Gl'infiniti pensier mie d'error pieni

Gl'infiniti pensier mie d'error pieni

Gl'infiniti pensier mie d'error pieni, negli ultim'anni della vita mia, ristringer si dovrien 'n un sol che sia guida agli etterni suo giorni sereni.

Rime (Michelangelo)/286


 

 

 

Tuttomondo. Storia di una amicizia

Tuttomondo Keith Haring Tuttomondo 1989Piergiorgio Castellani, Keith Haring e il murale Tuttomondo. Storia di una amicizia

ABBIAMO SCOVATO, E INTERVISTATO, L’ALLORA GIOVANISSIMO STUDENTE TOSCANO CHE CONVINSE KEITH HARING A REALIZZARE IL CELEBRE MURALE A PISA. UNA STORIA DI AMICIZIA, OLTRE LE LOGICHE DEL MERCATO.

Una litania accompagnata da un suono ipnotico, il sankirtan invocato da un gruppo di hare krishna in una via di Manhattan, nel centro di New York, a bordo strada sul loro furgoncino. Una consuetudine in voga negli Anni Ottanta e che, nel 1987, catalizza l’attenzione di un giovane studente universitario di Pontedera, Piergiorgio Castellani, che respira per la prima volta il fascino della Grande Mela. Ha seguito suo padre in un viaggio di lavoro perché a 19 anni sente la sua vita oppressa dalla campagna pisana, vuole esplorare, assorbire il mondo e New York è la sua grande occasione, dai fumi che fuoriescono dai tombini a uno strambo concertino di origine indiana scovato casualmente passeggiando.
Piergiorgio non è il solo ad assistere quella esibizione, ci sono diverse persone tra cui un ragazzo magro, con occhiali tondi, un paio di jeans chiari e scarpe bianche, bianchissime. 
Keith Haring è lì di fianco, anche lui rapito dal mantra cantato. Seppur nella massima esposizione mediatica della sua carriera, non è così automatico riconoscerlo per un ragazzo che viene da una cittadina toscana di 30mila abitanti, ma Piergiorgio è appassionato di arte, di Pop Art, è abbonato alla rivista Interview di Andy Warhol, vede davanti a se un’icona e gli si avvicina con devozione: “Lo ‘aggredii’ subito, lo riempii di domande e lui mi ascoltava, avrebbe potuto salutarmi rapidamente, invece era a suo modo affascinato nel vedere un ragazzino italiano così preso” – racconta Piergiorgio Castellani che, oggi produttore vinicolo, a più di 30 anni di distanza ricorda ancora tutto nitidamente. “Allora lo provocai con tono scherzoso dicendogli che in Italia mancava una sua opera permanente, aveva lavorato a Milano per Fiorucci e poi a Roma, ma non c’era un lavoro davvero per tutti e di tutti e lui mi rispose: ‘domani vieni nel mio studio e ne parliamo”.

 

UN INCONTRO FORTUITO

Tuttomondo 01 Piergiorgio CastellaniTuttomondo, l’ultimo murale di Keith Haring, realizzato a Pisa nell’estate del 1989, esattamente 30 anni fa, nasce così. Da un fortuito incontro, o se volete da una provvidenziale coincidenza che l’artista, celebre per i suoi “radiant boy”, seppe cogliere introspettivamente: “Iniziò a parlarmi della sua arte ma anche della sua persona, io avvertivo questa sua necessità di liberarsi dalla pressione dell’establishment e dallo stesso mondo dell’arte, era un artista quotato al punto che ricordo un aneddoto: in una galleria di New York c’era un albero di Natale decorato con ritagli dei suoi personaggi fatti da lui stesso. Erano semplicemente di cartone ma venivano venduti per migliaia di dollari. Lui, però, era introverso, aveva altre esigenze”.
In Piergiorgio Keith vede una via di fuga, il punto quanto più estraneo da quella scena “imbellettata”. S
tava perdendo tutti i suoi punti di riferimento: Andy Warhol era morto all’inizio del 1987, l’anno dopo perderà anche il suo grande amico Jean-Michel Basquiat, è rimasto solo e su di lui si concentra tutta la pressione del mercato. Poco più che trentenne, Keith è al centro della scena pop, conteso da grandi galleristi come Tony Shafrazi e Leo Castelli, prodotto di merchandising e di brand, con gli occhi della musica e della comunicazione addosso, ma lui, che era nato in Tuttomondo 02 Piergiorgio Castellani e Keith HaringPennsylvania, in un contesto “protetto” e genuino, manteneva un sincero interesse per le cose semplici.
Ecco, esattamente in quel momento aveva deciso di usare il suo tempo facendo cose diverse da quelle imposte, un tempo ancora più prezioso e veloce per chi è malato di Aids: “
Mi diceva di aspettare, che terminate alcune commissioni si sarebbe concentrato solo sulla nostra opera, era come se dipingesse per galleristi e collezionisti giusto per mantenere il suo nome in alto e per non deludere le aspettative, però poi le sue energie, il suo entusiasmo, tutto lui stesso lo voleva mettere su questo progetto che gli consentiva di fuggire da questa grande città che tanto gli aveva dato, ma tanto lo aveva assorbito e spremuto e prossima a girargli le spalle”.
Per tutto il 1988, Piergiorgio e Keith si sentono, si vedono spesso, il ragazzo lo raggiunge più volte nel suo studio o anche a Chicago, mentre è impegnato nella realizzazione di un grande lavoro. Tuttomondo sarebbe dovuto nascere a Firenze, ma la soluzione non li convinceva perché l’amministrazione comunale avrebbe concesso solo qualche facciata di palazzi periferici; loro invece volevano stare al centro delle persone, realizzare una performance live in grado di dialogare con il territorio e modellata su misura del territorio stesso, ricollegandosi con la tradizione artistica italiana. Keith, infatti, ha in mente di realizzare addirittura un affresco, è convinto di farcela, ma Piergiorgio lo stoppa sapendo che i tempi si sarebbero allungati per oltre la settimana di permesso. Si presenta così Pisa, l’allora sindaco Giacomino Granchie l’assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura, Lorenzo Bani, si attivano per rintracciare una parete che rispondesse alle esigenze di spazi senza porte e senza finestre e in una zona fruibile da quante più persone possibili.  Con 180 metri quadrati, 10 in lunghezza e 18 d’altezza, la parete ideale è quella posteriore del Convento dei Frati Servi di Maria, dietro alla chiesa di Sant’Antonio Abate, che dà sulla stazione degli autobus extraurbani. Strappano un incredibile sì, la sera precedente l’inizio dei lavori Keith decide di passarla nel refettorio con i frati: un artista di rottura, che non nascondeva la sua omosessualità, critico e duro verso la religione, a banchettare con un gruppo di frati. Una congiunzione quasi mistica.

KEITH HARING A PISA

Tuttomondo 04 Piergiorgio Castellani e Keith Haring a Pisa nel 1989Keith Haring annota nei suoi diari l’irrequietezza e l’ansia, mentre aspetta all’aeroporto di Milano l’aereo che l’avrebbe portato a Pisa. Ha in mente solo qualche idea che poi si tramuta in schizzi nei giorni successivi quando visita la città, osserva, si lascia prendere. L’azienda di vernici Caparol Center di Vicopisano ridipinge di bianco tutta la superficie e dona all’artista e al progetto tutta la pittura necessaria alla realizzazione dell’opera. Le “notti magiche” che raccontano l’estate italiana così nostalgica, effervescente e illusa, le scopriremo solo con i Mondiali di Italia 90’, ma quei giorni e quelle sere di giugno è uno sprigionarsi continuo di emozioni e di sentimenti: Haring coinvolge la comunità, è un catalizzatore per gli “street kids” della cultura underground e suburbana, la sua stessa matrice graffistista che nelle viscere non ha mai abbandonato. Nei quattro giorni intensi, con un ghettoblaster sempre acceso, si affacciano b-boys pisani e poi delle altre regioni, breakdancer, poi ancora passanti, galleristi, esperti di arte o semplici ammiratori. Si fa aiutare da alcuni ragazzi, tutto il mondo è ai suoi piedi, lui che non ha mai dato un titolo alle sue opere, durante un’intervista si fa sfuggire una frase: “Nemmeno questo dipinto ne ha uno, ma se dovesse avere un titolo sarebbe qualcosa come Tuttomondo!”.
Si sentiva protetto da questa grande tradizione e dalla sincerità di chi lo aveva accolto a braccia aperte” – confida ancora Piergiorgio Castellani – “addirittura senza chiedergli di presentare un bozzetto preliminare del murale che avrebbe realizzato in un centro storico protetto da vincoli burocratici. Lui che veniva anche arrestato per le sue performance pubbliche, a Pisa è stato accolto nel cuore della tradizione cattolica che tanto ha dato alla storia dell’arte, una piccola città sede di una delle più antiche università europee, fiduciosa che quell’opera avrebbe reso la realtà un luogo migliore in cui vivere e arricchirsi culturalmente. Sapeva che la malattia lo stava rapidamente uccidendo, mi chiese di realizzare una festa finale invitando tutte le persone che avevano assistito alla realizzazione dell’opera e anche di chiamare i suoi amici all’estero”.

 

IL MURALE TUTTOMONDO

In una ritmata vitalità e forza, trenta figure si toccano l’un l’altra: è l’energia genitrice del mondo, è la pace e l’armonia. Dalla Croce pisana, al centro del murale, al legame indissolubile dell’uomo con la natura, e ancora due uomini, fusi assieme, che formano un paio di forbici ‒rappresentazione del bene ‒ che taglia a metà un serpente, il male; una donna che tiene in grembo il suo bimbo, fino all’irrefrenabile gioia che accomuna tutti nella danza. È la cornice esperienziale dell’artista, del suo vissuto, che spiega Tuttomondo e i suoi numerosi perché. Ancora sul suo diario annota: “Sto seduto sul balcone a guardare la cima della Torre Pendente. È davvero molto bello qui. Se c’è un paradiso, spero che assomigli a questo”.
Piergiorgio, è stato un sogno, adesso devo ritornare alla realtà”, gli disse con le valigie ormai chiuse e un biglietto in mano per New York. Una realtà fatta di appuntamenti, di galleristi, di personaggi sinistri che lo volevano circuire per commissionargli qualche lavoro, sapendo che stava morendo, e che quelle stesse opere avrebbero avuto un altro e alto valore economico. Prima di andarsene da Pisa, Keith investe Piergiorgio di un ultimo grande compito, la realizzazione di un’immensa retrospettiva partendo dal palazzo Lanfranchi di Pisa per poi andare a Roma, Parigi, -Tokyo e chiudere a New York.

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Da _______________ https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2019/12/piergiorgio-castellani-keith-haring-murale-tuttomondo-pisa/

LUCA, scriba e pittore dell’annuncio

San Luca Dipinge La VergineTerzo Vangelo. Opera di un autore molto raffinato, presenta pagine che sembrano tratteggiate con il pennello e hanno ispirato arte e cultura nei secoli

Gianfranco Ravasi

 

 

 

 

 

Parecchi anni fa ero in visita a Boston e in programma avevo anche una tappa al Museum of Fine Arts. Curiosamente mi attrasse allora un quadro di un fiammingo del Quattrocento, Rogier van der Weyden, a causa dell’originalità del soggetto. Al centro c’era una modella molto particolare, Maria che stava allattando il neonato Gesù; in primo piano un pittore impugnava il pennello e sulla tela ritraeva la madre in posa. Ovviamente quell’artista era l’evangelista Luca a cui la tradizione leggendaria ha assegnato - oltre a quella reale di medico (attestata da san Paolo nella Lettera ai Colossesi 4,14) - la professione di pittore, tanto da attribuirgli alcune Madonne nere posteriori di secoli.

Abbiamo voluto evocare l’autore del più ampio dei quattro Vangeli (19.404 parole greche) e di una seconda opera, gli Atti degli Apostoli (18.374 parole), entrambi dedicati a un certo «Sua Eccellenza Teofilo», perché i fedeli praticanti sanno che quest’anno, assistendo alla Messa, sentiranno proclamare quasi ogni domenica un brano del terzo Vangelo. Sarebbe, però, significativo che anche i non credenti prendessero in mano questo scritto frutto di «accurate ricerche» testimoniali come confessa lo stesso Luca, uno scrittore raffinato che, con alcune sue pagine, che sono i suoi veri dipinti, ha conquistato l’arte e la cultura nei secoli, a partire dallo stesso Dante, colpito da uno dei temi maggiori dell’evangelista così da definirlo nel Monarchia: «scriba mansuetudinis Christi».

Come non pensare – solo per esemplificare - alla mirabile parabola del Buon Samaritano (10,25-37) che sembra quasi prendere spunto da una vicenda di cronaca nera? O alla drammatica storia del figlio ribelle e del padre misericordioso che lo riaccoglie con amore (15,11-32)? È, quest’ultima, una vicenda che ha affascinato pittori come Rembrandt nella tela dell’Ermitage divenuta ormai una sorta di canone artistico-esegetico? Meno note sono le infinite riprese letterarie, anche provocatorie e deformanti, della stessa parabola, come il Ritorno del figlio prodigo, romanzo di André Gide (1907) che fa di quella conversione un fallimento. Ai suoi occhi, infatti, quel giovane sarebbe rientrato a casa per fame, per viltà e per comodità, rinunciando a «mordere la mela selvatica della libertà» fino in fondo.

Anche per questa via la Bibbia si rivela il «grande codice» della nostra cultura, incessantemente oggetto di «ri-Scritture», per usare l’ammiccamento lessicale di Piero Boitani. Naturalmente l’approccio a un testo di tale portata ideale com’è il Vangelo di Luca richiede un accompagnamento: è il compito dell’«esegesi» che - secondo quanto suggerisce lo stesso etimo greco - deve «condurre (hegeomai) fuori (ek)» dal testo tutte le sue accezioni e potenzialità. Segnaliamo, perciò, qualche commento significativo tra i tanti (a uno sguardo sommario nella mia biblioteca personale, ne ho numerati almeno una ventina, originali o in versione nella sola lingua italiana).

Il primato è da assegnare alla trilogia di tomi consacrati a Luca dallo studioso svizzero François Bovon, uno dei massimi esperti di questo Vangelo, tradotto da Paideia (2005-2013). La sua interpretazione, che penetra sin nei particolari più remoti di un testo certamente denso ma sempre coinvolgente, vede nel programma storico-teologico dell’evangelista la centralità della parola di Cristo che non decolla dal terreno accidentato della storia verso cieli mitici, ma si àncora alla concretezza e all’umanità, spingendo il lettore-uditore a un’opzione radicale di adesione vitale. Da questa radice si ramificano alcuni temi portanti come quelli dell’amore, della misericordia, della mansuetudine (evocata da Dante), del distacco dal possesso, della gioia e della preghiera.

L’approccio rimane, comunque, quello storico-critico che è adottato anche da un altro commento ben più agile, pur possedendo tutte le componenti necessarie (compreso il testo greco a fronte): autore è un mio antico alunno, divenuto esegeta stimato, Matteo Crimella, che innesta la sua opera (2015) in una significativa collana della San Paolo che sta proponendo una Nuova versione della Bibbia dai testi antichi, libro per libro. Leggendo le note di questo strumento interpretativo, si potrà procedere nella lettura evangelica secondo un accostamento più narrativo che rende ragione dell’architettura d’insieme e sequenziale delle pagine lucane. Esse, per altro, sono originalmente scandite nella loro sezione centrale (cc. 9-19) da una sorta di «lunga marcia» di Gesù verso Gerusalemme, la città del suo destino tragico ma anche della sua glorificazione (l’ascensione).

Per chi desidera mantenersi a un livello a prevalenza filologico-letteraria è disponibile ilVangelo secondo Luca (Carocci 2017) di Riccardo Maisano, docente all’Orientale di Napoli, le cui note essenziali puntano alle singole unità testuali e contestuali, mentre l’introduzione generale ha come meta la «riconquista dei tempi e degli spazi perduti» (storia, fondale, attori, autore, coordinate spazio – temporali, fonti, trasmissione del testo). Altri commenti meriterebbero una segnalazione, ma ci accontentiamo di concludere con uno scritto apparentemente marginale dal taglio spirituale ma non devozionale, spoglio eppur poetico, documentato ma lieve, opera di un anziano sacerdote amato anche da molti «laici», il milanese Angelo Casati. Il suo «commento» s’intitola emblematicamente Sulla terra le sue orme, pubblicato nel 2013 dall’editrice trentina Il Margine.

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Da: IL Sole 24Ore – Domenica – 06 febbraio 2022

Nell’immagine: Rogier van der Weyden. «San Luca dipinge la Vergine», 1435, Boston, Museum of Fine Arts

Daverio - Da Pitagora, attraverso Fibonacci e Galileo sino all'informatica. Dal Supremo ai numeri e dai numeri al Supremo nel dialogo tra i saperi ed attraverso infinite piste di ricerca

http://mediaeventi.unipi.it/video/La-storia-pesante-del-numero-leggero-da-Fibonacci-a-San-Tommaso/cd579005b98b615ca8985597926ef496

La conferenza tenuta presso l'Università di Pisa da Philippe Daverio su Leonardo Fibonacci

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IL RICORDO /1. L’ORIGINALE APPROCCIO DI DAVERIO ALLA STORIA E LA GIOIOSA CAPACITÀ DI RACCONTARLA HANNO FORNITO SPESSO INTERPRETAZIONI INATTESE E INEDITE, UTILI ANCHE AGLI STORICI DI PROFESSIONE

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Quel Napoleone di Philippe

Luigi Mascilli Migliorini

DaverioLa mia privatissima risposta, o forse dovrei dire meglio, il mio privatissimo rifugio alla crisi della storia, si chiamava Philippe Daverio. Nei dubbi che attanagliano oggi tanti interpreti di questo sapere, nella puntuale constatazione del poco credito che la storia sembra avere nelle nuove (e spesso anche nelle vecchie) generazioni, nella frustrazione che nasce dai poco riusciti tentativi di rinvigorire una nobile e stanca disciplina, l’incontro con Philippe Daverio rassicurava in pochi minuti sull’esistenza e la ragione di esistere di ciò che chiamiamo storia.

Non che lui fosse uno storico di professione, e tanto meno uno storico dell’arte nel senso comune di questa espressione. Egli, cioè, non apparteneva a quella dimensione propriamente storicista che conduceva, e talvolta conduce ancora, a intendere nell’opera d’arte una semplice chiave di lettura della società o del potere. Al contrario, la sua era una continua, consapevole affermazione della forma e dei suoi diritti. L’autonomia del linguaggio formale non si trasformava, però, nella rivendicazione di una autonomia concettuale della dimensione formale. I vigorosi anticorpi storici che vivevano originalmente in lui gli consentivano, mi verrebbe di dire, un fascinoso gioco di prestigio a doppio senso in cui, da un lato, la forma disciplinava la storia e, dall’altro, la storia disciplinava la forma. La chiave di volta di questo serissimo illusionismo stava, probabilmente, per un verso nella sua colta attenzione per la materialità, materialità fisica anche e soprattutto, del manufatto formale, e per altro verso nella sua spiccata vocazione al dettaglio. Nella storia, dunque, egli entrava per la porta principale (talvolta sfondava la porta) dell’homo faber, dell’esercizio umano che si applica ogni volta alla invenzione, o se si preferisce, alla costruzione della forma e che nel particolare di un insieme talvolta anche imponente - un edificio, una statua, un mobile - mostra i caratteri più evidenti del processo, intellettuale e manuale insieme senza distinzione e senza gerarchia, da cui scaturisce l'oggetto artistico.

Era, dunque, una gioia per uno storico rispecchiarsi in un linguaggio come quello di Philippe Daverio: simile al suo per il piacere di raccontare - senza categorie preconfezionate, senza teleologismi - un frammento della storia degli individui e delle società, del loro incessante lavorìo per risolvere problemi e inventarne di nuovi. Ritrovare il gusto di un particolare che si faceva, ambiziosamente, universale, e di un universale che si piegava, umilmente, a manifestarsi nel particolare. Allo storico questa gioia regalava la scoperta dello sguardo. Vedere una forma non voleva dire impadronirsi banalmente di una fonte, più appariscente e brillante rispetto a una carta d’archivio, per sorreggere il proprio ragionamento. Voleva dire imparare a costruire il proprio ragionamento a partire da ciò che i manufatti materiali, le opere d’arte se si vuole, guardandole come sapeva guardarle Philippe, raccontano di sé e, quindi, del proprio tempo.

Spesso il discorso tra noi cadeva, fatalmente, su Napoleone. A lui, quindi, devo la progressiva comprensione del carattere borghese di quell’uomo leggendario e del mondo che si costruiva, nascostamente, tra le pieghe di roboanti richiami all’eroismo degli antichi. Philippe mi aveva accompagnato per questa strada mostrandomi le trattenute dimensioni delle dimore che i napoleonidi, anche quando diventavano sovrani, sceglievano per le loro vite private. Marlia, ad esempio, per la sorella Elisa, Portici per il cognato Murat, che lì, insieme alla moglie Carolina, aveva dato vita alla prima moda dei bagni di mare. Le stanze, in quei luoghi, mai troppo grandi, ricordo di quelle quasi anguste, ad Ajaccio, in cui avevano vissuto da bambini. Mi aveva aiutato a capire senza pregiudizi i forti legami che univano i membri della famiglia (L’onore dei Bonaparte aveva voluto intitolare una nostra conversazione diventata una delle memorabili puntate del su Passepartout), legami dietro i quali si celavano storie di periferie isolane, ma anche futuri trionfi di familiarità borghesi. Nel Napoleone di Brera mi aveva invitato non a guardare solo il modello canoviano di una eroicità classica, ma la nudità che aveva infastidito un uomo che così anticipava le pruderie dei decenni a venire. Napoleone profeta del Biedermeier, insomma, piuttosto che erede di Cesare e di Alessandro.

Nei giorni del Covid l’ultima lezione di storia. Il buon umore - mi spiegava Philippe - è l’esito puntuale di ogni grande disastro. La Peste nera ha permesso di abbandonare in Europa le estreme tetraggini del gotico e aprire la strada alla grazia del Rinascimento. Dalla peste del Seicento il buon umore degli scampati regala la civetteria del Rococò. L’età del jazz scioglie, tra fiumi di whisky e giovani donne dai capelli e dalle gonne troppo corte, il gelo di un primo conflitto mondiale. Dal secondo è il buon umore di grandi ricostruzioni che viene in aiuto e ci risolleva. Parlava ed era facile, invitante, prendere mentalmente nota delle infinite piste di ricerca e giudizio storico che si aprivano davanti. Del torto nascosto nelle sue parole, di un’assenza che non permetterà più quel buon umore, allora entrambi non sapevamo.

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Da Il Sole24Ore - Domenica - 13 settembre 2020

Philippe Daverio. Nato in Alsazia nel 1949 e scomparso a Milano, il 2 settembre 2020, ha vissuto un’esistenza densa e polimorfa: storico dell’arte, politico, personaggio televisivoGETTYIMAGES

Affrontare con coraggio il climate change grande occasione per un’economia più a misura d’uomo

Manifesto di Assisi 03Non è un caso se, nella corsa globale alla sostenibilità, il sistema Italia sia meglio posizionato di molti altri. Ben prima dell’avvento del Green New Deal promosso dalla Commissione Europea, infatti, c’è chi nel nostro Paese ha iniziato a teorizzare e a praticare in concreto un’economia sostenibile capace di esaltare le bellezze della nostra provincia, il riallineamento virtuoso tra impresa e ambiente, la lotta al climate change attraverso scelte innovative di produzione e di consumo. È il gruppo di personalità e imprese che si riconoscono nel ‘Manifesto di Assisi’, scaturito dall’impegno intelligente e inesauribile del presidente della Fondazione Symbola Ermete Realacci e di padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi, e sottoscritto da migliaia di personalità di rilievo delle istituzioni, del mondo dell’economia e dell’associazionismo. L’idea di fondo del Manifesto di Assisi è che affrontare con coraggio il climate change non sia solo necessario, ma rappresenti anche una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo, sviluppando strategie politiche più partecipate dai cittadini nel solco tracciato dall’Enciclica Laudato Sì di Papa Francesco.

È un modello di sviluppo sostenibile ‘dal basso’, capace di produrre una crescita più duratura e resiliente. Il riferimento in prospettiva è la costruzione di un Nuovo Umanesimo globale, in cui l’Italia possa posizionarsi in vantaggio grazie al Dna culturale, produttivo e artistico che ha sempre caratterizzato la sua storia, a partire dallo straordinario connubio di abilità artigianale, creatività e innovazione di prodotto rappresentato dalle botteghe rinascimentali. Oggi in molti settori – dall’industria all’agricoltura, dall’artigianato ai servizi, dal design alla ricerca – siamo protagonisti nel campo dell’economia circolare e sostenibile: abbiamo leadership in Europa, per esempio, come capacità di riciclo dei rifiuti prodotti.

E la green economy italiana produce posti di lavoro affondando le radici, spesso secolari, in un modo di produrre legato alla qualità, alla bellezza, alle esperienze positive di comunità e territori, che mette insieme in un mix unico coesione sociale, empatia e tecnologia. Uno degli elementi di forza del Manifesto di Assisi è la capacità di mettere insieme visibilmente teoria e pratica. Dal Manifesto sono scaturite infatti centinaia di azioni concrete, pubblicate sul sito della Fondazione Symbola: la loro lettura è un esercizio prezioso, perché restituisce un ritratto sorprendente della vitalità della società italiana. Oltre a numerose e lodevoli iniziative aziendali, colpisce la varietà di storie piccole e grandi di cittadini che si mettono in marcia, soli con le proprie energie, verso un’economia più sostenibile. Fra le azioni già censite, molte sono incentrate sulla rinascita dell’agricoltura in chiave di economia circolare, nella convinzione che reinventare il settore primario sia centrale per diffondere un nuovo rispetto per l’ambiente e un assetto del territorio più attento alla biodiversità. Casi esemplari si trovano un po’ dappertutto in Italia, dalla Valsassina ad Imperia, dall’Appennino bolognese alla provincia di Caserta fino alle Madonìe. Su un nuovo assetto del territorio s’incentrano anche le azioni che puntano sulle fonti rinnovabili o sull’efficienza per assicurare una gestione sostenibile dell’energia. Tuttavia, l’emergenza climatica avanza così rapidamente da rendere decisivo il fattore- tempo.

Manifesto di Assisi 01«Per permettere un’efficace partecipazione di tutti allo sforzo comune più che mai è necessario indirizzare l’azione dello Stato verso una rapida e massiccia opera di semplificazione e sburocratizzazione» spiega Ermete Realacci. Se la priorità (da tutti condivisa) è oggi incentivare gli investimenti di risorse, tempo e attenzione di imprese e individui verso l’economia circolare, la messe di vincoli normativi e ritardi autorizzativi che sta bloccando la corsa naturale del nostro Paese verso lo sviluppo delle energie rinnovabili si muove in direzione esattamente opposta. È vitale e urgente, dunque, riallineare norme e burocrazie in Italia all’obiettivo di una sostenibilità semplice, accessibile, patrimonio di tutti. Per moltiplicare la forza di questo sviluppo sostenibile ‘dal basso’, in grado di riservare al sistema-Italia straordinarie sorprese. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

@FFDelzio

Dove è possibile trovare e scaricare il manifesto di Assisi https://www.symbola.net/wp-content/uploads/2021/03/210x297_MANIFESTO-ASSISI-2021.pdf

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È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre

220px Italo CalvinoMa forse l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica difesa che riesco a concepire: un'idea della letteratura

(...) (...) (...)

Le ragioni di Leopardi sono perfettamente esemplificate dai suoi versi, che danno loro l'autorità di ciò che è provocato dai fatti. Continuo a sfogliare lo Zibaldone cercando altri esempi di questa sua passione ed ecco trovo un nota più lunga del solito, un elenco di situazioni propizie allo stato d'animo dell'«indefinito»:

La luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori e in una loggia parimente ec.; quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diverse (1745) materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec.

Ecco dunque cosa richiede da noi Leopardi per farci gustare la bellezza dell'indeterminato e del vago! E' un'attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d'ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell'illuminazione, dell'atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata. Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell'esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore.

giacomo leopardi dipinto da lolli origÈ piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada a poco a poco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, (1746) i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Cosí un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti è forse piú piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra e delle campagne ec., perché meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.). Infatti ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. È piacevolissima ancora, per le sopraddette (1747) cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle o di persone ec., un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare né concepire definitamente e distintamente ec., come quello di una folla o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. (20 settembre 1821).

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Da Lezioni Americane, Esattezza, di Italo Calvino

Le grandi narrazioni sapienziali sono il primo luogo educativo

RICOSTRUIRE IL PATTO EDUCATIVO GLOBALEPatto Educativo Copertina

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Giovanni Cucci S.I.



Un progetto che nasce da lontano

Nel Messaggio peril lancio del patto educativo, del 12 settembre 2019, Papa Francesco aveva invitato a Roma, peril 14 maggio 2020, tutti coloro che operano nel campo dell’educazione a diversi livelli (accademico, istituzionale, pastorale e sociale), perelaborare insieme un patto educativo globale. L’evento è stato poi rinviato a causa del Covid-19. La pandemia ha reso l’appello del Santo Padre ancora più stringente: serve unire gli sforzi perla casa comune, affinché l’educazione sia creatrice di fratellanza, pace e giustizia. Perquesto, il 15 ottobre 2020, alle ore 14.30 (ora di Roma), si è tenuto un incontro virtuale, aperto a tutti e in diretta sul canale Youtube di Vatican Media, durante il quale è stato trasmesso un video messaggio del Papa, insieme a testimonianze ed esperienze internazionali, perguardare oltre con creatività1.
Nel corso di questi anni il Pontefice ha più volte ricordato la necessità di tale collaborazione a livello educativo perla custodia della «casa comune», come ad esempio nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (nn. 23 e 87), nell’enciclica Laudato si’ (nn. 215e 220), e nel discorso del 9 gennaio 2020 al Corpo diplomatico presso la Santa Sede: «Ogni cambiamento, come quello epocale che stiamo attraversando, richiede un cammino educativo, la costituzione di un villaggio dell’educazione che generi una rete di relazioni umane e aperte. Tale villaggio deve mettere al centro la persona, favorire la creatività e la responsabilità per una progettualità di lunga durata e formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità. Occorre dunque un concetto di educazione che abbracci l’ampia gamma di esperienze di vita e di processi di apprendimento e che consenta ai giovani, individualmente e collettivamente, di sviluppare le loro personalità»2.

L’educazione è stata anche il tema di fondo scelto dall’episcopato italiano perla pastorale del decennio 2010-20203.

Patto Educativo 01Alcuni segnali drammatici del fallimento educativo

I luoghi che da sempre sono stati decisivi per l’educazione (in particolare la famiglia, le istituzioni e la scuola) sono oggi profondamente in crisi, anche perché considerati in modo negativo dalla cultura odierna, ossessivamente ripiegata su se stessa. Da qui la grave e crescente frattura del patto generazionale tra adulti e giovani4.Il Papa fa esplicita menzione delle situazioni problematiche in cui versano i genitori, perlo più abbandonati a se stessi e succubi di un ritmo di vita sempre più stressante, e anche del difficile compito degli insegnanti («sempre sottopagati»).

Patto Educativo 03Tale frattura emerge drammaticamente dal crollo demografico dell’Occidente, e in particolare del nostro Paese, che si colloca ormai da diversi anni agli ultimi posti nel mondo. I dati dell’Istat per l’anno 2019 mostrano che in Italia il rapporto nascite/morti è di67/100 (-212.000, la differenza rispetto all’anno precedente; 10 annifa il rapporto era 96/100), «il più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918»: un ricambio che diventa sempre più difficile5. Inoltre, un quinto di quei neonati è di madre straniera.
Un fenomeno preoccupante e insieme un avvertimento epocale: le crisi demografiche sono sempre state il primo segnale di una più generale crisi di civiltà. Il «vecchio continente» sembra essere sempre più un «continente vecchio»; è l’unica zona della Terra dove gli anziani sono più numerosi dei bambini: «Secondo la Population Division delle Nazioni Unite, i bambini nel 2050 saranno appena il 2,8 percento della popolazione italiana. Nel XIV secolo, l’epidemia ha spazzato via l’80 percento della popolazione italiana. Nel XXI secolo, sta scomparendo perscelta […]. L’esperto di demografia all’American Enterprise Institute di Washington, Nicholas Eberstadt, sostiene che:“Se continua così, in una generazione ci saranno paesi in cui i soli familiari di sangue saranno i propri genitori”»6.

E il calo delle nascite porta con sé altri interrogativi inquietanti: la mancanza di figli in una società denuncia la mancanza di un futuro, di voler continuare a vivere in altri, soprattutto della consapevolezza di avere qualcosa di bello da consegnare a chi verrà dopo.

Questa sfiducia nel futuro si riflette così nella crescente difficoltà a educare, a trasmettere alle generazioni seguenti un patrimonio sapienziale acquisito per cui valga la pena vivere. Il futuro viene visto sempre meno come il luogo della progettazione e della speranza,ma richiama piuttosto paure e preoccupazioni. L’accresciuto benessere non ha contribuito a rendere migliore la qualità della vita, ma ha incrementato la tendenza a ripiegarsi su di sé, fino a smarrire il gusto di vivere.
È oltremodo significativa, e preoccupante, la decisione presa,il 18 gennaio 2018, dalla premier inglese Theresa May, di nominare un «ministro per la solitudine». Non era mai accaduto nella storia un fatto simile: «Per troppiha spiegato la May la solitudine è una triste realtà della vita moderna. Voglio affrontare questa sfida per la nostra società e per tutti coloro che non hanno nessuno con cui parlare o condividere i propri pensieri ed esperienze». Secondo i dati della Croce Rossa britannica, «su una popolazione di 65,6 milioni, oltre nove milioni di persone sostengono di sentirsi sempre o spesso soli»7.

Una ricerca condotta dalla Brigham Young University a Provo (Usa) ha mostrato come la sensazione cronica di solitudine abbia per la salute un effetto dannoso doppio rispetto all’essere in sovrappeso,e come sia paragonabile ai danni recati dall’alcolismo o dal fumo di 15 sigarette al giorno. La solitudine, concludono i ricercatori, è un virus mortale, rilevabile anche statisticamente, destinato a diffondersi in maniera inarrestabile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO)precisa che, nel corso di 10 anni (1987-97), il numero di pazienti depressi nel mondo è aumentato del 300%; tra il 2005 e il 2015tale cifra è ulteriormente cresciuta del 18%. Questa è la principale causa di disabilità delle persone tra i 15 e i 40 anni, e richiede una spesa sanitaria di 43 miliardi di dollari all’anno. Se un tempo il primo episodio depressivo si verificava attorno ai 30 anni, ora fa la sua comparsa a 13. Ne consegue un notevole incremento dei comportamenti suicidari. Sempre secondo i dati del WHO, nel 2013 sono state 842.000 le persone che hanno voluto porre fine alla loro vita, con un aumento del 60% rispetto al 1960. Ma per gli adolescenti la crescita è stata del 400%8.
L’aspetto più sconcertante è che tali statistiche riguardano una popolazione che gode di privilegi unici, tanto da essere consideratala più fortunata della storia: non ha conosciuto la guerra, la fame, la carestia e le intemperie. Le società occidentali registrano guadagni enormi rispetto a chi è venuto prima di noi, sotto molti aspetti: longevità, aspettative di vita, possibilità alimentari, cure mediche, accesso all’istruzione, libertà di spostamenti, diffusione capillare dei diritti, cura dell’ambiente e tutela della privacy. Nonostante ciò, la percentuale di infelicità percepita è notevolmente aumentata: siamo una generazione che si sta ammalando di solitudine. Anche per questi motivi, un progetto educativo globale richiede con urgenza che si ricostruisca il patto scuola-famiglia che si è andato sgretolando in queste ultime generazioni.

Le caratteristiche dell’educazione Papa Francesco, rivolgendosi ai partecipanti a un Convegno tenutosi poco prima del lockdown, ha precisato che con il termine«educazione» non si deve intendere una mera trasmissione di concetti, una visione del tutto astratta, retaggio dell’illuminismo. Educare significa piuttosto «integrare il linguaggio della testa con il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. Che un alunno pensi ciò che sente e ciò che fa, senta ciò che pensa e ciò che fa, faccia ciò che sente e ciò che pensa. Integrazione totale»9, in un patto che coinvolge le famiglie, le scuole e le istituzioni.
EDUCARE SIGNIFICA «INTEGRARE IL LINGUAGGIO DELLA TESTA CON IL LINGUAGGIO DEL CUORE E IL LINGUAGGIO DELLE MANI».


Patto Educativo 02
Questa visione unitaria è comunque presente in Occidente, anche se in gran parte è andata perduta. Il filosofo Alasdair MacIntyre, riassumendo, nel corso di un’intervista, il proprio itinerario educativo, afferma di essere cresciuto a contatto con due mondi antitetici che hanno caratterizzato la sua gioventù: «Due realtà, reciprocamente antagoniste, determinarono la mia formazione molto prima che io fossi in grado di leggere testi di filosofia. Il mio immaginario di bambino si nutrì anzitutto di una cultura orale celtica, patrimonio di agricoltori e pescatori, poeti e cantastorie, una cultura in larga misura già perduta, ma alla quale alcuni anziani con cui entrai in contatto sentivano ancora di appartenere. I fatti importanti di questa cultura erano alcune forme di lealtà e il legame con i parenti e con la terra. Essere giusti significava giocare il ruolo a cui ciascuno era stato assegnato dalla comunità locale. L’identità di ciascuno derivava dal posto che l’individuo occupava nella comunità»10


«L’altro mondo», proprio della modernità illuministica, è invece caratterizzato dalla «teoria» (non nel suo significato greco), dal sapere critico e consequenziale, contrapposto alla «storia»: «Il mondo moderno era una cultura di teorie e non di storie. Era la cornice di quello che si voleva far apparire come la moralità in quanto tale; i suoi diritti su di noi non erano quelli di un particolare gruppo sociale, ma quelli dell’umanità universale e razionale»11.


PerMacIntyre, recuperare la tradizione ancestrale non significa rinnegare le acquisizioni moderne, ma tornare a privilegiare le relazioni e le grandi narrazioni sapienziali: esse sono il primo luogo educativo, e nella loro carenza si annida gran parte dei problemi odierni.

Non è un caso che i bambini che riescono meglio nella lettura e nell’apprendimento sono proprio coloro che fin da piccoli hanno avuto la fortuna di avere genitori che raccontavano loro, con pazienza e ripetutamente, le favole o altri tipi di storie. L’importanza del dialogo, unito alla narrazione, è stata anche rilevata da una ricerca compiuta nell’ospedale pediatrico di Cincinnati(Usa) su un gruppo di 19 bambini di età compresa tra i 3 e i5 anni. Grazie alla risonanza magnetica, si è potuto notare che, durante l’ascolto delle storie, nel cervello dei bambini si attivava una specifica area cerebrale – quella in cui si elaborano immagini–, dando origine a quel «film mentale» che consente di seguire visivamente il racconto12.

Questa elaborazione avviene anche nell’adulto, soprattutto quando legge romanzi o racconti: l’attenzione al contenuto del testo è accompagnata dallo scorrere delle immagini che ne consentono la comprensione.

Quando invece l’educazione si riduce a tecnica, porta a un progressivo e pericoloso inaridimento della vita, in tutte le sue espressioni. È la «gabbia artificiale», descritta in maniera eloquente da Jacques Ellul: «Tutto è compreso nel processo tecnico. Esistono una tecnica di lettura, una tecnica di masticazione, ogni sport diventa sempre più tecnico, c’è una tecnica di animazione culturale, una per condurre una riunione»13.
Come osserva Umberto Galimberti, alla base dell’attuale disagio giovanile vi è soprattutto l’assenza di racconti capaci di dare senso e ordine agli avvenimenti, individuando desideri e discrepanze. Oggi molti giovani stanno male, ma non riescono neppure a dare un nome al loro malessere, perché non hanno più narrazioni a disposizione che possano offrire un’identità e una lettura della vita: si trovano in un insieme sparpagliato di esperienze, avvenimenti, senza un progetto unificatore. I sentimenti e i desideri, infatti, non sono un dato biologico, ma vengono conosciuti e compresi confrontandosi con narrazioni, con le vicende e i modelli presenti in esse.


Papa Francesco, nella sua esortazione postsinodale sui giovani, riprende un pensiero di Maria Gabriela Perin circa il compito prezioso della narrazione come capacità di riannodare ciò che è separato:«Quello che so è che Dio crea storie. Nel suo genio e nella sua misericordia, Egli prende i nostri trionfi e fallimenti e tesse bellissimi arazzi pieni di ironia. Il rovescio del tessuto può sembrare disordinato con i suoi fili aggrovigliati – gli avvenimenti della nostra vita – e forse è quel lato che non ci lascia in pace quando abbiamo dei dubbi. Tuttavia, il lato buono dell’arazzo mostra una storia magnifica,e questo è il lato che vede Dio»14.


La narrazione e i sentimenti

Patto educativo 04La modernità ha dimenticato il linguaggio del cuore, limitandosi alla «testa» e alle «mani». Ma la massa accresciuta di informazioni a disposizione, pur essendo un bene prezioso, non ha reso più confortevole l’esistenza, perché i criteri di valutazione sono di tipo relazionale e affettivo. I sentimenti sono un elemento di verità del nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con Dio. Sono anche un campanello di allarme di un disagio.

La sapienza biblica invita a tenere strettamente uniti conoscenza e affetti, cuore, intelligenza e fede. E lo fa non in modo astratto e teorico, ma mediante narrazioni che danno rilievo ai sentimenti: sono essi il luogo della valutazione e della decisione. Si pensi alla«gioia» dei magi quando vedono la stella (Mt 2,10), o alla «tristezza»del giovane ricco di fronte alla proposta di lasciare tutto e seguire Gesù (Lc 18,23), o alla «paura» di Pilato quando viene a sapere che Gesù si è proclamato Figlio di Dio (Gv 19,8). I discepoli di Emmaus, ripensando all’incontro avuto con il Signore, inizialmente non riconosciuto, restano colpiti soprattutto dalle risonanze affettive delle sue parole: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi?» (Lc 24,32).

Questa ricerca apre al dialogo con chiunque si interroghi sulle problematiche fondamentali della vita, sia egli credente o non credente,una persona da ascoltare e con cui dialogare. Significativo in proposito è quanto notava il card. Carlo Maria Martini inaugurandola serie di conferenze «La cattedra dei non credenti»: «Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa […]. Ritengo che, ai nostri tempi, la presenza di non credenti che con personale sincerità si dichiarano tali, e la presenza di credenti che hanno la pazienza di voler rientrare in se stessi, possa essere molto utile agli uni e agli altri, perché stimola ciascuno di noi a seguire meglio il suo cammino verso l’autenticità. Compiere insieme questo esercizio, senza difese e con radicale onestà, potrà inoltre risultare utile a una società che ha paura di guardarsi dentro e che rischia di vivere nell’insincerità e nella scontentezza»15.


Ma come ricostruire il patto educativo? Papa Francesco offre in particolare tre piste:

01) Costituire un villaggio dell’educazione;

02) Il domani chiede il meglio dell’oggi;

03) Educare a servire, educare è servire.


Costituire un villaggio dell’educazione

Si tratta di favorire il dialogo tra le varie «agenzie educative»,come la famiglia, la scuola, le istituzioni religiose e civili: «Occorre siglare un patto perdare un’anima ai processi educativi formali ed informali, i quali non possono ignorare che tutto nel mondo è intimamente connesso ed è necessario trovare – secondo una sana antropologia – altri modi di intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. In un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto»16.


Questo patto, come si notava, si è purtroppo interrotto da tempo, con gravi conseguenze, a tutti i livelli: si pensi al dilagare di fenomeni legati all’intolleranza, al razzismo, alla violenza e al bullismo. L’uso massiccio dei social non è un’alternativa valida nel momento in cui pretende di compensare la fatica e la gradualità indispensabili per un percorso educativo. Anzi, esso può diventare una trappola quando ci si illude che la formazione di una persona sia riconducibile a un semplice click.


Anche la gravissima crisi economica e i cambiamenti climatici e ambientali sono una conseguenza della «cultura dello scarto» e costituiscono avvertimenti che non possono più essere ignorati. Le circostanze legate alla pandemia di Covid-19 e le sue implicazioni in ogni ambito delle nostre società mostrano in maniera efficace e drammatica quanto l’intera umanità sia coinvolta, nel bene e nel male, nelle vicende della casa comune, affidata alla responsabilità e alle possibilità di ciascuno.


Ricostituire il patto generazionale aiuta il giovane a individuare il proprio desiderio profondo, e l’anziano a riscoprire il ruolo prezioso di una memoria di vita da trasmettere a chi viene dopo di lui: «Se i giovani si radicano nei sogni degli anziani, riescono a vedere il futuro, possono avere visioni che aprono loro l’orizzonte e mostrano loro nuovi cammini. Ma se gli anziani non sognano, i giovani non possono più vedere chiaramente l’orizzonte. È bello trovare, tra le cose che i nostri genitori hanno conservato, qualche ricordo che ci permette di immaginare ciò che hanno sognato per noi i nostri nonni e le nostre nonne. Ogni essere umano, prima ancora di nascere, ha ricevuto dai suoi nonni, come regalo, la benedizione di un sogno pieno d’amore e di speranza: quello di una vita migliore […]. Il sogno primordiale, il sogno creatore di Dio nostro Padre, precede e accompagna la vita di tutti i suoi figli. Fare memoria di questa benedizione, che si estende di generazione in generazione, è una preziosa eredità che dobbiamo saper mantenere viva per poterla trasmettere a nostra volta»17.


Il domani chiede il meglio dell’oggi

Prendere sul serio questa prospettiva significa investire sul futuro e contestare le leggi del mercato all’insegna del «tutto e subito», che bruciano possibilità e penalizzano la qualità. Significa investire sulle nuove generazioni, ma anche sulla consapevolezza che i cambiamenti più profondi ed efficaci non possono essere rapidi e immediati.

L’educazione richiede tempo, gradualità, affetto.

Il segreto dell’intelligenza umana risiede in un trucco della natura:l’aver avuto uno sviluppo e tappe di crescita più lente e cadenzate rispetto alle altre specie viventi è alla base della straordinaria potenza e plasticità della nostra mente e la rende capace di operazioni meravigliose ed estremamente variegate, che introducono in una prospettiva più grande del qui e ora.

Lo scrittore britannico Terence Hanbury White, nel romanzo Re in eterno, ha espresso questa caratteristica peculiare mediante un apologo, una sorta di rivisitazione del primo capitolo della Genesi: «Completato l’universo, molto tempo fa, Dio lo volle popolare di esseri animati. Allora creò molti embrioni, e chiese loro quale tipo d’animale desiderassero divenire da adulti. Chi voleva correre, chi volare, chi nuotare. Grandi, piccoli, veloci, lenti. Solo un embrione stava in silenzio. Allora Dio gli chiese come mai non avesse nessuna preferenza. Il piccolo embrione rispose che lui voleva restare com’era stato creato. Se era stato fatto così, ci doveva pur essere una buona ragione. Dio lodò la risposta, e promise all’embrione che sarebbe rimasto bambino. Grazie alla crescita più lenta, sarebbe stato l’unico essere capace di fantasie, e sarebbe diventato il signore dell’Universo. Da piccolo, giocando, sarebbe riuscito a immaginare altri mondi, modificando nella sua mente quello in cui viveva […]. Il grande trucco della prolungata infanzia dell’uomo creò il suo grande cervello; infatti il periodo di grande plasticità dell’uomo, periodo critico, dura parecchi anni, mentre quello degli animali si misura in settimane o mesi. Insomma l’embrione di uomo decise con grande coraggio di restare per un decina di anni a formare il suo cervello sia funzionalmente che strutturalmente; per fortuna l’evoluzione ha reso possibile questa scelta inventando la paziente cura dei genitori e in sostanza la famiglia. L’uomo bambino è riuscito, nel bene e nel male, a dominare la natura. L’evoluzione ha scelto, nella costruzione del cervello umano, la tecnica della lentezza, mentre per gli altri animali quella della rapidità»18.


Apprendere, conoscersi e leggere procedono di pari passo – un passo, appunto, lento e cadenzato –; richiedono tempo, gradualità, passione, dialogo con l’altro. È un investimento sul futuro.


Educare a servire, educare è servire

È anche necessario preparare persone che si occupino in maniera specifica della formazione, con dedizione, ma anche con competenza,perricostruire il patto educativo: «Ogni generazione dovrebbe[…] riconsiderare come trasmettere le sue conoscenze e i suoi valori a quella seguente, perché è attraverso l’educazione che l’essere umano raggiunge il suo massimo potenziale e diviene un essere consapevole, libero e responsabile. Pensare all’educazione è pensare alle generazioni future e al futuro dell’umanità; è pertanto qualcosa di profondamente radicato nella speranza e richiede generosità e coraggio»19.


È sempre forte la tentazione di approntare programmi educativi sull’onda della novità a tutti costi, o ispirati a ideologie e mode del momento, più attente al politicamente corretto che alla conoscenza di un patrimonio perenne. Un rischio già rilevato con chiarezza 10 anni fa dal Progetto culturale della Chiesa italiana: «Viviamo in una società dove sembra che tutto sia possibile indifferentemente; dove qualsiasi idea o stile di vita sembra avere lo stesso valore; dove il potere dell’apparato tecnico-economico sembra volersi emancipare da ogni istanza umana; dove i desideri sembrano diventare diritti e l’estetica sembra prendere il posto dell’etica»20.


Non tutto è indifferente, posto sul medesimo piano. Ogni scelta, anche la non scelta, ha precise conseguenze che la storia non manca di rilevare, presentando il conto alle generazioni successive. La competenza in sede educativa rimane indispensabile, perché non tutte le strade risultano ugualmente percorribili: spesso esse si rivelano miraggi illusori, di cui il giovane può accorgersi troppo tardi, quando non è più possibile porvi rimedio.
Il servizio va educato anche perproteggere l’educatore: la complessità e la vastità dei problemi odierni, in mancanza di un supporto adeguato, rischiano di schiacciarlo. Il fenomeno del burn-out mostra come non sia facile aiutare gli altri: la buona volontà e purezza di intenzioni devono essere accompagnate dall’esperienza e dalla competenza. La nostra epoca ha urgente necessità di «persone aperte, responsabili, disponibili a trovare il tempo perl’ascolto, il dialogo e la riflessione, e capaci di costruire un tessuto di relazioni con le famiglie, tra le generazioni e con le varie espressioni della società civile, così da comporre un nuovo umanesimo»21.


Il servizio della Chiesa

Ma è altrettanto importante che un tale rilancio sia testimoniato anzitutto dalla comunità ecclesiale. Il patto educativo richiede un rinnovato dialogo tra cultura e religione: un dialogo più volte rotto, soprattutto in Occidente, e che costituisce invece un servizio prezioso pertutti. Paolo VI aveva rilevato la terribile frattura tra il Vangelo e la cultura, definendola «il dramma della nostra epoca»22.
È necessario anche in sede ecclesiale ripensare le modalità dell’incontro tra «cuore, mente e mani», capace di intercettare la vita delle persone, senza limitarsi a lamentare la loro crescente disaffezione:«Ripetersi che la nostra cultura è “liquida”, frammentata, fonte di instabilità, può rivelarsi un boomerang: dove eravamo noi mentre la cultura si trasformava? Perché non siamo stati capaci di porre un argine alle derive che denunciavamo? E quando abbiamo lanciato accuse, abbiamo forse trovato strategie adatte a riparare i danni?»23.


Il dialogo tra cuore, mente e mani è auspicabile soprattutto nella formazione dei pastori.

Anche in quella sede non sempre è stata riconosciuta l’importanza che esso dovrebbe assumere, soprattutto nella sua valenza di «cerniera», capace di mettere insieme i tre aspetti rilevati da papa Francesco.


Don Stephen Rossetti, che è stato permolti anni direttore del Saint Luke Institute (Maryland, Usa), destinato principalmente a sacerdoti afflitti da problemi e difficoltà di vario genere, tra cui anchel ’abuso sessuale, notava una caratteristica comune in coloro che si rivolgevano al centro: pur nella diversità di problematiche e di vicende occorse, la loro vita spirituale era sganciata dall’esistenza. Egli affermava: «Essi sanno parlare eloquentemente del proprio cammino spirituale, ma le loro parole non sono radicate nella loro vita personale. In realtà la loro vita spirituale è vuota. In questi casi vediamocon tristezza la devastazione portata alla Chiesa e alla società quando manca una formazione umana ai sacerdoti»24.


La nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis vorrebbe rispondere a queste necessità. Sappiamo tuttavia come i documenti,peressere attuati, richiedano formatori attenti a questa dimensione integrale. Papa Francesco, concludendo il Convegnointernazionale sulla Ratio fundamentalis, ha ribadito la centralità di questo aspetto peressere educatori credibili: «Sulla formazione dei preti occorre dialogare di più, superare i campanilismi, fare scelte condivise, avviare insieme buoni percorsi formativi e preparare da lontano formatori all’altezza di questo compito così importante. Abbiate a cuore la formazione sacerdotale: la Chiesa ha bisogno di preti capaci di annunciare il Vangelo con entusiasmo e sapienza, di accendere la speranza là dove le ceneri hanno ricoperto le braci della vita, e di generare la fede nei deserti della storia»25.
Il «villaggio dell’educazione» viene edificato quando ciascuno impara a riconoscere e occupare il proprio posto, mettendo a disposizione i talenti che gli sono stati dati. Un’antica leggenda africana narra che, a causa di un incendio scoppiato nella foresta, tutti gli animali fuggono, tranne un piccolo colibrì, che vola nella direzione opposta, con il becco pieno di acqua. Un leone lo apostrofa con ironia: «Sarai mica impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigantesco con quattro gocce d’acqua?». Ma il colibrì rispose:«Io faccio la mia parte»26.


Il patto educativo è questione di vita o di morte. Per tutti. Rendersi disponibili a fare la propria parte forse non spegnerà il grande incendio, ma offrirà un futuro, non solo a chi viene dopo, ma anzitutto a se stessi: il senso della solidarietà e della fratellanza è l’unico antidoto efficace alla solitudine e al male di vivere.

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Da La Civiltà Cattolica del 03.10.2020 - QUADERNO 4087

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1. L’evento è stato organizzato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica,a cui fanno riferimento 216.000 scuole cattoliche, frequentate da oltre 60 milionidi alunni, e 1.750 università cattoliche, con oltre 11 milioni di studenti. Maggiori informazioni sul sito www.educationglobalcompact.org
2. Francesco, Udienza al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede perla presentazione degli auguri per il nuovo anno, 9 gennaio 2020. Cfr anche A. Spadaro,«Sette pilastri dell’educazione secondo J. M. Bergoglio», in Civ. Catt. 2018 III 343-357.
3. Cfr Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre2010; G. Cucci, «Che cosa significa “educare”?», in Civ. Catt. 2012 III 483-495.
4. «Oggi è in crisi, si è rotto il cosiddetto “patto educativo”; il patto educativoche si crea tra la famiglia, la scuola, la patria e il mondo, la cultura e le culture[…]. Patto educativo rotto significa che sia la società, sia la famiglia, sia le diverse istituzioni che sono chiamate ad educare delegano il decisivo compito educativo ad altri, e così le diverse istituzioni di base e gli stessi Stati che hanno rinunciato alpatto educativo sfuggono a tale responsabilità» (Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno sul tema «Education: the global compact», 7 febbraio 2020).
5. Cfr www.istat.it/it/files//2020/02/Indicatori-demografici_2019.pdf
6. G. Meotti, «Culle vuote a occidente. La crisi di una civiltà che non genera più vita e va verso la sua consumazione», in Il Foglio quotidiano, 3 dicembre 2012;cfr G. Salvini, «L’Italia diventa più anziana», in Civ. Catt. 2017 II 400-403.
7. «La May ha nominato un ministro per “battere la solitudine”», in Il Giornale (www.ilgiornale.it/news/mondo/gb-theresa-may-nomina-ministrosolitudine-1484127.html), 17 gennaio 2018.
8. Cfr World Health Organization, «Depression» (www.who.int/mediacentre/factsheets/fs369/en), 30 gennaio 2020. Per un approfondimento, cfr G.Cucci, L ’arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora - La Civiltà Cattolica,2019.
9. Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno sul tema «Education: theglobal compact», cit.
10. G. Borradori, Conversazioni americane, Bari - Roma, Laterza, 1991, 171 s.
11. Ivi, 172.
12. Cfr J. S. Hutton et Al., «Parent-child reading increases activation ofbrain networks supporting emergent literacy in 3-5 years-old children: An fMRIstudy», in Abstracts Pediatric Academic Societies’ Annual Meeting (2015) (www.abstracts2view.com/pas/view.php?nu=PAS15L1_1355.8); L. Wehbe et Al., «SimultaneouslyUncovering the Patterns of Brain Regions Involved in DifferentStory Reading Subprocesses», in PLoS ONE (2014) 9 (11): e112575. doi:10.1371/journal.pone.0112575; «Lettura e attività cerebrale», in Psicologia contemporanea, n.251, 2015, 36 s.
13. J. Ellul, Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee, Milano,Jaca Book, 2009, 206.
14. Francesco, Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit (CV), 25marzo 2019, n. 198.
15. C. M. Martini (ed.), Cattedra dei non credenti, Milano, Rusconi, 1992, 5 s.
16. Francesco, Messaggio per il lancio del patto educativo, 12 settembre 2019.
17. CV 193 s.
18. P. Legrenzi, «Declinazioni della lentezza», in Il Sole 24 Ore, 14 settembre2014. Cfr L. Maffei, Elogio della lentezza, Bologna, il Mulino, 2014, 21-23; T. H.White, Re in eterno, Milano, Mondadori, 1989.
19. Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno sul tema «Education: theglobal compact», cit.
20. Comitato per il progetto culturale della Conferenza EpiscopaleItaliana (ed.), La sfida educativa. Rapporto-proposta sull’educazione, Roma - Bari,Laterza, 2009, 2010, XIV
21. Francesco, Messaggio per il lancio del patto educativo, cit.
22. Paolo VI, s., Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 20.
23. G. Canobbio, «Leggere per formarsi», in La Rivista del Clero Italiano 96(2015) 666.
24. S. J. Rossetti, «From Anger to Gratitude-Becoming a Eucharistic People:The Journey of Human Formation», conferenza tenuta alla Pontificia UniversitàGregoriana di Roma il 26 marzo 2004, manoscritto (orig. inglese).
25. Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per il Clero, 7 ottobre 2017.
26. Cfr G. Ravasi, «Breviario», in Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2020.

Alla scuola di sant’Ignazio per diventare autentici leader

FILIPPO RIZZI

Gesuiti ArturoSosaAbascalQuando la leadership per essere vera e per mostrarsi autorevole in difficili terreni e spesso non comunicanti tra loro come la spiritualità, il business, l’etica o addirittura il management si affida per essere efficace all’antico metodo del discernimento degli spiriti di sant’Ignazio di Loyola.

È in questo contesto – attualissimo, sia nel mondo religioso che in quello del business – che si inserisce il nuovo corso in leadership discernente organizzato dalla Curia generalizia della Compagnia di Gesù a Roma, in collaborazione con alcune tra le migliori business school al mondo collegate proprio alle realtà accademiche dei gesuiti: la McDonough School of Business dell’Università di Georgetown ( Washington), Le Moyne College, e Esade Business & Law School.

Scopo principale del percorso accademico che si chiuderà proprio in questi ultimi giorni di ottobre è quello di formare figure di alto livello all’interno della Chiesa e del mondo degli affari. «In un mondo in cui i valori sono compromessi e la realpolitik sembra sempre avere la meglio, – ha spiegato presentando la nuova iniziativa il preposito generale della Compagnia di Gesù, il venezuelano Arturo Sosa Abascal – dobbiamo sostenere coloro che difendono la verità, la giustizia a la libertà, i leader che credono nelle persone e in Dio». E ha puntualizzato l’attuale superiore dei gesuiti: «Il corso nasce con lo scopo di collaborare con i leader versoGesuiti Leader questi obiettivi, per far sì che questi possano guidare le loro organizzazioni e costruire un mondo diverso, dove i poveri siano aiutati a rialzarsi invece che schiacciati ed emarginati. Non è troppo tardi: possiamo ancora fare la differenza». Non è un caso che questo ambizioso progetto sia rivolto a dirigenti ecclesiastici, funzionari dei Dicasteri vaticani, superiori generali delle varie Congregazioni e Ordini religiosi, sia uomini che donne, ai gesuiti e ai partner laici che occupano posizioni di leadership. Con l’evolversi del programma, vi è la volontà di estendere questo metodo anche ai dirigenti d’azienda in tutto il mondo. «Con l’aumentare delle complessità a livello globale, abbiamo bisogno di leader che in tutte le organizzazioni siano pronti ad applicare i migliori strumenti, tecniche e logiche per risolvere i problemi più urgenti che la società ci pone, che siano capaci di gestire con successo il cambiamento e aggregare le persone per il bene comune», ha affermato Paul Almeida, preside della McDonough School of Business dell’Università di Georgetown. I partecipanti hanno trascorso due settimane a Roma nella sede della Curia gesuitica acquisendo le conoscenze di management e leadership più avanzate così come gli insegnamenti ignaziani. «La Chiesa ha così tanto da offrire, così tanta saggezza che può essere ampiamente applicata se combinata con le moderne competenze imprenditoriali» è stata la riflessione di padre John Darnis, consigliere generale per il discernimento e la pianificazione apostolica della Curia dei gesuiti.

Gesuiti Ignazio LoyolaUn metodo quello del discernimento ignaziano che come ha scritto recentemente il gesuita e scrittore de La Civiltà Cattolica Francesco Occhetta è «capace di distinguere le voci del cuore che ci abitano per poter fare scelte libere, responsabili e consapevoli». E a questa pedagogia ignaziana appresa proprio tra i banchi di scuola dei padri gesuiti hanno sempre fatto spesso riferimento, in fondo, due ex allievi divenuti autentici leader in campo economico e non solo come Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi.

ETICA & FINANZA

A Roma un corso promosso dalla Compagnia di Gesù è sorto per formare grazie al metodo del discernimento figure di alto livello all’interno della Chiesa e del mondo degli affari. Tra le priorità: l’attenzione al bene comune

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Da Avvenire del 28 ottobre 2019

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- 8 maggio 2014

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