Dante visto da Buffalmacco con l'immagine al Bargello
Il sommo poeta sarebbe ritratto nel Giudizio Universale in Camposanto. La scoperta di Ammannati: «E’ storicamente credibile»
di Eleonora Mancini
«Dante merita la dannazione» è il messaggio politico che si trova nel Giudizio Universale di Buffalmacco uno dei grandi capolavori del Camposanto di Pisa, dipinto tra il 1336 e il 1342. Fino ad ora, in effetti, nessuno si era accorto che il Poeta è qui rappresentato, con grande probabilità assieme a Virgilio. L’ipotesi, assai suggestiva e con solide basi storiche e documentarie, si deve a Giulia Ammannati, docente di Paleografia alla Scuola Normale, già autrice di studi a loro modo rivoluzionari, come la post-datazione dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei oppure la recente rilettura di una lapide all’interno della Torre che ‘firma’, a nome di Bonanno, l’inizio dell’impresa. Adesso è il turno di Dante, presenza inaspettata dentro il Camposanto di Pisa. Professoressa, come è arrivata a questo ‘riconoscimento’? «In modo casuale. Stavo studiando scritte e cartigli negli affreschi di Buffalmacco, così come ho già fatto per la Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova. Osservando il Giudizio Universale mi è però caduta l’attenzione su di un volto che mi sembrava assomigliare a Dante. Nell’approfondire mi sono resa conto che la possibilità che fosse davvero Dante si radicava in un contesto storico favorevole. Teniamo presente che Dante muore nel 1321 e che Buffalmacco dipinge 15 anni dopo». Cosa ci fa Dante nell’affresco e, per di più, fra i dannati? «Per capirlo dobbiamo considerare la committenza dell’affresco: l’Ordine dei Domenicani. Questi, oltre a essere i detentori, diremmo, della dottrina, erano molto legati, attraverso l’arcivescovo pisano Simone Saltarelli, al Papa legittimo, Giovanni XXII, che risiedeva ad Avignone. Pisa, fra il 1327 e il 1329, era stata occupata dall’Imperatore Ludovico il Bavaro e qui era stato insediato l’antipapa Niccolò V. In quelle vicende, i filoimperiali avevano tratto succosi argomenti da un’opera di Dante, il De Monarchia, che fu condannata al rogo dagli emissari del Papa avignonese». L’opera di Dante usata in chiave antipapale, quindi? «Sì, la sua posizione faceva comodo ai filoimperiali. I domenicani stessi, fra l’altro, avevano poco prima condannato la Commedia perché solo loro si consideravano i detentori della predicazione sull’Aldilà e Dante, oggettivamente, andava a pestare i piedi alla loro sfera di influenza. L’Ordine ne aveva quindi vietata ai suoi membri la lettura. Ma c’è di più». Consideravano Dante alla stregua di un mago? «Dante fu accusato alla corte del papa ad Avignone di pratiche magiche ai danni del pontefice. In quel periodo, arcivescovo di Pisa era il fiorentino Saltarelli, grande sostenitore del Papa di Avignone che aveva condannato magia e negromanzia. Negli affreschi di Buffalmacco c’è traccia di questo, perché si condanna nell’Inferno una maga come rappresentante della negromanzia. Anche Virgilio, nel Medioevo, aveva fama di mago. Insomma, i motivi per cui Dante sarebbe stato cacciato all’inferno dai domenicani non mancavano». La sua presenza tra i dannati diventa quindi un messaggio per il pubblico degli affreschi. «La comunicazione a quei tempi avveniva in primo luogo per immagini. I cicli pittorici contengono messaggi funzionali all’indottrinamento: allontanare dal peccato e avvicinare alle virtù. La presenza di Dante, personaggio in qualche modo contemporaneo, non è un caso isolato. Nell’Inferno è stata riconosciuta una allusione a Ludovico il Bavaro e al suo antipapa Niccolo V». E Buffalmacco, dove avrebbe ‘visto’ Dante per poi ritrarlo? «Saltarelli e Buffalmacco erano fiorentini e potevano aver visto il ritratto di Dante al Bargello, quello archetipico realizzato da Giotto. Potremmo pensare che il volto di Dante fosse in qualche modo familiare a Pisa se è vero ch’egli abbia qui soggiornato. L’ipotesi di una sua presenza al seguito della corte di Enrico VII fra il 1312 e il 1313, formulata da Marco Santagata, è assai plausibile, come dimostrerebbero le molte analogie fra il lessico del Monarchia e quello della cancelleria imperiale».
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Da La Nazione 20210201