Il tempo è ciò che ne facciamo
ALESSANDRO ZACCURI
Tre figli ancora piccoli, un lavoro che lo impegna cinquanta ore alla settimana, quattro insegnamenti universitari sparsi per l’Europa e, oltre a tutto questo, la scrittura di saggi, articoli e libri. L’elenco delle attività in cui è coinvolto aiuta a capire quanto, per Thomas Girst, il tempo sia davvero una questione personale. Manager culturale di Bmw dal 2003, l’autore tedesco ha presentato ieri a Ivrea, nell’ambito del festival 'La Grande Invasione', Tutto il tempo del mondo (add, traduzione di Daniela Idra. Pagine 192. Euro 16), una riflessione nella quale confluiscono racconti dal vero, dati delle più recenti ricerche scientifiche, aneddoti e ricordi. Con un unico obiettivo: cercare di comprendere come mai il tempo sembra non bastarci più, non bastarci mai. «In realtà - avverte Girst - il tempo è sempre ciò che ne facciamo».
Dovremmo imparare a usarlo meglio?
Chi si lamenta per la mancanza di tempo soffre di scarsa autoconsiderazione, di incertezza. Non sa che cosa vuol fare, né che cosa si sente in dovere di fare. Ma ciascuno di noi ha una vocazione ed è tenuto a realizzarla per quanto gli è possibile. Intelligenza, idee e visione d’insieme non contano nulla in confronto alla perseveranza necessaria per portare a termine un simile compito. Questo, almeno, è quanto sosteneva Steve Jobs.
Sì, però è percezione comune che il mondo vada sempre più di fretta.
La Terra ha ruotato su sé stessa alla medesima velocità per cinque miliardi di anni prima che gli esseri umani la trasformassero nell’habitat confortevole che ora stiamo distruggendo. Una volta che si riesce a comprendere e ad accettare che questo pianeta è l’astronave con cui viaggiamo nel cosmo, occorre tenere a mente l’avvertimento di Marshall McLuhan: «Sulla nave spaziale Terra non ci sono passeggeri. Siamo tutti parte della ciurma». Impariamo molto presto ad amare la velocità: dal momento in cui impariamo a camminare e a correre, direi, e dall’istante in cui in nostri genitori ci prendono per mano e ci fanno ruotare in aria. Nell’accelerazione e nella velocità non c’è nulla di sbagliato, almeno finché non mette in pericolo le nostre vite. La virtù da coltivare è la consapevolezza o, meglio, quella che oggi chiamiamo mindfulness.
Nel libro lei però rivendica anche l’importanza della lentezza nei processi creativi: come stabilire un accordofra queste due istanze?
La ricerca dell’equilibrio interiore è un elemento fondamentale, così come lo è l’esperienza personale di ciascuno. Più scaviamo in noi stessi, trovando il coraggio di esplorare il nostro paesaggio interiore, più facilmente individuiamo la misura che ci appartiene. Siamo noi stessi a tenere in pugno le chiavi di questa armonia, come ci ha insegnato santa Teresa d’Avila.
C’è chi sostiene che la tecnologia ci sottragga molto del tempo che dovrebbe farci risparmiare. Lei che ne pensa?
Penso che la tecnologia, non diversamente dalla carta o da una forchetta, possa essere buona o cattiva. Nelle società occidentali la tecnologia dei social media è uno strumento straordinario, che può semplificare la vita, favorire e rafforzare la democrazia in termini di accesso alle informazioni e ai servizi e quindi, sì, liberare molto tempo da impiegare in altri modi. Detto questo, accade troppo spesso che le grandi aziende della Silicon Valley introducano algoritmi che hanno il compito di distrarre gli utenti. La monetizzazione della scoperta fortuita (la cosiddetta serendipity) è uno dei peggiori espedienti di cui il turbocapitalismo si è dimostrato capace. E la sorveglianza attuata per via tecnologica rischia di spianare la strada alle più spietate violazioni dei diritti umani, come sta accadendo nella regione cinese dello Xinjiang con la detenzione illegale di oltre un milione di uiguri.
Di tempo si è parlato molto anche durante il lockdown: che cosa potremmo imparare dalla pandemia?
Sinceramente, considero una fortuna il fatto che questo libro sia uscito in Germania un anno prima della tragedia della Covid-19. Sono un ottimista e, di conseguenza, sono molto riconoscente per non essere stato colpito da perdite irreparabili. Credo che abbia ragione Yuval Noah Harari, quando sostiene che il coronavirus può portarci a dare il meglio di noi stessi. In piena emergenza Arundhati Roy ha scritto che la pandemia è come un portale attraverso il quale non si ritorna affatto alla normalità, comunque la si voglia intendere, né alle ingiustizie, agli orrori, alle terribili sofferenze che gli esseri umani continuano a infliggersi. Al contrario, questo portale va varcato per entrare in un mondo migliore, in vista del quale dobbiamo essere disposti a combattere tutti insieme.
InTutto il tempo del mondolei rievoca molti episodi storici. Qual è il suo preferito?
Il capitolo che amo di più è quello in cui racconto del postino Ferdinand Cheval, che tra il 1879 e il 1912 costruì da solo il suo 'palazzo ideale'. Nel 2015 ho noleggiato un’auto a Marsiglia e mi sono diretto a Hauterives, nel sud-est della Francia, per visitare questo Palais Idéal che avevo sempre voluto visitare e del quale intendevo scrivere nel libro. Ma ci sono così tante storie che si fanno avanti non appena si cominciano a fare ricerche su un determinato argomento o anche solo a parlarne con gli amici.
Nel libro ci sono anche molti riferimenti alla religione: come mai?
Ho descritto processioni e chiese, è vero, e mi sono soffermato sulla musica di Bach, che è quanto di più vicino alla percezione della presenza di Dio si possa avere sulla terra. Penso che dipenda dal fatto che ho frequentato una scuola cattolica e che sono stato chierichetto per più di dieci anni. Tutto questo ha significato molto nella mia vita.
E i suoi molti impegni attuali?
Non me ne faccio un vanto e non me ne lamento. L’esistenza diventa molto noiosa se non ci si spinge mai fuori dai dintorni di noi stessi, se non ci si avventura ai limiti del possibile. La vita non è un tentativo, non è una prova come a teatro. Non possiamo permetterci di spendere giornate intere o addirittura intere settimane senza fare nulla. La mia principale occupazione quotidiana consiste nel coltivare il dubbio e nell’evitare di prendermi troppo sul serio. Gli impegni ci sono, è vero, ma rappresentano un ostacolo superabile, indipendentemente dalle condizioni in cui ci troviamo. Io, per esempio, ho imparato a scrivere i miei libri sfruttando principalmente i viaggi aerei sulle lunghe distanze. Bisogna concentrarsi sulle proprie passioni: è questo che rende bella la vita.
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A colloquio col saggista tedesco e manager culturale della Bmw sulle lancette che corrono e sembrano togliere spazio alle nostre esistenze «Ognuno ha una vocazione ed è tenuto a realizzarla Non ci possiamo permettere di spendere giornate senza fare nulla»
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Da Avvenire del 29 agosto 2020