muta e poi svanisce. (...)

GIULIO GIORELLO Un aspetto centrale nell’impresa scientifica è che la sua comunità di riferimento non si trova sempre d’accordo su tutto. E in certi casi — non dico sempre — tale divergenza porta a maggiore ricchezza nelle ricerche. Questo è ciò che ci hanno insegnato due grandi rivoluzioni: una della fisica — quella che va da Galileo a Newton, per intenderci — e l’altra quella darwiniana. Secondo me la ricchezza offerta da diversi punti di vista è fondamentale, e voler normare tutto e farlo diventare ortodossia scientifica è una delle cose più gravi nei confronti della ricchezza dell’impresa scientifica. Quando chiesero a Niels Bohr: «Lei è il rappresentante dell’interpretazione ortodossa di Copenaghen della meccanica quantistica?», lui rispose: «Ortodossa? Ma di cosa sta parlando?».

VITTORIO SGARBI Io credo ci sia più ortodossia nell’arte che nella scienza. Nel senso che la scienza deve procedere per forza di dubbi, attraverso sperimentazioni e ricerche… Quindi, ogni volta che la scienza arriva a una certezza, è passata attraverso mille incertezze. L’arte, invece, non ha mai incertezza. Perché non si muove verso l’obiettivo della salute pubblica, della guarigione o della soluzione di problemi che riguardano l’umanità e la corsa per trovare un modo per sottrarla alla morte, come se la morte non fosse la cosa più naturale del mondo. Noi abbiamo una visione ipersalutistica per cui solo la salute è un valore assoluto, e lo stiamo capendo in questi giorni. E, permeati da questa visione, affidiamo alla scienza un compito risolutore che la rende potentissima. Le affidiamo la nostra speranza.

Nessuno chiede speranza all’arte. L’arte parte in modo dogmatico, ortodosso, e nella convinzione dell’assoluto che è, credo, la sua forza più alta. Ogni artista è assoluto, non c’è un artista relativo. Poi possiamo giudicarlo più o meno bravo. Quindi c’è molto più dogma, molto più assolutismo nell’arte che nella scienza. La scienza è per sua natura relativa, perché si supera, si scavalca, trova soluzioni sempre diverse a problemi sempre nuovi. Da questo punto di vista ribalterei il rapporto, perché nell’arte c’è l’assoluto e nella scienza il relativo.

GIULIO GIORELLO Dobbiamo smetterla di pensare che tutto quello che è adesso scienza «occidentale» sia nato in Occidente. Pensiamo per esempio agli studi sui numeri, ai sistemi di numerazione con o senza lo zero. Ebbene, questo territorio affascinante e ricchissimo — che dobbiamo ancora, con una serie di ricerche, rivalorizzare — concerne elementi che per noi, oggi, sono l’Occidente. «Oh, già, figurati: le cifre… 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9…». E poi? Cosa c’è prima? Lo zero. Questi sono aspetti fondamentali. Vale per l’aritmetica, vale per la geometria, è valso per certi versi per la fisica. È affascinante vedere, per esempio, come, nello stesso periodo in cui con fatica Galileo Galilei e i suoi sviluppavano il cosiddetto metodo degli indivisibili, si stava facendo qualcosa di analogo anche in Cina. La scienza è apertissima, e prende da dove le pare. È questa la sua ricchezza, la sua forza. Tentare poi di metterci delle censure e di bloccarla è una delle azioni più insensate che si possano concepire.

VITTORIO SGARBI Credo che il problema sia quello dei confini. Noi non possiamo porre confini alla cultura in tempi in cui tutto è legato, tutto è connesso. È evidente che l’Occidente può produrre intelligenza e risultati in ordine a investimenti economici che la scienza presuppone, ma questo è altrettanto possibile — anzi, è certo — per la Cina, per l’Oriente, per l’India, per il mondo arabo. In parte perfino per l’Africa. Non abbiamo più un confine nel mondo, tant’è vero che sono finite le colonie, sono finiti i colonialisti. C’è stato un tempo in cui noi scorrazzavamo su un’area colonizzata di cui l’Europa era il riferimento e la madre, ma ormai quel dominio si è sgretolato e quegli Stati hanno ottenuto l’indipendenza. Per cui non c’è più una centralità dell’Occidente. L’Occidente è stato centrale in un dato periodo, oggi non lo è più. Oggi l’ultima periferia può essere più centrale di Parigi o di Londra. Non esiste più una contrapposizione fra Occidente e Oriente, o tra cultura occidentale e cultura orientale. La cultura oggi è veramente globale, e ciò garantisce che un’idea innovativa possa germogliare ovunque, nel luogo più remoto del mondo, dove qualcuno la studia e la mette a disposizione di tutti.

GIULIO GIORELLO Questa è proprio la forza della cultura. Intendo «cultura» in senso assoluto; non la cultura cinese, la cultura greca, quella indiana: la cultura in quanto tale.

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Dal Corriere della Sera, 13 settembre 2020

Il Capitale Sociale nell'Universo delle nostre relazioni

Capitale Sociale rete venditaLa capacità di reagire di fronte ad eventi negativi è notevole dell'essere umano. Come mostrano alcune ricerche, le conseguenze di un trauma dipendono in gran parte da come una persona lo legge, dal suo mondo valoriale di riferimento, e soprattutto se essa si trova sola farlo o se ha qualcuno accanto a sé in grado di aiutarla.

Risulta invece molto più dannosa per la salute una vita solitaria in assenza di problemi rispetto a un evento tragico, ma affrontato con il supporto di legami forti e profondi.

Ma quali sono gli elementi che contribuiscono alla salute di una comunità? Robert Putnam, un politologo statunitense, lì ha riassunti con il termine «capitale sociale»: un bene indispensabile che, analogamente alle banche e ai centri di investimento, è alla base della ricchezza di una società sotto il profilo della qualità della vita.

Il termine non è stato coniato da Putnam. Esso viene impiegato per la prima volta, nel 1916, da Lyda Judson Hanifan, ispettore delle scuole di campagna della Virginia. Egli, notando la forte correlazione tra la dimensione comunitaria e il rendimento scolastico, per l'appunto di «capitale sociale», definendolo come «l'insieme dei beni tangibili che contano maggiormente nella vita quotidiana delle persone: vale a dire, buona volontà, amicizia, solidarietà, rapporti sociali tra individui e famiglie che costituiscono un'unità sociale [...]

L'individuo, se lasciato a se stesso, è socialmente indifeso [...].

Se viene in contatto con i suoi vicini, e questi con altri vicini, si accumulerà capitale sociale che può soddisfare immediatamente suoi bisogni sociali e mostrare una potenzialità sociale sufficiente al miglioramento sostanziale delle condizioni di vita dell'intera comunità».

Per Francis Fukuyama, un politologo statunitense di origine giapponese, il fattore principale alla base della prosperità economica di una nazione è la capacità di dare e ricevere fiducia. Le società con un alto tasso di fiducia infatti favoriscono gli scambi a tutti livelli: informativo, affettivo, di competenze e di solidarietà; essi a loro volta incrementano il benessere e la prosperità.

Per Putnam, il crescente isolamento della società poteva essere rilevato in tre ambiti che fino a quel momento avevano Capitale Sociale social media pplcaratterizzato la vita quotidiana: la cena, il bridge, lo sport. Tre situazioni che consentivano soprattutto la conversazione gratuita, senza impegni di sorta, affrontando allo stesso tempo tematiche culturalmente impegnate: dalla politica all'economia e alla letteratura. Il drastico calo di attività è sintetizzata dal titolo originale del libro di Putnam «Bowling alone». Il bowling, un tempo molto praticato negli USA, univa svago e socialità mentre, ora è sempre più disatteso o, al massimo, praticato da soli.

Un altro cambiamento rilevante riguarda la consuetudine di prendere i pasti insieme - soprattutto il pasto serale -, riunendo la famiglia, conversando e condividendo quanto accaduto nel corso della giornata. L'avvento dei fast food, della Tv e degli iPhone sempre accesi hanno accelerato la dissoluzione della comunità familiare come luogo di ritrovo e di conversazione gratuiti. Anche il reddito crescente ha esercitato un indubbio fascino sulle nuove generazioni, suggerendo l'idea di un benessere meramente materiale e facile da conseguire.

Capitale Sociale cooperazione11La solitudine accentua anche la tendenza a identificarsi in un unico ruolo per lo più professionale, al quale si consacra tutto il proprio essere, soprattutto in termini di tempo e di energie, e quando essa va in crisi (anche a motivo di sempre più gravi crisi economiche), rischia di travolgere l'intera esistenza della persona. Ne deriva una situazione di instabilità psicologica posta al limite del tracollo psichico, al punto da non voler più continuare a vivere.

L’erosione del capitale sociale si fa sentire anche in sede educativa e di vita sociale, come aveva notato più di un secolo fà Lyda Hanifan. Crescere un figlio «che si farà strada, che ora è successo» sembra essere il sogno di molti genitori, senza cercare di conoscerlo nei suoi personali interessi e capacità, imponendogli un vestito preconfezionato, appariscente ma foriero di pesanti frustrazioni e sofferenze: «Troppi padri di successo, acriticamente orgogliosi dei successi conseguiti, hanno distrutto lo spirito di meno capaci figli insisteva che aspirino a fini troppo difficili da padroneggiare o di nessuno e dico interesse per loro» [H. Fairle, Seven Deadly Sins Today, Washington, University of Notre Dame Press, 1979, 53 s.]

Un altro esempio eloquente di questo disastro educativo è il ritiro autistico di numero crescente di adolescenti giapponesi, un fenomeno classificato nel mondo con il termine specifico, ihkikomori (letteralmente, «stare in disparte, isolarsi»). Esso sembra essere dovuto all'incapacità di reggere lo stress di una società sempre più esigente ma priva di legami significativi, che non tollera fragilità e fallimenti (il Giappone registra la percentuale più alta al mondo e di suicidi tra gli adolescenti per motivi scolastici).

Purtroppo l'individualismo non è mai stato veramente messo in discussione in sede culturale, anche perché fonti notevole profitto economico a livello commerciale, industriale professionale, favorisce il consumismo, il culto del fitness, la psicoterapia, le assicurazioni, gli interventi legislativi. Ma i costi che presenta in termini di sofferenza e di vite umane non possono essere più ignorati.

E’ necessario pensare a una politica di rivitalizzazione del capitale, oggetto di un programma articolato e capillare.

Per quanto riguarda i media, Putnam intravvede cinque problematiche circa un loro possibile uso a servizio del capitale sociale: 01) garantire a tutti la possibilità di accesso a internet; 02) questo accesso tuttavia non deve comportare la spersonalizzazione degli utenti: chi naviga deve avere la garanzia di poter fidarsi di potersi fidare di ciò che visiona e dell'identità delle persone con cui entra in relazione; 03) contrastare la «balcanizzazione cibernetica». In altre parole non restringere i contatti ai soliti che la pensano allo stesso modo, ma favorire i ponti verso le relazioni deboli viste sopra, elaborando progetti in comune; 04) individuare i fattori che promuovono la comunicazione la creatività; 05) contrastare la tendenza a ridurre internet e a «un mezzo di divertimento passivo e privato». Queste sfide sono la chiara dimostrazione che la comunicazione telematica sarà complementare non alternativa alle comunità reali.

Il film Coach Carter (2005) di Thomas Carter presenta la storia vera dell’allenatore di una squadra di basket di successo (gli Capitale Sociale nuclei sociali 890x395Oilers della Richmond High Basket School, USA), composta da giocatori di estrazione popolare disagiata, i quali, privi di un adeguato livello di istruzione, erano facilmente esposti alle derive della violenza e della delinquenza. Perciò egli pose come condizione indispensabile per scendere in campo, oltre a un allenamento faticoso e costante, un livello ottimale di resa scolastica. In tal modo essi hanno potuto accedere università un lavoro dignitoso, realizzando il sogno di riscatto preclusa ai loro padri.

Un altro passo semplice ma concreto consiste nell'investire nella gratuità, come salutare i propri vicini e cercare di conoscerne il nome, senza altra finalità, se non quella di instaurare una comunicazione che possa diventare relazione. Nella gratuità è racchiusa una bellezza che nessun vantaggio economico potrebbe eguagliare. Nota in proposito Stefano Zamagni: «Il senso di un'azione cortese o generosa verso un amico, un figlio, un collega sta proprio nel suo essere gratuita. Se venissimo a sapere che quell'azione scaturisce da una logica di tipo utilitaristico e manipolatorio, essa acquisterebbe un senso totalmente diverso, con il che verrebbero a muare i modi di risposta da parte dei destinatari dell'azione.

Un altro ambito indispensabile a cui prestare attenzione è quello familiare. Non è un caso che gli stili familiari «positivi», legati cioè a momenti forti all'interno della famiglia, come quelli sopra ricordati (mangiare insieme, prendere decisioni in comune, discutere e scambiare opinioni), siano associati a una riduzione dell'individualismo, dei comportamenti violenti e di uno stile consumistico.

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Da la Civiltà Cattolica 2/16 marzo 2019 – Il Capitale Sociale – Una risorsa indispensabile per la qualità della vita

La prospettiva postimpressionistica alla nascita della fotografia: semplicemente De Nittis

La mostra Palazzo dei Diamanti (Ferrara) rende omaggio all’artista pugliese che a Parigi colse la forza di nuovi codici visivi e poi li Sito Blog Colazione In Giardinoadottò nella sua pittura. Scrivendo così una pagina «viva» della modernità

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E nacque la realtà

di Flavio Caroli

De Nittis e il suo «occhio fotografico»

«Bisogna essere assolutamente moderni», ammonisce Arthur Rimbaud nel suo capolavoro, Una stagione all’inferno, pubblicato nel 1873. Il francese è un illustre contemporaneo di Giuseppe De Nittis, e morirà a 37 anni, quasi alla stessa età dell’italiano (38), cioè sul crinale della giovinezza in cui si estingue l’energia dei «divini fanciulli» come Raffaello, Parmigianino, Watteau, Byron, Van Gogh, Toulouse – Lautrec, Majakovskij, quelli cioè che hanno avuto in dono la grazia e la bellezza fin dall’adolescenza.

«Essere assolutamente moderni» significa che l’arte deve respirare il vizio, l’ansia, il terrore, la bellezza e lo stupore del proprio tempo, affinché l’esistenza non precipiti continuamente e vanamente nell’obsolescenza e nel nulla. È ovvio che si tratta però di capire in che cosa consista la «modernità» nella quale si è Sito Blog De Nittis Nebbia Westminsterdestinati a vivere, e questo dipende dal punto di osservazione dell’artista che si accinge a rappresentare il proprio tempo. De Nittis, per esempio, nella sua giovinezza meridionale, ha come fari di modernità le punte più avanzate del «pensiero in figura» italiano: la determinazione realistica della pittura napoletana e le intuizioni sull’en plein air (ricondotto a un ordine prospettico neoquattrocentesco) dei Macchiaioli toscani. I risultati, per il pugliese, sono già trepidi, inquieti, per metà incantevoli, e per metà sospesi in attesa di qualcosa che verrà.

Nell’anima, De Nittis è infatti un avanguardista nato: e ricordo che la parola «avanguardia», come spero di aver dimostrato nel mio libro Elogio della modernità, viene usata per la prima volta da Charles Baudelaire nel 1864, poco prima dell’arrivo di Giuseppe a Parigi. L’artista pugliese, per vivere la modernità, sceglie dunque il palcoscenico umanamente e creativamente più privilegiato del mondo. Ma qui, nella Ville Lumière, per il suo pennello dotatissimo, si apre subito un bivio fondamentale, che divide due diverse idee di modernità in pittura. Da una parte c’è Monet, cioè l’Impressionismo stesso, con la ricerca pressoché esclusiva dell’«attimo luminoso», grazie all’uso poetico ma decisivo delle ombre colorate. Si tratta di una via sostanziata di luci transeunti, che Cézanne giudicherà infatti troppo precaria ed evaporante. «Non è che un occhio, mio Dio, ma che occhio…», dirà di Monet.Sito Blog De Nitti Plae De La Concorde

L’originalità

Ha ideato un realismo che fa tesoro della lezione impressionista

Dall’altra parte, per De Nittis, c’è la strada indicata dal grande Degas, che ha attraversato l’Impressionismo contraggenio, ma è stato tanto intelligente da capire che la storia presenta alcuni appuntamenti ineludibili, e il confronto con l’«attimo luminoso» proprio non poteva essere evitato. La poesia di Degas resta fondamentalmente realistica — ancorché votata alla visionarietà —, e questo per un artista come De Nittis, che ha avuto imprinting napoletano, costituisce un’attrazione irresistibile.

In un primo tempo, Giuseppe tenta di fare i conti con Monet, come accade in Nel grano, 1873. C’è la vampa devastante della luce — assai vicina a quella di un tema analogo di Monet —, c’è il picchiettio rosso e abbagliato dei papaveri, c’è perfino un buon uso delle ombre colorate. Ma a sciogliere la pittura nella luce, De Nittis proprio non ce la fa, perché la tentazione di una struttura disegnativa sia pure mascheratissima riporta le cose alla grande tradizione del paesaggio preimpressionista.

Così, De Nittis si avvia progressivamente verso una forma di «realismo» che sa far tesoro dell’Impressionismo ma lo supera, come dimostra lo splendido Corse a Longchamp del 1883. È un percorso di assoluta originalità, un tentativo avventuroso verso un traguardo che non si sa dove potrà portare. In questo senso, De Nittis ha un vero e profondo compagno di strada — mutatis mutandis — in Gustave Caillebotte. Potenzialmente, si va verso un esito dell’Impressionismo, ripetiamo, singolare, che però seminerà frutti assai ricchi nel XX secolo, soprattutto nel clima del cosiddetto «Realismo magico». Purtroppo, la strada intravista, che possiamo solo immaginare con infinita curiosità, non avrà un seguito immediato. Caillebotte muore giovane nel 1894. Ma a quel punto De Nittis, il magnifico, dotato, squisito, inquieto De Nittis, «divino fanciullo» nato in provincia, se n’è già andato da dieci anni, come un fiore che non ha potuto aprire del tutto la sua bella e ricchissima corolla.

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Sito Blog De Nittis Le Corse A LongchampUn taglio così preciso

che ricorda l’obiettivo

di Marta Ghezzi

L’esposizione propone una serie di scatti accanto ai quadri

Dal finestrino di una carrozza: per capire la mostra De Nittis e la rivoluzione dello sguardo bisogna partire da un finestrino. Giuseppe De Nittis non era artista «da studio», lunghe ore di immobilità davanti al cavalletto, e neppure da en plein air: aveva un atelier mobile, con cui si spostava di continuo. Dipingeva in penombra, osservando da quell’oblò: visi, corpi, strade, paesaggi gli apparivano filtrati dall’originale prospettiva, un taglio preciso, ridotto, che ricorda incredibilmente quello dell’obiettivo fotografico.

La mostra, promossa da Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, in collaborazione con il Comune di Barletta, si apre con una scatola, «Inventario post mortem dei beni appartenuti a Giuseppe De Nittis, 16 settembre 1884», che il visitatore trova nella prima sala. Dentro, un centinaio di fotografie, il pittore era un collezionista. È la chiave della retrospettiva dedicata all’artista pugliese, nato a Barletta nel 1846, che trova il successo a Parigi, dove si era trasferito negli anni Settanta. L’avvento della fotografia, nella seconda metà dell’Ottocento, investe il mondo dell’arte della capitale francese: De Nittis è sensibilissimo al nuovo mezzo, non a caso la critica del tempo arriva ad accostare la sua pittura alla fotografia. «Il nucleo del suo linguaggio artistico è proprio questo occhio fotografico», spiega Maria Luisa Pacelli, curatrice della mostra insieme a Barbara Guidi e Hélène Pinet, «con la centralità dell’inquadratura del soggetto, la capacità espressiva al limite dell’iperrealismo, la tavolozza che ricorda il dagherrotipo».

Ecco svelato il titolo della mostra, La rivoluzione dello sguardo. Per sottolineare questo sguardo, e permettere al pubblico ilSito Blog De Nittis Grano confronto, le novanta opere esposte (dipinti, acquerelli, pastelli) sono accompagnate da una sessantina di fotografie originali di importanti autori dell’epoca, Edward Steichem, Alfred Stieglitz, Alvin Coburn, Gustave Le Gray. La mostra è divisa per sezioni cronologiche e tematiche. L’inizio è con la pittura di paesaggio, De Nittis nasce paesaggista, con una comprensione dei colori della natura e della resa atmosferica sorprendenti. «Parigi era la patria elettiva, ma i legami con l’Italia non furono mai interrotti, ci tornava per catturare la prepotente luce del sud, dando vita a quadri che restituiscono la sensazione della calura estiva». Come Traversata degli Appennini, La strada da Brindisi a Barletta, e la serie dedicata al Vesuvio (troppo moderna e bollata al tempo come balzana).

La curatrice

Maria Luisa Pacelli: «Una capacità espressiva al limite dell’iperrealismo»

Altro capitolo è quello dedicato alle vedute urbane, parigine e londinesi. Quadri di diversa inclinazione: alcuni aneddotici, vedute con il via vai frenetico degli abitanti e prove sperimentali in cui l’artista si concentra sugli effetti atmosferici, come in Place de la Concorde e Nebbia a Westminster Bridge, quest’ultimo messo a confronto con un film su Westminster dei Fratelli Lumière. E ancora, una piccola sezione di vedute con la neve e una dedicata al giapponismo.

De Nittis ebbe una carriera lunga pochi decenni, morì a 38 anni. In vita fece fortuna con opere ispirate alla mondanità, in cui la clientela che comprava si riconosceva. Le signore che passeggiano in Avenue du Bois de Boulogne, le corse dei cavalli, le colazioni sull’erba. Nel dipinto Colazione in giardino si vedono la moglie e il figlio davanti a una tavola imbandita: un posto è libero, è il suo che si è alzato per dipingere. Accanto al quadro, una fotografia di Burty – Haviland, Gruppo di amici a Seven Springs: una sedia non è occupata, il fotografo è dietro l’obiettivo.

 

De Nittis Claude Monet The Magpie Google Art Project CopiaQuest'ultimo quadro, Claude Monet, La Gazza

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Dal Corriere della sera del 05 dicembre 2019

Le cinque decisive risorse dei giovani e il loro linguaggio

«Non hanno forse ragione i cantanti J-Ax e Fedez quando si domandano: «E come faranno i figli a prenderci sul serio con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook?» Armando Matteo

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Questo dilagante «amore per la giovinezza» rende semplicemente impossibile la vita di coloro che Giovani 01 Armando Matteogiovani lo sono davvero, gettando alle ortiche la generatività, ovvero quel tratto qualificante dell’età matura che si preoccupa di mettere al mondo, crescere, educare e poi lasciare spazio.

Generatività significa soprattutto suscitare curiosità e domande cruciali: perché esisto? Per chi e per cosa vale la pena vivere? Il Bene, la Verità, Dio sono invenzioni dell’uomo pensante o realtà a cui affidarsi?

Si tratta della sempre più frequente mancata volontà degli adulti di favorire il processo e il percorso di crescita dei giovani, cosa che inevitabilmente porta i secondi in conflitto con quel senso di “immortalismo” (voler vivere senza invecchiare e senza morire) e di “insostituibilità” che caratterizza molti adulti e anziani di oggi.

Giovani 02 CHAGALLjpgNella loro mente è più conveniente che i giovani restino semplicemente figli piuttosto che i figli assumano pienamente il loro destino di essere “i giovani” cioè di coloro che sono chiamati a rinnovare e a ringiovanire la società e le sue dinamiche vitali. Ciascuno vede da sé cosa questa seconda opzione comporta per coloro che adulti lo sono già.

È, dunque, un grido contro una società di adulti che, in nome di un giovanilismo imbecille e becero, sottrae alle nuove generazioni la possibilità di onorare la missione di ereditare il mondo per renderlo migliore, la possibilità di essere i giovani e non semplicemente giovani. Dove tutti sono giovani, non c’è più spazio per alcun giovane vero.

Piaccia o meno, gli adulti appartenenti alle due generazioni che in modo e peso diverso dominano oggi il mondo – quelli della generazione dei Boomers (1946-1964) e quelli appartenenti alla “generazione X” (1964-1980)non hanno favorito una qualche forma di testimonianza circa l’importanza di credere, pregare, leggere qualche testo sacro, il Vangelo per esempio, nei confronti della loro prole.Giovani 03 generations

Le indagini parlano chiaro. Nelle famiglie, e in ciò che spesso sopravvive o si reinventa delle famiglie, non vi è più spazio per la preghiera, per la lettura della Bibbia e infine per discussioni che possano in qualche modo pur lontanamente sfiorare le grandi domande dell’esistenza umana, dal significato delle diverse età della vita alla ricerca di ciò che potrebbe permettere la coltivazione efficace della propria interiorità, dal senso dell’ineluttabile necessità di dover morire a quello della radicale precarietà della nostra specie.

Quel testo (Lumen Fidei, ndr) fu composto da papa Benedetto e poi definito e pubblicato da papa Francesco, appena qualche mese dopo l’inizio del suo pontificato. Al numero 18 si trova quella “rivoluzione” sul credere cui abbiamo fatto diverse volte cenno:

«Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere.»

L’adulto credente è immaginato innanzitutto come il buon cittadino e il buon genitore, sostanzialmente come colui che si assume con responsabilità gli oneri legati alla ricerca del bene comune e all’educazione delle nuove generazioni. L’adulto credente è ancora rappresentato come colui che accetta di buon grado ciò che il suo prete gli comunica come normativo a proposito dell’esperienza morale, nella logica di una giusta obbedienza al suo prete, che trova la sua ragione d’essere nell’obbedienza del prete al suo vescovo, di quest’ultimo al papa e infine del papa direttamente alla voce divina. L’adulto credente è ancora pensato come colui che accetta, anche contro le istanze della propria intelligenza, ciò che la Chiesa proclama come dogma. L’adulto credente è infine delineato come colui che “ci tiene” alla Chiesa: ne sostiene le attività attraverso i diversi sistemi di finanziamento previsti dalle autorità statali, ne difende pubblicamente le “battaglie culturali” ed esprime da ultimo un voto politico in linea di principio conforme alle indicazioni offerte dai vescovi.

Questi profili dell’adulto credente, certamente qui tratteggiati in modo veloce, costituiscono tuttavia ancora in troppi casi il metro di giudizio per la qualità dell’effettivo cristianesimo presente all’interno delle famiglie e nel più ampio ambito della società. Oltre che il modello di riferimento delle prassi vigenti circa la formazione religiosa dei bambini e degli adolescenti.

Ai cattolici, e soprattutto alle loro guide pastorali, non è più lecito mantenere in piedi, e soprattutto nella testa, un profilo di adulto credente non più contraddistinto proprio da quel “vedere come Gesù”, da quell’assimilazione interiore dello sguardo, del respiro, dell’atteggiamento di fondo che sono stati di Gesù, da quel fare proprio – e qui a parlare è l’apostolo Paolo – i sentimenti di Gesù. Questo è l’adulto credente.

Documento preparatorio del Sinodo sui giovani che fissa, una volta per tutte, di che cosa veramente si nutrono il passaggio delle nuove generazioni da una fede bambina a una fede adulta e l’accesso a una condizione veramente adulta dell’umano.

«Il ruolo di adulti degni di fede, con cui entrare in positiva alleanza, è fondamentale in ogni percorso di maturazione umana e di discernimento vocazionale. Servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento. A volte, invece, adulti impreparati e immaturi tendono ad agire in modo possessivo e manipolatorio, creando dipendenze negative, forti disagi e gravi controtestimonianze, che possono arrivare fino all’abuso.»

Dal sano funzionamento delle relazioni educative, invece, dipende la possibilità dei giovani di vivere pienamente la missione che essi portano inscritta nel loro stesso essere: ereditare il mondo per renderlo più forte e più bello.

Ed è per questo che, mentre alcuni di loro sono in fuga, in marcia permanente verso altre, forse più ospitali, patrie, altri si lasciano andare a una sconfinata depressione che abbiamo imparato a nominare come la condizione dei NEET (la condizione di chi non è impegnato né in un percorso di studio né in un’occupazione, e che per di più non si impegna nemmeno a cercarne una), altri infine giocano all’unico gioco cui loro è possibile giocare: a “restare” alle dipendenze di mamma e papà sino a 35, 40, 45 anni e oltre.

Gentiori 04Neet immagineEvangelii Gaudium, che risale già al novembre del 2013, ha in verità utilizzato parole chiare e assai difficili da non intendere o da sottostimare circa questo settore di impegno ecclesiale:

«La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei cambiamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Per questa stessa ragione le proposte educative non producono i frutti sperati.»

Ecco il vero nodo: l’incredulità giovanile è l’altra faccia della fatica dei giovani a entrare nel mondo adulto, a causa di un mondo di adulti che semplicemente li teme come concorrenti e attentatori, e fa di tutto per mantenerli in una condizione di minorità. L’incredulità giovanile discende direttamente da quella nuova figura di “adulto”, che le attuali generazioni occidentali hanno inventato e fedelmente incarnato. Un adulto dispensato da ogni responsabilità generativa e da ogni legame autentico verso Dio, una comunità religiosa, la società, il futuro e dunque verso i propri stessi figli; un adulto che ama, onora, sostiene la propria giovinezza più che gli stessi giovani; un adulto che, proprio per questo, nulla ha più a che fare con tutto ciò che essenzialmente indica il termine “cristiano”. Questo è il punto. E come non pensare che nella lingua italiana, per esempio, ancora oggi il termine “cristiano”, almeno a livello familiare, è sinonimo di “uomo”? Il tempo che viviamo sta appunto cancellando memoria di tale sinonimia.

Ed è cosa, questa, che papa Francesco ha decisamente in mente e a cuore. Si rileggano, ad esempio, le parole che ha pronunciato il 31 dicembre del 2016, durante la liturgia di ringraziamento per l’anno appena trascorso, detta del Te Deum dalle prime parole di un’antica preghiera cristiana che i credenti recitano tutti insieme proprio in quell’occasione:

«Abbiamo creato una cultura che, da una parte, idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna, ma, paradossalmente, abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. Abbiamo privilegiato la speculazione invece di lavori dignitosi e genuini che permettano loro di essere protagonisti attivi nella vita della nostra società. Ci aspettiamo da loro ed esigiamo che siano fermento di futuro, ma li discriminiamo e li “condanniamo” a bussare a porte che per lo più rimangono chiuse.»

«Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico – cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo

«Quando Nietzsche disse che Dio era morto non voleva riferire di aver visto una morte: voleva solo dire che, diversamente dai secoli precedenti, Dio non era più necessario per spiegare le relazioni sociali, familiari, politiche, le forme dell’arte e del sapere: la vita, insomma. Dopo l’industrializzazione del secolo XIX, dopo lo stretto legame tra guerra e produzione del XX secolo, e con la globalizzazione del XXI, non si può più descrivere una società senza parlare di merci e commerci. Si può, invece, spiegare la stessa società facendo a meno non solo di Dio ma anche del prossimo: come se le relazioni economiche non avvenissero in una comunità, come se non fossero una sottospecie delle relazioni umane. Tutte e due le idee su cui si basa la morale giudeo – cristiana sono diventate superflue (cioè optional) sia per le nostre azioni sia per la nostra mente.»

Ecco il punto: non giudica la sua parabola esistenziale facendo assegnamento sul fatto di avere più vita ovvero una vita più lunga, quanto al fatto di avere a sua disposizione più vite, ovvero più cicli di esistenza, nei quali poter ogni volta mettere in discussione quanto sino a quel momento era ritenuto centrale o decisivo in ordine al proprio cammino e poter avviare un percorso del tutto nuovo e a volte in pieno contrasto con quello sin lì percorso.

Questo rende, per esempio, ragione del fatto che oggi, qualunque sia l’età in cui si muoia, per coloro che sopravvivono quello è sempre morto giovane, se non addirittura troppo giovane. Il punto è – così si stima – che il defunto non solo aveva altri anni da trascorrere, bensì altre vite, altre esistenze, altri possibili cammini.

«La nozione di postmortalità si riferisce […] alla volontà ostentata di vincere grazie alla tecnica la morte, di “vivere senza invecchiare”, di prolungare indefinitamente la vita.»

Con l’incredibile attuale allungamento della vita, la morte, infatti, non ha più il carattere della questione ultima di fronte cui porsi per decidere di sé e del mondo, quanto piuttosto quello di un’ultima questione cui si offrirà il minimo indispensabile di attenzione quando sarà tempo, eventualmente con una disposizione anticipata di trattamento.

Questo è poi all’origine del carattere assolutamente egoistico della popolazione adulta attuale. La sua indotta esigenza di avere sempre più risorse economiche per le possibili altre vite che l’attenderebbe fa sì che alle nuove generazioni restino poco più che le briciole che cadono dalla tavola imbandita di ogni ben di Dio.

 

«Rilassati. Non sei Dio.»

Un secondo elemento che il cristianesimo deve di nuovo e con maggiore intensità immettere all’interno della cultura attuale – per risvegliare gli adulti alla loro vera vocazione di traghettatori di vita nei confronti delle nuove generazioni – deriva dal postulato teologico fondamentale per il quale solo Dio ha il diritto di essere Dio. Nessun essere umano può dunque attribuire assolutezza a sé stesso. Nessuno, ma proprio nessuno è indispensabile. La storia del mondo procede anche senza/dopo ciascuno di noi.

Questo dato elementare contrasta, tuttavia, con quell’aspetto di investimento narcisistico che ha afferrato la popolazione adulta attuale e che si traduce nei fatti nella costante rincorsa per l’ottuso quanto dispendiosissimo mantenimento della propria eterna giovinezza. Prima di me il nulla, dopo di me il nulla, insomma.

È a tutti noto quel segreto di Pulcinella secondo il quale l’arma vincente del mercato è quella di offrire al consumatore una qualche soddisfazione grazie ai suoi prodotti, alimentandone tuttavia una più profonda e decisiva insoddisfazione. L’incubo di ogni venditore è appunto una completa soddisfazione del consumatore, la quale lo renderebbe libero di non acquistare altro. Il dispositivo che oggi è davvero in grado di assicurare questo movimento “della soddisfazione a termine” è proprio il mercato dell’eterna giovinezza, tanto fasullo quanto potente, una volta che si è impossessato dell’anima dei poveri malcapitati. Per questo ciò che, di volta in volta, gli adulti acquistano non è tanto il bene materiale in sé, quanto – per suo tramite – l’assicurazione che la loro “fede” nella possibilità di vivere senza invecchiare e senza dover morire non sia una stupida illusione. Che si possa davvero restare giovani per sempre, insomma!

E invece si invecchia e si deve morire. E fa parte della struttura portante dell’adultità il suo confronto con il pensiero della personale destinazione alla morte, che invece oggi risulta del tutto inagibile.

In un intenso piccolo saggio del 2016, intitolato Senza adulti, il giurista Gustavo Zagrebelsky registrava tale situazione con vera e più che condivisibile preoccupazione.

«Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella “cultura giovanile” dei figli.»

La ragione di tutto ciò sta ancora in quella profonda mutazione che ha colpito le generazioni occidentali che precedono quella dei Millennials, le generazioni dell’adulto postcristiano: quella nata tra il 1946 e il 1964 (generazione dei Boomers) e quella successiva nata tra il 1964 e il 1980 (generazione X), sempre meno capaci di quel gesto di generatività di cui la vita umana essenzialmente si nutre.

Insomma lì dove gli adulti non fanno gli adulti, i giovani non possono fare i giovani. Ed è così che siamo pertanto costretti ad assistere al dissipamento di un’immensa massa di potenzialità giovanili che non trova il giusto innesco per assicurare il suo contributo al rinnovarsi e rinvigorirsi della società.

Non c’è più il futuro di una volta

Proprio per iniziare a mettere a fuoco il complesso di tematiche che toccano insieme la fatica di credere e quella di vivere in pienezza la propria specifica fase di vita, da parte delle nuove generazioni, è opportuno partire da ciò che costituisce il principale elemento di malessere dell’attuale condizione giovanile. E il punto in questione è che non c’è più il futuro di una volta.

La tesi è più che nota ed è stata ampiamente sviluppata a partire dal libro del 2003 L’epoca delle passioni tristi di Gérard Schmit e Miguel Benasayag che per primi l’hanno formulata. Quella tesi, in Italia, ha potuto godere di una sua nuova diffusione grazie a un saggio meritoriamente famoso di Umberto Galimberti, intitolato L’ospite inquietante. I giovani e il nichilismo e pubblicato nel 2007. In che senso si può allora affermare che non c’è più il futuro di una volta? Lasciamo la parola agli autori dell’Epoca delle passioni tristi.

«Assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro […] Il futuro non è semplicemente ciò che ci capiterà domani o dopodomani, ma ciò che ci distacca dal presente ponendoci contemporaneamente, in una prospettiva, in un pensiero, in una proiezione… In sintesi il futuro è un concetto. Proviamo a chiarire con un esempio. Non più di quarant’anni fa tutti pensavamo che, prima o poi, saremmo riusciti a guarire malattie gravi come il cancro. Credevamo con forza che saremmo riusciti a “spiegare le leggi della natura”, e quindi a modificare quel che ci sembrava difettoso. Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologia non ancora conosciuto… In questa sfumatura del “non ancora” risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza. Lo stesso valeva per l’ingiustizia sociale, l’ignoranza eccetera. La cultura occidentale si è costituita a partire da questo “non ancora” carico di promesse messianiche.»

E oggi? Che cosa è accaduto al nostro rapporto con un tale “non ancora”, ovvero con quel carico di promesse cui la stessa parola “futuro” ha sinora fatto allusione? La risposta è netta: il futuro ha cambiato segno.

«Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività. Il futuro, l’idea stessa di futuro, reca ormai il segno opposto, la positività pura si trasforma in negatività, la promessa diventa minaccia.»

«Perché i giovani vivono di notte? Perché di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, nessuno mostra un vero interesse per loro.

È in costante crescita, infatti, il numero di coloro che abbiamo imparato a nominare come NEET (Not [engaged] in education, employment or training). Si tratta di giovani che hanno del tutto smesso ogni attiva ricerca di un inserimento lavorativo nella società e che nello stesso tempo non sono impegnati in percorsi di formazione.

Non hanno forse ragione i cantanti J-Ax e Fedez quando si domandano: «E come faranno i figli a prenderci sul serio con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook. Papà che ogni weekend era ubriaco perso. E mamma che lanciava il reggiseno a ogni concerto»?

In tale direzione, la prima risorsa che i giovani mettono in campo è il valore dell’amicizia, un valore che supera di gran lunga anche il desiderio di carriera e dei soldi. Emerge così un dinamismo di comunicazione tra pari che non si assoggetta alla legge unica del mercato, dove si scambiano cose, ma piuttosto ci si pone nell’atteggiamento di uno scambio di ciò che si è, di ciò che si prova, di ciò che più bolle nel cuore – prima e più di ciò che si possiede. L’essere nativi digitali diventa così occasione anche di assumere le vesti di autentici propulsori di reti umane e di «buone pratiche di comunità».

Particolarmente significativo è poi un altro elemento che caratterizza la vita dei giovani di oggi: l’amore per la musica. Essa è spazio attivo di creatività, di liberazione, contro le ossessioni performanti di adulti che sanno valutare il loro operato solo in termini di rendita e di crescita di capitale. Assomiglia al lavoro degli spiritual degli afroamericani. È protesta potente contro le passioni tristi del nostro tempo. È a volte quasi una sorta di preghiera anonima, un’invocazione, oltre le parole, a un Dio lontano, che, se ha senso la Sua esistenza, non può che essere un Dio della festa.

Come non mettere in conto anche il potente amore per la lettura che le nuove generazioni manifestano? Leggere è il modo più semplice di immaginare mondi nuovi e nello stesso tempo rappresenta l’avvio di una nuova immaginazione di questo mondo, devastato dal narcisismo adulto. Non a caso vi è chi interpreta codesto trend come indice di una nascente slow culture, contrapposta ai ritmi sempre più veloci e superficiali della competizione economica. Si avrebbe così a che fare con «una gastronomia dello spirito e una alimentazione della conoscenza, basata non solo sull’elettronica, ma anche su una preservazione del rapporto umano e su ritmi in ogni senso biologici, di cui le menti non potranno mai fare a meno».

Non è poi ancora sorprendente il linguaggio specifico inventato dai giovani – quello utilizzato soprattutto nella comunicazione digitale – per la sua capacità di sintesi, di efficacia, di risparmio, e dunque di maggiore prossimità umana?

Pure notevole è la maggiore sensibilità dei giovani per la natura. Una cifra decisiva in tale direzione è rappresentata dal grande amore di moltissimi di loro per la fotografia. Dopo anni di cementificazione selvaggia, di sfruttamento privo di qualsiasi razionalità ambientale, secondo un concetto di natura quale pura risorsa da sfruttare, avanza invece nel mondo giovanile un’inedita mente ecologica.

Ma forse il tratto più sorprendente delle nuove generazioni è quello legato al puro e straordinario senso per la giustizia. Basti pensare alla convinta e corale partecipazione alle iniziative contro ogni forma di violenza, di guerra, di sfruttamento, di esclusione, di prevaricazione tramite le lobby bancarie e finanziarie, le quali diventano occasione per manifestare un amore sincero per la pace, per il rispetto, per la tolleranza, per un’economia che non uccida, per una politica dell’inclusione e infine per un maggiore impegno ecologico.

L’ultima paura di mamma e papà: la povertà dei figli

Proprio lungo il filo della paura, anzi più precisamente della preoccupazione, in effetti, scorre oggi il rapporto tra genitori e figli. Tra questi due soggetti non si dà più qualcosa come un flusso educativo, essenzialmente mirato alla crescita e all’emancipazione dall’orbita familiare dei nuovi arrivati. Ad avere la meglio, al presente, è la sindrome del “genitore preoccupato”, intento cioè costantemente a occupare prima (pre – occupare) tutti gli spazi che sono destinati al figlio. Giustamente scrive la sociologa italiana Marina D’Amato che «ancora prima che di attenzione il bambino è oggetto di preoccupazione»; una preoccupazione, continua la studiosa, che inizia già alla sola idea di mettere al mondo il figlio e continua ostinatamente, aggiungiamo noi, sino all’età giudicata adatta, secondo i genitori contemporanei, alla sua fuoriuscita dall’orbita familiare e cioè, più o meno, intorno ai cinquant’anni!

Il punto è che una tale occupazione preventiva, fatta di sopralluoghi, di ricerche ossessive su internet, di consultazione di esperti di ogni genere, di esternazioni più o meno isteriche su blog specializzati, di scambio di informazioni riservatissime tra mamme e papà travestiti da novelli agenti segreti circa le scuole, gli oratori, le palestre, i giardinetti, gli amici e le amiche dei loro figli – possiede un duplice scopo: il primo è quello di sterilizzare, il secondo quello di detraumatizzare.

Sterilizzare e detraumatizzare che cosa? Semplicemente ogni ambiente di qualsiasi natura che sia destinato a essere frequentato dal proprio figlio o dalla propria figlia.

Lo abbiamo già ricordato, l’adulto postcristiano non ha più alcuno spazio mentale e meno che mai religioso per l’esperienza della povertà, della mancanza, dell’assenza di risorse economiche. Tutt’al contrario è la (mai troppo) sufficiente presenza di queste ultime che lo aiuta provvidenzialmente nella sua formidabile gigantomachia contro il perverso processo di “degiovanimento” che tocca in sorte a ogni essere umano. Le creme, le pillole, le iniezioni di botulino, le sessioni di pilates, i massaggi, gli interventi chirurgici, le saune, i bagni turchi, le terme, i fanghi, i jeans all’ultimo grido (di chi ce li vede addosso!), il cellulare dell’ultima versione, l’auto più performante costano e costano tanto. Per questo servono i soldi e la sola idea di non poterne disporre a sufficienza apre allo scenario infernale e nichilistico del doversi mostrare, oltre che esserlo anagraficamente, maturi e addirittura vecchi; in una parola, non più giovani, non più umani.

Garantire perciò, a qualunque costo, denaro a se stessi e alla sempre più risicata tribù familiare è il primo dovere nella testa dell’adulto postcristiano. È, dunque, il contante quel che conta dare in eredità.

È forse opportuno richiamare alla mente un celebre episodio relativo al grande Michelangelo. Interrogato sul come riuscisse a estrarre dai blocchi di marmo gli straordinari capolavori che ancora oggi ci lasciano stupiti, il grande artista affermò che la statua si trovasse già nel marmo e che a lui spettasse solo il compito di eliminare il di più. Certo, sarebbe riduttivo dare retta a queste parole alla lettera, ma, a pensarci bene, una volta che l’artista ha concepito sul blocco di marmo la “statua” non si tratta davvero d’altro che di eliminare quel che è di più.

Si tratta cioè di testimoniare, da parte degli adulti, che la vita è degna del proprio amore, del proprio impegno, della propria responsabilità, della propria generosità, della propria stessa vita, pur in mezzo a una condizione che è segnata dalla finitezza, dalla fragilità e dalla morte.Giovani 03 Genitore Preoccupato

 

Più precisamente, la loro capacità di amare la vita per quello che è e non come location ideale dei propri sogni o bisogni; la vita nel suo connotato più reale, nella sua irriducibilità a qualsivoglia aspettativa narcisistica.»

Per quanto controintuitivo possa apparire quello che è stato ora detto, in verità, a un livello di consapevolezza profonda, ogni genitore sa bene che non è certo riempiendo il figlio di giocattoli, di dolcetti, di complimenti, di coccole e di continue attività ricreative, che attuerà sino in fondo quella responsabilità educativa che egli pure avverte nei suoi confronti. Oggi, forse un po’ più confusamente e vagamente che nel passato, egli sa che l’educazione si muove lungo tutta un’altra direzione rispetto alla questione della paura e della preoccupazione che i figli possano un giorno restare poveri.

La situazione diventa oggi ancora più complessa nella misura in cui l’adulto postcristiano non ha più, né in generale né nello specifico della relazione educativa, lo spazio mentale per contenere la notizia del diventare vecchio, del suo tramonto e dunque della sua scomparsa, reale o simbolica che sia. Il giovanilismo cui ha venduto l’anima gli rende inaccessibile questi tratti pur elementari della sua umanità, con conseguenze di non poco conto circa il suo effettivo investimento dentro le relazioni educative che lo vedono coinvolto. Chiarisce molto bene tutto questo Francesco Stoppa, a partire dalla riscrittura che l’adulto postcristiano ha operato dell’età della vecchiaia.

«Essere vecchi non significa solo trovarsi più vicini alla morte – un dato reale davanti al quale il mondo moderno sa opporre solo un sentimento di terrore –, significa sapersi più indifesi, meno desiderabili, inutili ai fini della produttività: portatori di una sorte di vergogna sociale, quella di incarnare quanto di più letale esista per l’immagine vigente di eterna bellezza e di sconfinata felicità. Non a caso le ultime istituzioni totali sono le case di riposo per anziani, dove vengono depositati i resti, le eccezioni viventi all’ideale etico ed estetico del nostro tempo. […] Naturale, allora, che il genitore d’oggi possa, più di un tempo, essere inconsciamente contrariato dalla crescita dei propri figli, un fatto naturale che lo mette tuttavia di fronte a una contraddizione insanabile tra la sua convinzione interna di essere sempre giovane e l’evidenza reale del dato anagrafico, del suo stesso cedimento psicofisico, del divenire adulti dei suoi figli.»

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Da Tutti giovani nessun giovane, di Armando Matteo (Professore straordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Urbaniana in Roma. È stato assistente ecclesiastico nazionale della fuci, dal 2005 al 2011. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: Tutti muoiono troppo giovani. Come la longevità sta cambiando la nostra vita e la nostra fede (Rubbettino, 2016); Il Dio mite. Una teologia per il nostro tempo (San Paolo, 2017); La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede (Rubbettino, 20172); La Chiesa che manca. I giovani, le donne e i laici nell'Evangelii gaudium (San Paolo, 2018).

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- 8 maggio 2014

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