L'ideale perpetuo è lo stupore

L'ideale perpetuo è lo stupore

"Egrette bianche",

Quattordicesima raccolta di poesie di Derek Walcott

Dante visto da Buffalmacco con l'immagine al Bargello

Dante BargelloIl sommo poeta sarebbe ritratto nel Giudizio Universale in Camposanto. La scoperta di Ammannati: «E’ storicamente credibile»

di Eleonora Mancini

«Dante merita la dannazione» è il messaggio politico che si trova nel Giudizio Universale di Buffalmacco uno dei grandi capolavori del Camposanto di Pisa, dipinto tra il 1336 e il 1342. Fino ad ora, in effetti, nessuno si era accorto che il Poeta è qui rappresentato, con grande probabilità assieme a Virgilio. L’ipotesi, assai suggestiva e con solide basi storiche e documentarie, si deve a Giulia Ammannati, docente di Paleografia alla Scuola Normale, già autrice di studi a loro modo rivoluzionari, come la post-datazione dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei oppure la recente rilettura di una lapide all’interno della Torre che ‘firma’, a nome di Bonanno, l’inizio dell’impresa. Adesso è il turno di Dante, presenza inaspettata dentro il Camposanto di Pisa. Professoressa, come è arrivata a questo ‘riconoscimento’? «In modo casuale. Stavo studiando scritte e cartigli negli affreschi di Buffalmacco, così come ho già fatto per la Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova. Osservando il Giudizio Universale mi è però caduta l’attenzione su di un volto che mi sembrava assomigliare a Dante. Nell’approfondire mi sono resa conto che la possibilità che fosse davvero Dante si radicava in un contesto storico favorevole. Teniamo presente che Dante muore nel 1321 e che Buffalmacco dipinge 15 anni dopo». Cosa ci fa Dante nell’affresco e, per di più, fra i dannati? «Per capirlo dobbiamo considerare la committenza dell’affresco: l’Ordine dei Domenicani. Questi, oltre a essere i detentori, diremmo, della dottrina, erano molto legati, attraverso l’arcivescovo pisano Simone Saltarelli, al Papa legittimo, Giovanni XXII, che risiedeva ad Avignone. Pisa, fra il 1327 e il 1329, era stata occupata dall’Imperatore Ludovico il Bavaro e qui era stato insediato l’antipapa Niccolò V. In quelle vicende, i filoimperiali avevano tratto succosi argomenti da un’opera di Dante, il De Monarchia, che fu condannata al rogo dagli emissari del Papa avignonese». L’opera di Dante usata in chiave antipapale, quindi? «Sì, la sua posizione faceva comodo ai filoimperiali. I domenicani stessi, fra l’altro, avevano poco prima condannato la Commedia perché solo loro si consideravano i detentori della predicazione sull’Aldilà e Dante, oggettivamente, andava a pestare i piedi alla loro sfera di influenza. L’Ordine ne aveva quindi vietata ai suoi membri la lettura. Ma c’è di più». Consideravano Dante alla stregua di un mago? «Dante fu accusato alla corte del papa ad Avignone di pratiche magiche ai danni del pontefice. In quel periodo, arcivescovo di Pisa era il fiorentino Saltarelli, grande sostenitore del Papa di Avignone che aveva condannato magia e negromanzia. Negli affreschi di Buffalmacco c’è traccia di questo, perché si condanna nell’Inferno una maga come rappresentante della negromanzia. Anche Virgilio, nel Medioevo, aveva fama di mago. Insomma, i motivi per cui Dante sarebbe stato cacciato all’inferno dai domenicani non mancavano». La sua presenza tra i dannati diventa quindi un messaggio per il pubblico degli affreschi. «La comunicazione a quei tempi avveniva in primo luogo per immagini. I cicli pittorici contengono messaggi funzionali all’indottrinamento: allontanare dal peccato e avvicinare alle virtù. La presenza di Dante, personaggio in qualche modo contemporaneo, non è un caso isolato. Nell’Inferno è stata riconosciuta una allusione a Ludovico il Bavaro e al suo antipapa Niccolo V». E Buffalmacco, dove avrebbe ‘visto’ Dante per poi ritrarlo? «Saltarelli e Buffalmacco erano fiorentini e potevano aver visto il ritratto di Dante al Bargello, quello archetipico realizzato da Giotto. Potremmo pensare che il volto di Dante fosse in qualche modo familiare a Pisa se è vero ch’egli abbia qui soggiornato. L’ipotesi di una sua presenza al seguito della corte di Enrico VII fra il 1312 e il 1313, formulata da Marco Santagata, è assai plausibile, come dimostrerebbero le molte analogie fra il lessico del Monarchia e quello della cancelleria imperiale».

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Da La Nazione 20210201

L’intelligenza artificiale può scoprire i talenti migliori

Recruitment & diversity. Gli algoritmi possono aiutare i responsabili delle risorse umane ma sono ancora a rischio discriminazioneIntelligenza artificiale 01jpeg

Luca Tremolada

Le persone giuste al posto giusto per usare uno slogan o, per usare un’espressione più prosaica, potremmo chiederci: com'è possibile rendere la selezione del personale più efficiente? Una risposta arriva dagli algoritmi di intelligenza artificiale. Ma non solo. «Negli ultimi anni - spiega Carlmaria Tiburtini, diversity leader di Avio Aero - grazie alle recenti innovazioni in campo tecnologico, è stato possibile fare grandi passi avanti nella gestione del capitale umano nella sua completezza. Lo studio Deloitte Global Human Capital Trends 2020 afferma che il 70% degli intervistati ha dichiarato che all’interno della loro organizzazione si stanno valutando soluzioni basate su intelligenza artificiale a vario titolo per garantire maggiore qualità e produttività delle risorse. La rotta è quindi tracciata».

L’indicazione è chiara, ma in che modo e in che forme l’Ai può entrare negli uffici del personale?

Per esempio, osserva Maria Rita Fiasco, vicepresidente di Assintec Assinform, fondatrice e presidente del Gruppo Pragma: «Gli algoritmi possono valutare enormi volumi di curriculum per trovare i migliori candidati in base a esperienze e capacità specifiche. La tecnologia oggi può aiutare nell'ottimizzazione della ricerca dei candidati, nell'estrapolare automaticamente dati da documenti destrutturati come i CV, nell'usare l'analisi semantica per individuare cluster di candidati, scrivere gli annunci, suggerire candidati simili. Tutte attività che, se svolte manualmente su grandi quantità di candidature, comportano una mole di tempo assai considerevole».

Il sistema non è esente da rischi, soprattutto se il processo non è supervisionato. E con rischi intendiamo possibili discriminazioni o pregiudizi operati nelle scelte dagli algoritmi.

«Si sta molto lavorando su questo - aggiunge Maria Rita Fiasco - cercando di introdurre metodologie che aiutano a “depurare” da quegli elementi distorsivi introdotti dai bias. Teniamo presente anche che il settore informatico è ancora largamente dominio maschile, il tema dei bias incrocia il tema del gender gap in ambito Stem. È come quando le leggi vengono fatte solo da uomini. Il tema è culturale, prima ancora che tecnologico. In fondo la tecnologia fa quello che noi chiediamo a lei di fare».

«Alcuni studi svolti in UK ad esempio - sottolinea Linda Serra, co-founder e Ceo di Work Wide Women - hanno dimostrato che già solo il cognome non anglofono su un CV è causa di discriminazione nella selezione dei candidati. La stessa cosa a livello universale succede, se sul cv compare una bella foto: siamo portati ad associare l'aspetto fisico ad altre caratteristiche. La bellezza, essendo un canone positivo, per quello che viene definito “Effetto Alone”(automatismo mentale), tende a portare il nostro cervello ad estendere la caratteristica fisica valutata positivamente, ad altre caratteristiche fondamentali in una selezione del personale, quali ad esempio la precisione, l'affidabilità, la proattività.

Una delle soluzioni adottate ad esempio negli Stati Uniti sono le blind interviews (i colloqui al buio) che in fase di raccolta dei CV richiedono profili in cui non compaiano elementi che possono dare vita a distorsioni cognitive quali genere, età, cognome (che spesso richiama provenienza o gruppo etnico) e anche il colloquio viene fatto online con webcam spenta. Un'ulteriore risposta sono certamente i sistemi di AI, il problema è che come sappiamo, anch'essi riproducono gli stessi bias propri dell’intelligenza umana».

La presenza di bias nei sistemi di AI si può evitare creando consapevolezza sul tema in chi sviluppa. Ad esempio, aggiunge Linda Serra, «diversificando i team di sviluppo: oggi solo il 12% di chi sviluppa AI, ad esempio, è composto da donne. Finché i team di sviluppo saranno composti dai “Mini-me” sarà difficile evitare la trasmissione di una visione poco diversificata anche nei sistemi di Ai».Intelligenza artificiale 02

Dall’altra parte, bisogna che i dati siano raccolti e disaggregati tenendo conto dei vari ground di diversità: rilasciando dati più diversificati e allo stesso tempo educando i sistemi a non trattare i dati “minori” come dati di scarto, ma come dati che devono essere presi in considerazione allo stesso modo dei dati di valore numerico più rilevante, sicuramente potremo avere un panorama più inclusivo anche nel territorio della AI».

«Avere programmatori diverse per genere, etnia e cultura - conclude Carla Maria Tiburtini - non può che contribuire alla creazione di un modello che riduce l'applicazione del pregiudizio. Educare gli algoritmi ad essere inclusivi è possibile, basta che lo diventino le persone».

@lucatremolada

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Da Il Sole 24 Ore - 23 settembre 2021

«La massimizzazione del profitto, che tenda a isolarsi da ogni altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia»

Lucia Calvosa Sviluppo SostenibileL’INTERVISTA LUCIA CALVOSA

«Una governance di sostenibilità per la nuova Eni a trazione verde»

La presidente: «A un’azienda pubblica compete grande responsabilità sociale e etica»

Celestina Dominelli

Sottolinea «il privilegio e l’orgoglio» di essere arrivata «in una grande realtà come l’Eni in un momento cruciale per il Paese e per il gruppo» e si dice pronta a mettere a disposizione la sua expertise di «tecnico», come lei stessa ama definirsi, per proiettare sempre più la nuova Eni a trazione “verde” verso «una governance di sostenibilità dove le variabili non finanziarie, le metriche Esg (ambientali, sociali e di governance), sono i fari che ne illuminano l’intero agire». Perché la neopresidente Lucia Calvosa ha un percorso molto chiaro alle spalle, che incrocia una lunga carriera accademica (è ordinario di diritto commerciale all’Università di Pisa da oltre vent’anni) con le battaglie da avvocato esperto in materia societaria e fallimentare e con l’esperienza maturata come consigliere indipendente in svariati cda tra banche (Cassa di risparmio di San Miniato, Mps e Banca Carige) e tlc (Telecom dove è stata anche presidente del comitato controllo e rischi). «Già a febbraio, prima che esplodesse la pandemia, Eni aveva presentato alla comunità finanziaria la nuova strategia di decarbonizzazione con un suo piano industriale - spiega in questa intervista, la prima dopo la sua nomina -. Ora, però, stante il mutamento dello scenario, si è reso indispensabile trasformare la crisi in opportunità e accelerare il futuro perché per Eni quella strategia rappresentava già una programmazione del futuro».

Quale ruolo giocherà il cda in questa accelerazione?

Appena insediato, il nuovo board si è trovato ad approvare due delibere di particolare importanza in questa direzione: la nuova organizzazione basata su due direzioni generali (Natural Resources ed Energy Evolution), convergenti verso un’unica mission, quella della transizione energetica, e soprattutto la revisione della strategia di breve-medio termine che, pur in un’ottica di riduzione dello sforzo globale, ha portato a incrementare gli investimenti per i nuovi business bio, blu e green. E questo produce inevitabilmente dei risvolti anche sulla governance.

Che tipo di ricadute?

Il board dovrà lavorare per creare un contesto rafforzato e adeguato al nuovo scenario e dovrà adattare al mutato contesto la strategia che pure era stata prevista da Eni, anche se con una tempistica diversa, tenendo conto dell’influenza che questa determina sui processi aziendali e sulla governance. Che sarà sempre più una governance di sostenibilità in cui le variabili non finanziarie, le metriche Esg, sono i fari che illuminano l’intero agire della società.

In che modo il cda potrà supportare la declinazione della nuova strategia?

Io credo che il ruolo del presidente e del cda debba essere orientato ad accompagnare questa svolta e ad accompagnarla cercando di realizzare valore nel lungo termine non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo sociale e ambientale tenendo conto della grande responsabilità sociale ed etica che compete a una grande impresa per di più a partecipazione pubblica come Eni. E il comportamento dell’azienda deve essere sempre più ispirato a un paradigma imprescindibile che è gia presente nel gruppo e che andrà sempre più implementato.

Quale?

La creazione di valore nel lungo termine per gli azionisti dovrà sempre più tener conto e cercare di dare soddisfazione a tutti gli stakeholder per realizzare una transizione energetica equa che è l’obiettivo ultimo perseguito da Eni e in questo un assist arriverà anche dal nuovo Codice di corporate governance, pubblicato a gennaio e in vigore da inizio 2021. Il nuovo Codice stabilisce infatti, già al principio I, che «l’organo amministrativo guida la società perseguendone il successo sostenibile e definisce le strategie in coerenza con lo stesso». E il successo sostenibile è la stella polare della strategia di Eni e lo sta diventando anche per la costruzione dei portafogli degli investitori, a cominciare dai big come BlackRock che lo hanno definito un “cambiamento tettonico”.

La considera una svolta epocale?

Ritengo che sia percepita come tale più da coloro che sono rimasti ancorati al mito dello “shareholder value” (il valore per gli azionisti, ndr), come è stato definito da un economista americano, e allo scopo lucrativo del codice civile. Ma già nel 1959 un illustre giurista ricordava che 40 anni prima un amministratore del “Norddeutscher Loyd”, il cui oggetto sociale era il trasporto fluviale di merci sul Reno, aveva dichiarato che lo scopo della società era non solo quello di distribuire dividendi, ma anche quello di far navigare i battelli sul Reno. Il che significa salvaguardare l’impresa in sé, che comprende tutti gli stakeholder e non soltanto i soci, senza tralasciare un altro aspetto cruciale.

A cosa si riferisce?

Occorre distinguere il profitto dal valore, la possibilità di generare valore di lungo termine è legata alla presenza di risorse da investire e quindi al profitto, ma quest’ultimo non può finire per schiacciare il primo. Come diceva anche Papa Francesco nella sua enciclica sull’ambiente “Laudato si’” del 2015, .

In che senso?

Il nostro obiettivo non può fermarsi al raggiungimento del massimo profitto, ma deve perseguire anche quello di una visione strategica di lungo periodo per garantire un futuro industriale al Paese secondo i principi della competitività economica, della giustizia sociale e della sostenibilità ambientale. E, aggiungo, anche guardando alle generazioni future che devono essere il polo di riferimento delle nostre scelte e verso le quali abbiamo la responsabilità di consegnare un mondo come tutti noi auspichiamo. E in tale contesto si colloca il piano strategico trentennale (integrante i target Esg), presentato da Eni che punta a farne il leader del mercato a cui fornirà prodotti decarbonizzati contribuendo così al processo di transizione energetica.

Da dove si parte sul fronte della governance?

Ci sono diverse azioni messe in campo dal management che rappresentano un’ottima base da cui muovere. In Eni è stato già fatto un grande lavoro sulla sostenibilità che è stata inglobata totalmente nella governance, nelle strategie e nella reportistica ed è diventata un approccio trasversale e integrato a tutte le aree di business, capace di favorire sia la gestione e la prevenzione dei rischi (non solo quelli economico-finanziari), ma anche di fungere da leva per cogliere nuove opportunità di business e sostenere la crescita nel lungo termine.

Il precedente cda aveva cominciato a studiare il passaggio al monistico. Proseguirete in quella direzione?

Qualsiasi considerazione al momento è prematura. Come tecnico ho approfondito i modelli di governance dei vari ordinamenti e ho la mia opinione sui pretesi vantaggi illustrati da chi sostiene il monistico, come l’assenza di duplicazioni a livello di controlli. Ad ogni modo, valuteremo e ci confronteremo con grande attenzione in seno al cda partendo dal lavoro fatto da chi ci ha preceduto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Celestina Dominelli

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Dal Sole 24Ore del 04 settembre 2020

Paganini? «Furono Heine e Goethe a descriverlo come un diavolo. Un’immagine che resiste».

Paganini Violino 03«Svelo i segreti del Cannone, celebre violino di Paganini»

Francesca Dego: nuova musica per lo strumento amato dal compositore

 
Valerio Cappelli

È il più celebre violino del mondo, e Francesca Dego ne svela segreti e misteri. «Il Cannone» è il Guarneri del Gesù del 1743 che, per la prima volta, non suona musica del suo ex illustre proprietario, Niccolò Paganini, ma brani a lui ispirati. Accade nel cd di Chandos che la violinista ha inciso nella sede del Comune di Genova, dove lo strumento viene custodito. Dopo il restauro del 2004, lo si concede molto di rado.

A chi appartiene?

«Al Comune. Paganini nel testamento scrisse: perché venga conservato perpetuamente. Si è dibattuto sul significato di queste sue parole a livello legale, si deve suonare o si deve soltanto custodire? Il figlio di Paganini, dal nome altisonante, il barone Achille Cesare Alessandro, non lo voleva mollare, lo consegnò 11 anni dopo la morte del padre».

Che suono ha?Violino Paganini

«Nobile, vellutato, saggio. Risponde meglio se lo lasci respirare, è come se non sopportasse le intemperanze e i guizzi di troppo. Questo violino, di cui da piccola avevo il poster in camera, ha bisogno di essere ascoltato e capito, mostra i segni degli anni che Paganini passò a suonarlo».

Quali segni?

«All’epoca i violinisti non usavano la mentoniera (sostiene il mento) e la spalliera. Suonavano in modo diverso e il sudore intasava le vernici. I segni, visto che è stato di Paganini per quarant’anni, sono suoi, quelli accanto alla tastiera, le unghie quando pizzicava le corde sono le sue».

Lei era in soggezione durante l’incisione?

«Alcuni non amano il Cannone come lo amo io, è una questione di pelle, d’istinto. Sul palco erano con me un liutaio e le sei guardie che lo custodiscono, ma non possono toccarlo».

Col violino voi avete un rapporto fisico, come fosse un’appendice. Le è mai capitato di dimenticarne uno?

«Sì, una volta in treno. Me ne resi conto dopo aver cambiato binario, stavo leggendo un libro di Ken Follett. Corsi a perdifiato e fermai il treno inventandomi che avevo dimenticato mio figlio. Cosa posso dire, l’essere umano è fallibile, c’è chi dimentica un bambino in auto…Ma non mi sto giustificando».

Il cd «nasce» da Paganini.

Il disco

«Durante la registrazione del disco erano con me un liutaio e sei guardie»

«Carlo Boccadoro riscrive il Cantabile, uno dei pezzi più iconici di Paganini, l’originale è per violino e chitarra che qui viene sostituito dal pianoforte, ispirandosi a un ipotetico incontro tra Paganini e Chopin (che comunque ebbe modo di ascoltarlo), lasciando identica la parte per violino. Poi ci sono La Campanella nella versione più breve di Kreisler, A Paganini di Schnittke è il pezzo più drammaticamente contemporaneo, poi Rossini per uno dei Peccati di vecchiaia pensò al suo amico Paganini, che era già morto, brano di una dolcezza sconvolgente, contro l’immagine luciferina che si ha di lui».

I due erano amici.

«Paganini diresse la prima di Matilde di Shabran a Roma, un fiasco terribile e loro due si ubriacarono, era Carnevale, mascherati si misero a suonare chiedendo l’elemosina».Paganini

L’odore di zolfo, il «diabolico» Paganini?

«Fu un genio del marketing, appena arrivava in una città andava nei cimiteri, furono Heine e Goethe a descriverlo come un diavolo. Un’immagine che resiste».

Che idea di virtuosismo trasmette?

«Non è semplice acrobazia, per me è al cento per cento teatro, rientra nel filone che porta al belcanto, la musica che lui ascoltava».

L’amore per Paganini?

«Me lo trasmise mio padre Giuliano, un letterato venuto a mancare in agosto. Scrisse un libro sulla fuga dalla Germania, prima della guerra, del mio bisnonno ebreo, amico di Albert Schweitzer. I nazisti sterminarono ben 46 nostri parenti».

Lei fece un cd su Paganini con suo marito, il direttore Daniele Rustioni.

«Ci conosciamo da 16 anni, più di metà della mia vita. Mi sento quasi in colpa ma il lockdown l’abbiamo vissuto benissimo a Londra dove viviamo. Giocavamo a frisbee nel parco, a casa ci coccolavamo suonando quasi fossimo due amatori della musica».

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Dal Corriere della Sera di Mercoledì 20 Gennaio 2021

La luce che scalda senza illuminare e il fuoco che illumina senza scaldare

Sito Blog Scuola AteneLa Scuola di Atene, un affresco (770 × 500 cm circa) di Raffaello Sanzio, con una datazione collocabile intorno al 1509 – 1511 e situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro "Stanze Vaticane", situate all'interno dei Palazzi Pontifici.

La Morte di Socrate [La Mort de Socrate), dipinto a olio su tela (129,5 × 196,2 cm) del pittore francese Jacques – Louis David, realizzato nel 1787 e conservato al Metropolitan Museum of Art di New York].Sito Blog Morte Socrate

Due capolavori assoluti, rispettivamente del Cinque e Settecento, al centro dei quali spicca un dito volto verso il cielo, che si lascia cogliere quasi fosse incastonato nel braccio alzato, sia da Platone, che Raffaello posiziona accanto ad Aristotele, sia da Socrate, che di Platone è stato il maestro ed occupa il centro di una scena alquanto più ristretta nel dipinto di David.

Nell’affresco cinquecentesco Raffaello Sanzio (passato dall’accogliente atmosfera dell'illuminato duca Guidobaldo da Montefeltro della tranquilla città di Urbino alle Sito Blog Disputa Sacramentostanze vaticane con il Papa Giulio II, quando già era pittore alquanto affermato) raffigura, proprio su commissione del Pontefice, a decoro delle stanze vaticane, la celeberrima Scuola di Atene, presentando Platone con il volto di Leonardo da Vinci, mentre in una mano regge il Timeo (il dialogo sulla  cosmologia e sull’origine dell'universo, unitamente alla fisica della sua struttura materiale, oltre al tema escatologico inerente alla natura umana) e, nell’altra, solleva il dito verso l'alto, indicando il Bene, secondo un percorso logico che dalla percezione delle cose sensibili giunge a un pensiero intorno a ciò che le cose sono secondo verità.

Il contesto generale dell’opera, popolata da numerosi pensatori facenti capo a molteplici epoche storiche, è la facoltà dell'anima di conoscere il Vero, attraverso la Scienza e la Filosofia, viste e rappresentate come un’anticipazione del Cristianesimo, tema che, invece, trova ampio spazio proprio sulla parete opposta, con l’altro affresco, realizzato in quegli stessi anni, sempre da Raffaello, la Disputa del Sacramento, titolo originato da un’errata interpretazione del termine utilizzato dal Vasari e che non sta ad indicare una discussione, una divergenza di opinioni, ma una compresenza di registri di raffSito Blog Filosofo Meditazioneigurazione pittorica della Chiesa, militante, nella parte inferiore, trionfante, in quella superiore, ragion per cui il titolo corretto dovrebbe probabilmente essere Trionfo dell’Eucarestia o Trionfo della Chiesa.

Assai ben diverso il clima emotivo del dipinto realizzato nel 1787 dall'assai più inquieto Jacques – Louis David, militante nella Parigi rivoluzionaria del club giacobino, del quale, negli anni che seguirono la presa della Bastiglia, sarebbe diventato Presidente. La drammaticità della rappresentazione è come distesa sulle braccia del protagonista della scena, Socrate, ingiustamente condannato a morte, il quale tra i suoi allievi, stringe in una mano una coppa contenente la sostanza che lo ucciderà e nell’altra esprime, appunto, il gesto azionato da Platone nella Scuola di Atene, il medesimo gesto ma che stavolta indica il cielo per esaltare una virtù umana, quella che lo rende indifferente alla morte nella convinzione per la quale l’adesione alla legge, pur nell’ingiustizia della sua applicazione, è più importante persino della sua stessa vita.

Un orizzonte che difficilmente potrebbe accostarci al mondo delle idee di Platone se non a causa di un fraintendimento dovuto ad una somiglianza unicamente formale, frutto di una malintesa semantica delle immagini, così come l’altro, sopra ricordato, questo realmente originato dal frainteso racconto del Vasari.

E nella drammatica scena è incluso anche il discepolo Platone, ma in una posa assente, quasi la cosa non lo riguardasse, seduto di spalle al suo maestro, immerso in una sua solitaria riflessione, per nulla preso dalla tragicità del momento.

Socrate è il protagonista assoluto, entro il contesto di figure umane destinatarie di una lezione nella quale Egli include gli ultimi attimi della sua vita, in un gesto che emoziona i presenti e suscita sentimenti forti ma che sembra quasi esso stesso limitato dall’angusta prospettiva del rispetto di una condanna palesemente ingiusta alla quale Socrate intende tuttavia conformarsi, nel che sembra proprio eclissarsi un’impalpabile prospettiva del Bene. Nel che siamo nuovamente lontani da quel mondo delle idee che proprio il discepolo di Socrate, Platone, accompagnandosi ad Aristotele, indica entro una diversa e vertiginosa prospettiva, quella delle possibilità dischiuse all’uomo dalle Scienze, dal Pensiero Speculativo e dalle Arti, tutte mirabilmente rappresentate dai molteplici personaggi che elegantissimamente affollano l'architettura dell’affresco di Raffaello, anche se, proprio per questo, il clima risulta spento se posto a confronto con quello impresso sulla tela dal focoso pittore giacobino del settecento.

Insomma, quasi a dire una luce che scalda senza illuminare, quella di David, a fronte di un fuoco che illumina, senza scaldare, quello di Raffaello, secondo le parole mediante le quali Christophe Andrè, medico psichiatra all’ospedale Sainte – Anne di Parigi, e autore de “L’arte della meditazione” ci porta sulle tracce di un dipinto di Harmensz Van Rijn, detto Rembrandt, Filosofo in meditazione [eseguito nel 1632, sembra (anche cronologicamente) esattamente a metà tra l’opera di Raffaello (1509 – 1511) e La Morte di Socrate (1777 – 1787)]: «E’ il genio di Rembrandt, che fa viaggiare lo sguardo in tutte le dimensioni. In larghezza, da sinistra dove si irradiala luce del giorno, verso destra, dove quella del fuoco è fragile, pressoché irrisoria: il dialogo di un sole che illumina senza scaldare e di un fuoco che scada senza illuminare: sole della ragione e fuoco della passione, due ingredienti per filosofeggiare?».

It’s changing because we make a change

Time Steve McQuinn7 QUESTIONS

Steve McQueen

The Oscar-winning director on his new collection of films, memories of 1980s London and the landscape for Black British artists

SUYIN HAYNES


Small axe takes its name from a proverb: “if you are the big tree, We are the small axe.” it’s an anthology of five films about the experiences of the west indian community in london, from the late 1960s to the 1980s. How did you first conceive the series?This started about 11 years ago, and I needed the time and the maturity to get a grip on it. I needed that perspective. It was going to be one story with one family, but with my research, I was just finding all these amazing stories and thought that they should be stand-alone stories.

These stories are not really taught in school or seen onscreen. What was it about these five moments that interested you? Mangrove was the first story, and it’s a landmark case in British history. At the time, it was the longest-running court case at 55 days, and during it, the police were called racist for the first time. Lovers Rock is about the whole idea of another claim of defiance, of being able to express oneself with music, in a landscape which was not inviting to Black people in the clubs. The idea for Red, White and Blueemerged from the writers’ room. Alex Wheatle was actually a writer in the writers’ room, and his story [Alex Wheatle] was so amazing that I said, “We need your story.” With Education, I was combining the narrative of “educationally subnormal” schools, which emerged in the late ’60s and ’70s, with my own unfortunate situation, which happened in the ’80s.

You had John Boyega in mind to play a senior police officer in Red, White and Blue from a very early stage. What was the experience of working with him like?John can hold the camera. You either have it or you don’t, and he has it. When we were making [the film], he did that speech at Hyde Park involving Black Lives Matter and the death of George Floyd. I think the project had an influence on him, and then after that speech, he had an influence on the project. There was a real kind of intertwining of real life and art.

FOR ME, IT’S GREAT WHEN PEOPLE FEEL THEMSELVES LOOKING AT THEMSELVES

Time Steve McQuinn 02You grew up in the time period when the anthology takes place. How did your specific memories inform your storytelling?Anything a Black person did was on the front or the back pages. It was a time where people were treated very badly. I remember the Brixton riots in ’81 and walking to school, and the narrative that was conjured up at school and the energy that was put upon you when you walked down the street as a Black person. There was a lot of uncertainty. But again, we power through. And I owe a great debt to those people who led the way.

What do you hope people take away from watching the anthology? I really hate that question. I don’t know; that’s not my problem. I never want to put people in a straitjacket.

What has been the biggest impact on you from creating these films? It’s been quite heavy. The first word I would say is relief. For me, it’s great when people feel themselves looking at themselves, because within the narrative of British films, a lot of these stories have never been told. My ambition was to fill the gap in that narrative.

Do you feel like, as a Black British creator, the landscape is changing for you to make the art that you want to make? I’m very hardheaded because of my mother. The landscape is changing because of individuals laying down a path for people to come into, and we did that with Small Axe. All our departments had at least one or two apprentices. It’s changing because we make a change. The whole idea of this series is “small axe,” meaning do it yourself. No one’s going to give it to you.

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Time Europe

December, 14, 2020

Quote Rosa nella ricerca scientifica? Il valore famiglia

SantAnna Sabina NutiLa Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha ben 3 donne nelle prime 4 posizioni di vertice, ma non basta La rettrice: «Il sistema accademico non è ancora abbastanza attento al nostro cammino professionale»

PAOLO FERRARIO

«Il merito e il talento non hanno genere, così come non hanno colore della pelle. Quando i parametri di valutazione sono oggettivi, anche le donne riescono ad emergere. Su questo fronte noi a Pisa abbiamo fatto tanto, ma molto resta da fare: il soffitto di cristallo esiste ancora».

Anche alla Scuola Superiore Sant’Anna, non soltanto la prima università italiana nel ranking internazionale di The (Times Higher Education),ma anche quella più “rosa”, con tre donne nelle prime quattro posizioni apicali, la componente femminile è ancora largamente sottorappresentata. Riequilibrare questi rapporti è un obiettivo ai primi posti dell’agenda della rettrice Sabina Nuti, da maggio seconda donna al vertice dell’ateneo (290 allievi per la formazione universitaria integrativa con l’Università di Pisa e 345 allievi di dottorato, tutti super–selezionati) dopo Maria Chiara Carrozza, che ha guidato il Sant’Anna dal 2007 al 2013.

La rettrice Nuti – una delle sole sei donne al vertice delle 82 università aderenti alla Crui – è affiancata da altreSantAnna Pisa due colleghe: la prorettrice vicaria Arianna Menciassi e la preside della Classe accademica di Scienze sociali, Anna Loretoni. Enrico Pè, invece, è preside della Classe di Scienze sperimentali. Ma le buone notizie finiscono qui. Se tra il personale amministrativo del Sant’Anna le donne sono il 62%, scendono a circa il 40% tra il personale di ricerca, al 25% tra i professori e al 17% tra i soli professori ordinari. Numeri che confermano nella rettrice Nuti questa convinzione: «Il sistema universitario non è sempre attento al cammino professionale delle donne».

Un fattore che la stessa rettrice ha subìto nel corso della carriera. Madre di quattro figli, è diventata professoressa ordinaria dopo i colleghi uomini, proprio “a causa” del tempo dedicato alla cura della famiglia. «Una scelta che rifarei a occhi chiusi – sottolinea Nuti – perché crescere i miei figli ha dato un grande impulso anche alla mia crescita professionale. Certo, ho scontato un ritardo nella progressione della carriera. Per questo, dico che il sistema deve cambiare. Perché una donna non dovrebbe mai sentirsi in colpa per avere dedicato tempo ai figli e alla famiglia». Tra i primi interventi strategici, la rettrice ha quindi pensato di «dedicare molta attenzione anche alla selezione delle Commissioni di concorso, affinché la componente di genere sia correttamente rappresentata e il rischio di gender gap sia effettivamente ridotto». Tra le misure richieste al Miur, la rettrice della Scuola Sant’Anna inserisce una «modalità diversa di misurare i tempi professionali». In sostanza, oggi la produttività scientifica di un ricercatore universitario è misurata rispetto agli anni di lavoro. «Per le donne che hanno figli e che devono interrompere l’attività sono previsti sei mesi di maternità, ma non bastano», sottolinea Nuti. Che ricorda come, in ogni caso, «chi svolge attività di ricerca non riesce mai a staccare completamente». Con il risultato che tante giovani ricercatrici-madri subiscono il «forte stress» di dover portare avanti, in parallelo, la cura del neonato e l’attività universitaria.

«Nella ricerca – ribadisce la rettrice – si è sempre coinvolti. Per questo dico che sarebbe necessarioSantAnna Ricerca Scientifica prevedere più tempo per le donne che diventano madri. Una misura che, favorendo la famiglia, farebbe bene non soltanto alle donne, ma a tutto il Paese».

Il “messaggio” arriva anche da tanti giovani ricercatori uomini. L’ultima indagine sul “Clima organizzativo (lavorativo)”, realizzata la scorsa estate tra il personale del Sant’Anna, ha visto uomini e donne dare il medesimo giudizio sulle misure prese dall’ateneo per favorire la conciliazione famiglia–lavoro. «Il “voto” non è stato molto positivo e su questo fronte dobbiamo ancora migliorare – ammette Nuti –. Però, il fatto che donne e uomini abbiano dato quasi la medesima rilevanza alla conciliazione, ci fa dire che questo è un tema che sta a cuore non soltanto alle donne, ma alle giovani famiglie in generale». Da qui la decisione della Scuola Sant’Anna di potenziare lo smart work, il lavoro da casa, una scelta che, conferma la rettrice, «ha avuto grande successo, anche sulla produttività. Perché persone più serene e soddisfatte lavorano meglio».

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LA STORIA

Per aver dedicato energie alla famiglia e ai figli, le carriere da ricercatrici di mogli e madri subiscono ancora troppe penalizzazioni I rimedi? Nuovi criteri per misurare i tempi di lavoro e smart working per tutti «Merito e talento non hanno genere, ma molto resta da fare: tra i docenti il personale femminile è in netta minoranza»

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- 8 maggio 2014

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