Elogio dell’incompiutezza - In viaggio dalla Toscana a Milano
«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande»
Di notte, Renzo e Lucia, i protagonisti de I Promessi Sposi, si trovano insieme su una barca che li porta lontano dal luogo in cui sono nati, per sottrarsi ad un destino avverso, nella fattispecie, il malvagio e spregiudicato don Rodrigo che mira proprio ad avere la mano di Lucia, appena una fanciulla, sopraffatta, ma non del tutto, dallo sconforto, che non le impedisce di esprimere una vera e propria ode ai luoghi che le sono cari, cui si abbandona completamente, poggiando il braccio e la fronte sul bordo della barca, vivendo profondamente il timore di non vedere mai più quei luoghi.
Un passo di un lirismo altissimo, una prosa in poesia, in una circolare perfetta ambiguità che ha addirittura portato alcuni commentatori ad individuare alcune porzioni del testo articolate in decasillabo ed endecasillabi.
E, probabilmente l’ambiguità è proprio l’essenza dell'opera d’arte, in tal modo l’antitesi della banalità intesa come univocità di messaggio scambiato tra chi realizza e chi osserva, tra chi esprime e chi ascolta. Il contenuto dell’opera d’arte struttura la relazione tra l’artista e gli altri proprio per la molteplicità, tendenzialmente inesauribile, di senso e di significati che l’opera esprime.
E, in questo quadro si colloca l'incompiutezza, laddove l’opera è tale proprio in quanto non conclusa, come i Prigioni, le sei statue realizzate per la tomba di Giulio II, dell’aretino Michelangelo Buonarroti, quattro dei quali, vistosamente "non – finiti", conservate alla Galleria dell’Accademia a Firenze, i quattro schiavi, il Giovane, il Bruto, quello che si ridesta e quello detto Atlante.
Come anche incompiuta è la Madonna Benois di Leonardo, realizzata a soli ventisei anni dal gigantesco artista vinciano in coincidenza con l’abbandono della bottega del Verrocchio, ove era rimasto circa dieci anni: un piccolo (ma solo di dimensioni, misurando cm 48 per 37) capolavoro, oggi conservato al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, peraltro, per qualche giorno in Italia, precisamente nelle Marche, a Fabriano. Il dipinto è, appunto, incompiuto, nel vano della finestra, che l'Autore lascia priva proprio di uno fra i contenuti che, nel prosieguo della sua esperienza artistica, connoterà massimamente la sua opera ossia il paesaggio sullo sfondo della narrazione. Qui non c’è: le due imposte, disegnate da Leonardo in perfetta prospettiva, spalancate, lasciano che la luce filtri sotto lo sportello di destra in modo di rivelare la profondità del vano, dal davanzale sino al gradino di accesso e a un tratto del pavimento. Eppure l’Autore presta una grande attenzione al un particolare architettonico di una finestra spalancata, facendo pensare a come essa possa alludere all’intatta verginità di Maria. Primo piano illuminato da una luce frontale, non se ne conosce la fonte, contro un fondo scuro in cui s’introduce una luce lontana. Gioco di ombre, proprio di una pervasiva ambiguità di espressione che coinvolge lo spettatore, il quale proprio in questa relazione, esclusa dall’oggetto banale e, perciò uguale per tutti, fa l’esperienza dell’opera d’arte che parla a lui come a nessun altro. Qui lo spettatore ha letteralmente modo di accompagnarsi a Leonardo che rompe con la tradizione permettendogli di immedesimarsi nei sentimenti di Maria, peraltro come realmente doveva essere, giovanissima, rapportata a come doveva apparire allora una donna in età da matrimonio, rispetto ad oggi poco più che adolescente, in un setting volutamente liberato, dal genio di Vinci, da tutto ciò che avrebbe ostacolato la presenza dell’immagine di una mamma intenta a giocare con il suo bambino, di un gioco che la diverte in modo evidente, fino ad una condizione di gioioso abbandono.
Incompiuta è, infine, anche l'opera dello stesso Michelangelo, che si trova a Milano, dal 02 maggio 2015 nel nuovo museo, allestito nell'antico Ospedale Spagnolo nel Cortile delle Armi del Castello sforzesco, nella quale, ancora la Madre e il Figlio sono colti nel momento opposto, nel quale invece si compie l'itinerario della loro storia terrena, la Pietà Rondanini (acquistata dai marchesi Rondanini, da cui il nome attuale, che la collocarono in una nicchia della biblioteca di Palazzo Rondanini a Roma in del Corso), realizzata quando era al suo epilogo anche l’itinerario di vita di Michelangelo, il quale fonde inestricabilmente i due soggetti dell’opera, entro una circolarità creativa mossa da un dinamismo che è quasi un moto perpetuo per lo sguardo dello spettatore che con esso si relaziona, pur nella sua fisica immobilità: dal corpo di Maria l’artista ha ricavato la figura di Cristo, mentre dalla spalla sinistra e dal petto del corpo di Cristo ha formato un nuovo corpo per Maria.
Ancor più curioso è il fatto che dall'incompiutezza, anche laddove non voluta, Leonardo sia stato come inseguito, anche nell’opera tra le più grandi di tutta l’arte rinascimentale, il Cenacolo collocato nell'ex – refettorio rinascimentale del convento adiacente al Santuario di Santa Maria delle Grazie, sempre a Milano. Appena conclusa, infatti, l’opera comincia a deteriorarsi, causa la tecnica utilizzata, ossia l’affresco, una tecnica incompatibile con le caratteristiche dell’ambiente di realizzazione ossia con l'umidità della parete retrostante, esposta a nord (il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa), confinante con le cucine del convento e sottoposta a frequenti sbalzi di temperatura oltre che, all’interno, agli effluvi ed ai vapori dei cibi durante i pasti. Il Cenacolo è ancora oggi un cantiere permanentemente aperto per recuperare e mantenere in vita un’opera che in pochi decenni si era ridotta, già nel maggio del 1566, ossia meno di dieci anni dopo la sua realizzazione, in condizioni tali che il Vasari descriveva quasi rassegnato al fatto che «non si scorge più se non una macchia abbagliata».
Alessandro (Francesco Tommaso Antonio) Manzoni, milanese purosangue, vissuto oltre due secoli dopo Leonardo e autore di quel romanzo senza idillio, come lo ebbe a definire Ezio Raimondi nel suo omonimo saggio sull’opera di Manzoni che, appunto, non ha mai assunto le sembianze di un (εἰδύλλιον, diminutivo di εἶδος = immagine, e quindi quadretto o bozzetto) quadretto georgico, di solito improntato a un'incantata serenità, ben lontano dall'ideale di una vita luminosamente equilibrata e tranquilla, si è mosso nella complessa e variegata dinamica delle sie forme narrative (come appunto nell’Addio ai Monti) in un ricerca continua che vive proprio in quella relazione artistica tra il narratore ed il lettore (al quale direttamente si rivolge al capitolo: «Pensino ora i miei venticinque lettori...»): un romanzo storico, certo, ma entro la viva trama del potere, della distruzione, dell’annientamento di intere popolazioni con la peste del ‘600 in cui è ambientato, nel difficile codice del realismo utilizzato per la narrazione che attraversa il complesso intreccio delle relazioni sociali che strutturano il flusso della narrazione stessa e dei suoi consequenziali passaggi, in un romanzo che nella sua ampia struttura cattura il lettore in un gioco prospettico nel quale è precaria ogni certezza.
Osservando tutto questo in un viaggio dalla Toscana alla Lombardia abbiamo incontrato un vino che ha accompagnato questi percorsi d’arte e storia.
Non si può certamente pensare di accostare direttamente un vino ad un'opera d’arte e non perché un ottimo vino non possa anche arrivare ad esserlo, nel suo campo, bensì proprio perché un accostamento richiede un dialogo, una relazione, una condivisione di registro espressivo. Allora un dialogo lo si può stabilire con la narrazione di tutte queste opere, accomunate dal pregio dell'incompiutezza che è cifra costantemente generativa della creatività in esse eternamente impressa.
Il gusto di questa narrazione può essere condiviso con un Nebbiolo che arriva alla regione più piccola, nella grande terra lombarda, precisamente nella zona più impervia, quella di Chiuro (Ciǜür in dialetto valtellinese), un comune di appena 2.545 abitanti che, nella provincia di Sondrio ospita le cantine della Nino Negri S.p.A., ove si produce il Valtellina Superiore Inferno DOCG “Carlo Negri” di Nino Negri, un vino rosso ottenuto dalla selezione di sole uve chiavennasca: nasce da vigneti di chiavennasca (nebbiolo) dalla ripida pendenza e dall’elevata temperatura estiva e per questo ha preso il nome Inferno. Nonostante queste premesse raggiunge un sapore morbido e rotondo anche se di grande personalità, ed esprime un profumo in cvui dominano note di spezie dal gusto amaro (chiodi di garofano, cannella) e di fiori come la rosa e la viola appassite. Le cantine di Chiuro lo fanno arrivare nei nostri calici dopo averlo lasciato invecchiare per il 50% in grandi botti di rovere e per il restante 50% in barrique, con la possibilità che anche Inferno di Carlo Nigro possa completarsi, nel tempo, mentre gustiamo il racconto dell’arte e della bellezza, infinita, donata a tutti noi che vi partecipiamo proprio nella misura in cui essa resta incompiuta.