Gustare il vino e…. la parola … in prosa e nella poesia.
«Quando l’animo di chi ascolta oppone resistenza, dice Demostene 1, la forza di chi parla si infrange; il retore [in questo caso] parla correttamente e in maniera degna del suo impegno, infatti capita che di fronte ad ascoltatori inetti la potenza del discorso risulti sterile e che pronunciarne uno totalmente straordinario sia cosa inutile e vana»
Michele Psello, Encomio del Vino.
Michele Costantino Psello (Μιχαήλ Ψελλός, Costantinopoli 1018 / 1096). Filosofo, scrittore e storico bizantino.
La modernità delle radici nella qualità e nel gusto, come il dialetto in poesia
Caro Padre, sono molto lieto di annunciarVi che finalmente, dopo tanti sacrifici, abbiamo avuto la soddisfazione che meritavamo.
Il nostro buon vino, fatto con grande amore ed esperienza, da oggi sarà consegnato in tutto il Regno;desidero inoltre portarVi a conoscenza che a giorni partirà un carro carico del nostro vino per le lontano terre della Savoia e del Granducato di Toscana.
Voi soltanto potete comprendere il nostro stato d’animo e il nostro orgoglio nel fare tutto ciò. PensandoVi sempre, un forte abbraccio.
Vostro figlio Camillo
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Lettera di Camillo Di Carlo al padre - Crecchio, 13 Dicembre 1830
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Esattamente centosettanta anni fa', di figlio in padre, si potrebbe dire, rovesciandosi la naturale gerarchia intergenerazionale, generalmente solidissima, specie quando si declini nell'attività di impresa radicandosi nel territorio.
Scoprire, anzi, ritrovare questa lettera è stato un caso, quasi uno scherzo, il 13 dicembre 2020, gustando un Montepulciano d'Abruzzo DOC, nel suo rosso rubino e le sue lievi sfumature violacee, che avevo intuito mentre lo guardavo prendere morbida forma al momento in cui lo avevo lasciato scivolare nel calice; non aveva per nulla tradito le attese con i suoi profumi di frutti rossi, come la mora, forse già matura, il gelso, che lasciava immaginare l'umido e cromatico sottobosco di questo periodo dell'anno, persistente nei sentori di visciola e maraschino, e spezie.
Il caso o uno scherzo si diceva, visto che a farmi incuriosire sull'azienda, che ha pubblicato la lettera, è stato il nome di questo Montepulciano d'Abruzzo, Dharma, particolarissimo termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia Minore esprime significati molteplici, quali Dovere, Legge, cosmica e naturale. Non è stato certo un così alto riscontro etimologico agganciato alla storia delle religioni, la fonte della scoperta di un modesto amante del vino, bensì proprio quell'etichetta, storta. Quelli della mia generazione hanno conosciuto la martellante pubblicità televisiva di una bottiglia di rinomata marca di whisky scozzese prodotta nella piccola città di Kilmarnock, il Johnnie Walker, la marca di whisky più venduta al mondo con oltre 100 milioni di bottiglie all'anno, bottiglie tutte con un regolarissimo difetto, l'etichetta storta, appunto, proprio come quella presentata dal Dharma.
Così ho scoperto la Agriverde, a Caldari di Ortona (Chieti), ove però il vino biologico è tutt'altro che irregolare, visto che, con la certificazione I.C.E.A. nel 1991, Agriverde ha abbracciato una produzione vitivinicola sostenibile e salubre, ben prima che tutto questo diventasse anche il business che oggi interessa anche nella grande distribuzione i prodotti biologici.
Nel 1988 i 65 ettari di proprietà della famiglia Di Carlo venivano convertiti al regime biologico, adottando tecniche raffinate ed efficaci, quale quella che, attraverso gli azoto - fissatori (tubercoli - radicali micorizzati sull’apparato radicale), fissa l’azoto atmosferico nel suolo evitando il ricorso a fertilizzanti chimici di sintesi. I vigneti sono fertilizzati ricorrendo alghe ed acidi umici e – nei processi di chiarifica – senza utilizzo di Albumina né Caseina (sostanze derivanti dalle uova e dal latte ed incompatibili con la produzione bio vegana).
Un radicalità, insomma, storica e insieme contemporanea, un po' come il dialetto.
Allora, mentre gustiamo questo vino che, rammentandoci il sottobosco, ci accompagna nell'ancora lunga attesa del bella stagione, buon compleanno con i versi, in dialetto, di Vittorio Clemente (Bugnara 1895 – Roma 1975), abruzzese nato nel secolo in cui Agriverde era già diventata un agrande azienda,
Lu paisitte mö
Ammónde pe lla costte stta agguattate
lu pajisitte mö (1) tra gli vignéte;
n’atre cchiù bbiéglie (2) ji ne nn-hai trevate (3)
gerenne pe sttu múnne annanze i arréte.
Tra le vérde (4) de vigne i dd’ulivéte
s’affacce a uardà abballe alla vallate
ddó lu fiume se fa tande candate
tra ddu file de piúoppe (5) i dde cannéte.
Cande lu Seggettarie (6) frésche i cchiare
i lle uagliune càndene d’amore
mmezZe alla jerve nfiore de lu prate.
Lu pajisitte mö è bbiéglie (7) i ccare:
ce stta mamma, la casa, lu mio core;
lu cchiù bbiéglie è dde tutta la vallata.
Da Tiémbe de sole e fiure
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Il paesetto mio.
Ammonte per la costa sta agguattato / il paesetto mio di tra i vigneti; /uno più bello non ne ho mai trovato / in giro per il mondo avanti e dietro. // Tra il verde delle vigne e degli ulivi / s’affaccia a guardar giù per la vallata / dove il fiume si fa tante cantate / tra due file di pioppi e di canneti. // Il Sagittario canta, fresco e chiaro, / e le fanciulle cantano d’amore / in mezzo all’erba in fiore delle prata. // Il paesetto mio è bello e caro: / ci sta mamma, la casa ed il mio amore; / il più bello è di tutta la vallata. // (Trad. di Ottaviano Giannangeli)
Nell’originale: 1. mi’; 2. bielle; 3. truvate; 4. lu verde; 5. pioppe; 6. Saggittarie; 7. belle.
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Buon compleanno, allora, e, soprattutto, buon vino!
Elogio dell’incompiutezza - In viaggio dalla Toscana a Milano
«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande»
Di notte, Renzo e Lucia, i protagonisti de I Promessi Sposi, si trovano insieme su una barca che li porta lontano dal luogo in cui sono nati, per sottrarsi ad un destino avverso, nella fattispecie, il malvagio e spregiudicato don Rodrigo che mira proprio ad avere la mano di Lucia, appena una fanciulla, sopraffatta, ma non del tutto, dallo sconforto, che non le impedisce di esprimere una vera e propria ode ai luoghi che le sono cari, cui si abbandona completamente, poggiando il braccio e la fronte sul bordo della barca, vivendo profondamente il timore di non vedere mai più quei luoghi.
Un passo di un lirismo altissimo, una prosa in poesia, in una circolare perfetta ambiguità che ha addirittura portato alcuni commentatori ad individuare alcune porzioni del testo articolate in decasillabo ed endecasillabi.
E, probabilmente l’ambiguità è proprio l’essenza dell'opera d’arte, in tal modo l’antitesi della banalità intesa come univocità di messaggio scambiato tra chi realizza e chi osserva, tra chi esprime e chi ascolta. Il contenuto dell’opera d’arte struttura la relazione tra l’artista e gli altri proprio per la molteplicità, tendenzialmente inesauribile, di senso e di significati che l’opera esprime.
E, in questo quadro si colloca l'incompiutezza, laddove l’opera è tale proprio in quanto non conclusa, come i Prigioni, le sei statue realizzate per la tomba di Giulio II, dell’aretino Michelangelo Buonarroti, quattro dei quali, vistosamente "non – finiti", conservate alla Galleria dell’Accademia a Firenze, i quattro schiavi, il Giovane, il Bruto, quello che si ridesta e quello detto Atlante.
Come anche incompiuta è la Madonna Benois di Leonardo, realizzata a soli ventisei anni dal gigantesco artista vinciano in coincidenza con l’abbandono della bottega del Verrocchio, ove era rimasto circa dieci anni: un piccolo (ma solo di dimensioni, misurando cm 48 per 37) capolavoro, oggi conservato al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, peraltro, per qualche giorno in Italia, precisamente nelle Marche, a Fabriano. Il dipinto è, appunto, incompiuto, nel vano della finestra, che l'Autore lascia priva proprio di uno fra i contenuti che, nel prosieguo della sua esperienza artistica, connoterà massimamente la sua opera ossia il paesaggio sullo sfondo della narrazione. Qui non c’è: le due imposte, disegnate da Leonardo in perfetta prospettiva, spalancate, lasciano che la luce filtri sotto lo sportello di destra in modo di rivelare la profondità del vano, dal davanzale sino al gradino di accesso e a un tratto del pavimento. Eppure l’Autore presta una grande attenzione al un particolare architettonico di una finestra spalancata, facendo pensare a come essa possa alludere all’intatta verginità di Maria. Primo piano illuminato da una luce frontale, non se ne conosce la fonte, contro un fondo scuro in cui s’introduce una luce lontana. Gioco di ombre, proprio di una pervasiva ambiguità di espressione che coinvolge lo spettatore, il quale proprio in questa relazione, esclusa dall’oggetto banale e, perciò uguale per tutti, fa l’esperienza dell’opera d’arte che parla a lui come a nessun altro. Qui lo spettatore ha letteralmente modo di accompagnarsi a Leonardo che rompe con la tradizione permettendogli di immedesimarsi nei sentimenti di Maria, peraltro come realmente doveva essere, giovanissima, rapportata a come doveva apparire allora una donna in età da matrimonio, rispetto ad oggi poco più che adolescente, in un setting volutamente liberato, dal genio di Vinci, da tutto ciò che avrebbe ostacolato la presenza dell’immagine di una mamma intenta a giocare con il suo bambino, di un gioco che la diverte in modo evidente, fino ad una condizione di gioioso abbandono.
Incompiuta è, infine, anche l'opera dello stesso Michelangelo, che si trova a Milano, dal 02 maggio 2015 nel nuovo museo, allestito nell'antico Ospedale Spagnolo nel Cortile delle Armi del Castello sforzesco, nella quale, ancora la Madre e il Figlio sono colti nel momento opposto, nel quale invece si compie l'itinerario della loro storia terrena, la Pietà Rondanini (acquistata dai marchesi Rondanini, da cui il nome attuale, che la collocarono in una nicchia della biblioteca di Palazzo Rondanini a Roma in del Corso), realizzata quando era al suo epilogo anche l’itinerario di vita di Michelangelo, il quale fonde inestricabilmente i due soggetti dell’opera, entro una circolarità creativa mossa da un dinamismo che è quasi un moto perpetuo per lo sguardo dello spettatore che con esso si relaziona, pur nella sua fisica immobilità: dal corpo di Maria l’artista ha ricavato la figura di Cristo, mentre dalla spalla sinistra e dal petto del corpo di Cristo ha formato un nuovo corpo per Maria.
Ancor più curioso è il fatto che dall'incompiutezza, anche laddove non voluta, Leonardo sia stato come inseguito, anche nell’opera tra le più grandi di tutta l’arte rinascimentale, il Cenacolo collocato nell'ex – refettorio rinascimentale del convento adiacente al Santuario di Santa Maria delle Grazie, sempre a Milano. Appena conclusa, infatti, l’opera comincia a deteriorarsi, causa la tecnica utilizzata, ossia l’affresco, una tecnica incompatibile con le caratteristiche dell’ambiente di realizzazione ossia con l'umidità della parete retrostante, esposta a nord (il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa), confinante con le cucine del convento e sottoposta a frequenti sbalzi di temperatura oltre che, all’interno, agli effluvi ed ai vapori dei cibi durante i pasti. Il Cenacolo è ancora oggi un cantiere permanentemente aperto per recuperare e mantenere in vita un’opera che in pochi decenni si era ridotta, già nel maggio del 1566, ossia meno di dieci anni dopo la sua realizzazione, in condizioni tali che il Vasari descriveva quasi rassegnato al fatto che «non si scorge più se non una macchia abbagliata».
Alessandro (Francesco Tommaso Antonio) Manzoni, milanese purosangue, vissuto oltre due secoli dopo Leonardo e autore di quel romanzo senza idillio, come lo ebbe a definire Ezio Raimondi nel suo omonimo saggio sull’opera di Manzoni che, appunto, non ha mai assunto le sembianze di un (εἰδύλλιον, diminutivo di εἶδος = immagine, e quindi quadretto o bozzetto) quadretto georgico, di solito improntato a un'incantata serenità, ben lontano dall'ideale di una vita luminosamente equilibrata e tranquilla, si è mosso nella complessa e variegata dinamica delle sie forme narrative (come appunto nell’Addio ai Monti) in un ricerca continua che vive proprio in quella relazione artistica tra il narratore ed il lettore (al quale direttamente si rivolge al capitolo: «Pensino ora i miei venticinque lettori...»): un romanzo storico, certo, ma entro la viva trama del potere, della distruzione, dell’annientamento di intere popolazioni con la peste del ‘600 in cui è ambientato, nel difficile codice del realismo utilizzato per la narrazione che attraversa il complesso intreccio delle relazioni sociali che strutturano il flusso della narrazione stessa e dei suoi consequenziali passaggi, in un romanzo che nella sua ampia struttura cattura il lettore in un gioco prospettico nel quale è precaria ogni certezza.
Osservando tutto questo in un viaggio dalla Toscana alla Lombardia abbiamo incontrato un vino che ha accompagnato questi percorsi d’arte e storia.
Non si può certamente pensare di accostare direttamente un vino ad un'opera d’arte e non perché un ottimo vino non possa anche arrivare ad esserlo, nel suo campo, bensì proprio perché un accostamento richiede un dialogo, una relazione, una condivisione di registro espressivo. Allora un dialogo lo si può stabilire con la narrazione di tutte queste opere, accomunate dal pregio dell'incompiutezza che è cifra costantemente generativa della creatività in esse eternamente impressa.
Il gusto di questa narrazione può essere condiviso con un Nebbiolo che arriva alla regione più piccola, nella grande terra lombarda, precisamente nella zona più impervia, quella di Chiuro (Ciǜür in dialetto valtellinese), un comune di appena 2.545 abitanti che, nella provincia di Sondrio ospita le cantine della Nino Negri S.p.A., ove si produce il Valtellina Superiore Inferno DOCG “Carlo Negri” di Nino Negri, un vino rosso ottenuto dalla selezione di sole uve chiavennasca: nasce da vigneti di chiavennasca (nebbiolo) dalla ripida pendenza e dall’elevata temperatura estiva e per questo ha preso il nome Inferno. Nonostante queste premesse raggiunge un sapore morbido e rotondo anche se di grande personalità, ed esprime un profumo in cvui dominano note di spezie dal gusto amaro (chiodi di garofano, cannella) e di fiori come la rosa e la viola appassite. Le cantine di Chiuro lo fanno arrivare nei nostri calici dopo averlo lasciato invecchiare per il 50% in grandi botti di rovere e per il restante 50% in barrique, con la possibilità che anche Inferno di Carlo Nigro possa completarsi, nel tempo, mentre gustiamo il racconto dell’arte e della bellezza, infinita, donata a tutti noi che vi partecipiamo proprio nella misura in cui essa resta incompiuta.
Vino Barbera bio - Tre Secoli
La Cantina Tre Secoli nasce dalla fusione fra due cooperative vitivinicole: la Cantina Sociale di Mombaruzzo, sorta nel 1887 e la Cantina Sociale di Ricaldone, più recente e, comunque, con sessant’anni di storia.
I numeri non sono da poco: più di 450 soci conferitori, oltre 1200 ettari vitati di cui 440 coltivati a moscato, 340 a barbera e 160 a brachetto, che fanno della Cantina Tre Secoli il primo trasformatore di uve di proprietà della regione Piemonte; infine: last ma, ovviamente, not least, la cantina ha oltre 180.000 ettolitri di capienza per una produzione di che al 90% è DOC e DOCG.
Siamo nell’alto Monferrato tra i bacini dei fiumi Belbo e Bormida. In quella zona le piogge modeste e clima temperato custodiscono l’alveo di coltura della vigna, che affonda le sue radici in terreni formatisi da depositi marini dell’Era Terziaria, ricchi di limo e di carbonati ed il cui drenaggio è affidato alla pendenza sulla quale i vigneti docilmente si arrampicano sino a 450 metri sul livello del mare.
Accanto al fuoco di questo piovoso inverno («Chi, là dove la Bormida si getta nel Tanaro, arriva per la prima volta ad Alessandria, capitale di una delle sei province piemontesi, non è nemmeno sfiorato dal pensiero di Alessandria d’Egitto» Mario Soldati, I nuovi Racconti del Maresciallo), stasera stappiamo il Larame, Barbera d’Asti DOCG 2017, 100% barbera, a coltivazione biologica, ottenuta mediante lo stretto utilizzo di antiparassitari di origine naturale a base di rame, zolfo e pireto. Il colore, rosso rubino, lascia trasparire riflessi viola e porpora con sentori di mora e prugna. Al palato una buona struttura ed una, piacevole e sensibile, persistenza. Fermentato in acciaio inox a temperatura controllata, presenta una gradazione robusta a 13,50%
Lo abbiniamo alle parole di un grande narratore piemontese doc, Mario Soldati, autore de I Nuovi Racconti del Maresciallo: protagonista, Gigi Arnaudi, maresciallo, appunto, che, nell’omonimo sceneggiato diretto da Mario Soldati Stesso nel 1968, era intepretato da un gigante del teatro come Arnoldo Foà impegnato in cinque diversi episodi che mettono in evidenza tutta la vivace intelligenza applicata alle indagini ed al dovere dell'inquirente sempre pervaso da una non comune umanità («io credo che lei abbia commesso un grande errore, Comandante. Voglio dire, quando l'ha baciata. Nello stato d'animo in cui era, sua moglie si deve essere sentita come l'ultima delle donne. (....) Mah! Il cuore degli uomni lo vede solo Iddio.» In loving Memory – 2° dei cinque racconti).
Mentre gustiamo, forse, allo stordimento generato in questi ultimi mesi dalle note di Bohémien Rapsody e dalle immagini del film che la racconta, senz’altro emozionanti, riusciamo a riassaggiare l’equilibrio (che è anche la dote principale dei grandi vini) di una novella il cui titolo presenta un'accidentale e curiosa assonanza nel titolo Loving Memory, ma che inizia nella più riservata Nizza Monferrato dove «su quella stessa piazza, c'è un albergo, chiamato Da Italo, dove l'unica sala terrena, amplissima e luminosa, di un elegante liberty, non potrebbe mai essere scambiata per una trattoria né tanto meno un'osteria ma soltanto per un lussuoso ristorante parigino» – In loving Memory» e si svolge in Sicilia nei pressi di Taormina.
Gustiamo .....
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In foto: Mario Soldati a destra ed una veduta di Trecastagni (CT) in basso a sinistra
Petti Rosso Bio - Azienda Fausto Mansio
«Tutto il treno, insomma, scese, e il viaggio proseguì con le sole vetture vuote al sole, e io mi domandai perché non fossi sceso anch’io.»
«Avevo, ad ogni modo il biglietto per Siracusa, proseguii il viaggio nella vettura vuota, al sole, attraverso una pianura vuota.»
«Così fui solo e la campagna fu di rocce in riva al mare»
Elio Vittorini – Conversazione in Sicilia
La Fausta Mansio di Olaf Consiglio è un’azienda agricola, estesa su una proprietà di 10 ettari, coltivati biologicamente ad uliveto e vigneti; dislocata in Val d’Anapo nel siracusano, che deve la sua notorietà, in epoca antica, alla presenza del papiro.
L’azienda cura vigneti che sorgono su terreni collinari sui quali, a circa 50 metri sul livello del mare, vengono raggiunti dalla brezza marina che conferisce un pregio tutto particolare al moscato di Siracusa che in questa azienda, anche, viene prodotto: ma il pregio della pianta è dovuto principalmente alla struttura argillosa del terreno che, associato a temperature proprie di un clima particolarmente caldo, offre alla raccolta, nel mese di agosto, uve di particolare valore.
Qui si produce il Petti Rosso, il vino che, in prossimità del porto turistico di Siracusa, abbiamo
gustato in un locale sulla strada del mercato agroalimentare: un nero d’Avola, prodotto del vitigno autoctono siciliano a bacca nera, con un’origine incerta, anche se coltivato in Sicilia da moltissimi secoli e che reca oggi l’inconfondibile nome che lo riconduce ad Avola, appunto, in provincia di Siracusa.
Assaporiamo insieme la parte in cui il treno si ferma a Siracusa
Petti Rosso è un vino fermo e secco, prodotto in seimila bottiglie dalla Fausta Mansio, lo abbiamo gustato in viaggio, in una Siracusa calma e leggera, non ancora invasa dai turisti: e a Siracusa ci ha accompagnato nel gustare le pagine di un capolavoro della letteratura Italiana del Novecento, autore Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia: un romanzo il cui protagonista Silvestro Ferrauto, ricevuta la lettera in cui il padre gli comunica di avere lasciato la moglie per seguire un’altra donna, intraprende un viaggio alla volta della Sicilia, dove intende ritrovare sua madre. La serie di incontri, che costellano il lungo viaggio che parte dalla stazione di Bologna (all’epoca in treno; oggi neppure si prenderebbe in considerazione, preferendo un volo diretto a Fontana Rossa a Catania dopo un brevissimo viaggio dove le uniche persone a parlare con noi sarebbero hostess e steward), restituiscono una rappresentazione allegorica della realtà dell’uomo che, secondo la felice definizione di Sergio Patausso, rende Conversazione in Sicilia «una sorta di grande poema lirico con un taglio narrativo, con un susseguirsi di immagini e di situazioni simboliche che diventano uno specchio dove si rinfrange la desolata condizione umana».
- Avete una bella voce da baritono, voi.
Subito egli arrossì.
- Oh! - disse.
- Perché? Non lo sapevate? - dissi io.
- Oh, quanto a saperlo lo so, - egli disse, roso e contento.
E io dissi: - Naturalmente. Non potevate esser vissuto sinora senza saperlo. Peccato che vi siate impiegato al Catasto invece di cantare...
- Già, - egli disse. - Mi sarebbe piaciuto… Nel Falstaff, nel Rigoletto… Su tutti i palcoscenici d’Europa.
- O anche per le strade, che importa? Sempre meglio di fare l’impiegato, - dissi io.
- Oh, sì, forse… egli disse.
E tacque, un po’ sconcertato, e restò in silenzio, masticando, e dietro la curva della campagna di roccia apparve, contro il mare, la roccia del Duomo di Siracusa.
- Eccoci a Siracusa, - io dissi.
Egli mi guardò e sorrise.
- Così siete arrivato, - osservò.
Ci salutammo, il treno entrò in stazione.
[Da Conversazione in Sicilia, di Elio Vittorini]
E, a Siracusa, passeggiando attraverso quella «roccia del Duomo di Siracusa» citata da Elio Vittorini, abbiamo potuto incontrare «Il Seppellimento di santa Lucia, il dipinto di Caravaggio, conservato nella chiesa di S. Lucia alla Badia, appunto, in Piazza Duomo. Qui Caravaggio venne a trovarsi per motivi esattamente opposti a quelli che vi avevano portato Silvestrio Ferrauto, in quanto Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio nell’ottobre del 1608 vi giunse a seguito di una rocambolesca evasione dal carcere di Malta dove era rinchiuso per un omicidio che aveva commesso. Forse grazie ad un amico pittore messinese Mario Minniti, conosciuto a Roma nella bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli, a Siracusa ebbe la possibilità di lavorare a servizio del Senato siracusano, tenuto in considerazione dagli storici dell’arte tra i possibili committenti sull’individuazione dei quali ancora grava una generale incertezza. Caravaggio realizzò il quadro come pala per l'altare maggiore della Basilica di Santa Lucia al Sepolcro (o Fuori le Mura), ove secondo la tradizione avvennero il martirio e il seppellimento della Santa Patrona della città.
Apparentemente nulla sembrerebbe accomunare due viaggi così abissalmente diversi, ma, se guardiamo con attenzione, ci accorgiamo che sono entrambi scanditi dal peso della condizione che grava sui protagonisti: Ferrauto attraversa le molte vite dei suoi incontri mentre è in cammino per tornare ad orientarsi in una famiglia che è andata in frantumi dopo che l’ha lasciata a soli quindici anni, Caravaggio vive nell’ossessione della condanna alla quale tenta di sottrarsi.
Una rappresentazione della condizione umana che non sfugge all’occhio dell’artista, anche quando non viaggia, come nel caso di Emiliy Dickinson, che ci ricorda come non avremo vissuto invano quando avremo alleviato «il dolore di una vita» o guarito «una pena» o, appunto, aiutato, «un pettirosso caduto a rientrare nel nido».
EMILY DICKINSON
If I can stop one heart from breaking
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If I can stop one heart from breaking
If I can stop one Heart from breaking
I shall not live in vain
If I can ease one Life the Aching
Or cool one Pain
Or help one fainting Robin
Unto his Nest again
I shall not live in Vain
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Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
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Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano
Anche quando sono così semplici e trasparenti, i versi di Emily Dickinson riescono a far vibrare le corde più intime e profonde dell’anima. La sua è, tra l’altro, una testimonianza autentica perché la poetessa trascorre la quasi totalità della sua vita di cinquantasei anni (era nata nel 1830 e morirà nel 1886) nella sua stanza e nel giardino della casa paterna di Amherst nel Massachusets.
[Da Breviario dei nostri giorni, di Gianfranco Ravasi]
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