Con parole precise
Con parole precise
«Non pensate a un elefante!», ingiunge George agli studenti di scienze cognitive all'Università di Berkeley. Nessuno è mai riuscito ad eseguire il compito. Se dico a qualcuno di non pensare a un elefante, l'unica cosa che può accadere è che questo qualcuno pensi immediatamente all'immagine del pachiderma.
Gianrico Carofiglio - Con parole Precise
PIET MONDRIAN, L’ARTE SENZA CORNICI
PIET MONDRIAN, L’ARTE SENZA CORNICI
Lucian Lechintan S.I.
Generalmente si passa in fretta accanto ai frammenti di arte astratta sparsi nello spazio pubblico e nei musei, talvolta con indignazione o ironia. Per la maggior parte delle persone, la mancanza dell’oggetto in un’opera d’arte costituisce un’esperienza sconcertante, associata per lo più all’incapacità dell’artista di creare un modello di disegno. Questo scritto vuole suggerire il contrario, cioè che la scelta di staccarsi dal figurativo è un’opzione coraggiosa, e che gli artisti che hanno fatto questo passo riescono a trasmettere un messaggio universale, al pari dell’arte classica.
Nel centocinquantesimo anniversario della nascita di Piet Mondrian (1872-1944), che ricorre il 7 marzo di quest’anno, risuonano ancora le parole profetiche pronunciate nel 1926 da Katherine Dreier, secondo le quali i Paesi Bassi hanno conosciuto tre grandi artisti, che, «sebbene fossero l’espressione logica della loro nazione, acquisirono risonanza internazionale grazie al vigore delle loro personalità: il primo era Rembrandt, il secondo Van Gogh e il terzo Mondrian»
1. Il successo della mostra al Mudec di Milano e i dibattiti recenti sulla figura dell’artista ci offrono l’occasione di constatare quanto i suoi quadri siano divenuti parte del nostro quotidiano, mentre rivendicano ancora la comprensione della loro portata rivoluzionaria.
L’arte rende l’uomo consapevole
All’inizio, Mondrian si è affermato come un raffinato pittore naturalista. Arrivato a una svolta, egli sceglie con molta determinazione la via dell’astrazione, che non abbandonerà più, nonostante la mancanza di commissioni e la vita di stenti alla quale sarà relegato per molto tempo. Quali sono stati i presupposti di una scelta così radicale? Come si spiega il continuo ritornare dell’artista sulle sue impronte, intervenendo a più riprese sulle sue composizioni? Per rispondere a queste domande, occorrerà introdursi nel vivo della società olandese della fine del XIX secolo e negli importanti cambiamenti avvenuti in essa.
Questo periodo coincide in Olanda con la forte industrializzazione dei centri urbani, accompagnata dalla campagna di fondazione o di restauro di chiese e di costruzione di quartieri popolari, fenomeno che portò allo sviluppo di rami artistici collaterali, come la pittura murale o la tecnica delle vetrate. Su questo terreno di elaborazione concreta, diventano fondamentali per gli artisti le teorie concepite soprattutto in Germania, e tra esse ha una certa preminenza quella dei colori. Per Goethe, alcuni colori sono radiosi, altri spirituali, ma nella loro essenza tutti si possono ridurre al bianco e al nero. In seguito, uno dei principi fondamentali dell’arte astratta sarà rappresentato dall’armonia cromatica della composizione e dall’introduzione del colore all’interno di un reticolo portante, simile al vetro colorato nella gola del righello.
Qualsiasi artista alla ricerca di un interlocutore usa varie strategie per avvicinarlo. Le ritroviamo anche nella pittura di Mondrian, talvolta eccessivamente accentuate da un certo tipo di interpretazione. Senza rinchiudere i propri spettatori in considerazioni generiche, l’artista stimola il proprio pubblico ad affrontare con lui alcune domande concrete, insieme alle sue intuizioni sulla vita, sulla società e sui valori dello spirito. Come afferma in uno dei suoi scritti: «Il contenuto della cultura occidentale consiste soprattutto nel rendere l’uomo consapevole». Mondrian credeva soltanto nell’arte capace di provocare una riflessione su temi profondi, nell’arte che diventa confronto, senza accontentarsi della visione illusionistica o decorativa, specifica dell’arte tradizionale.
La linea «quasi opera d’arte»
Il cammino di Mondrian verso l’astrazione ha avuto alcune tappe fondamentali. Una di esse è il primo periodo parigino, inaugurato nel 1912: periodo nel quale l’artista perfeziona la sua tecnica entrando in contatto con i pittori cubisti. Nel 1914 Mondrian ritorna in Olanda per far visita al padre malato, ma, a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, non può più a tornare a Parigi. Si stabilisce allora a Domburg, una località sul Mare del Nord, dove ritorna ai soggetti dipinti negli anni del suo successo: la torre della chiesa di Domburg, il faro di Westkapelle, le dune di sabbia, emblemi pittoreschi dipinti nel passato in ipostasi realistiche, simbolistiche o luministe. Secondo Yves Alain-Bois, è proprio questo lavoro in serie che ha portato Mondrian a concepire la possibilità dell’astrazione. A esso si aggiunge certamente il bagaglio sperimentale acquisito a Parigi, a contatto con Pablo Picasso e Fernand Léger.
Una lettera del 1919, indirizzata a Theo van Doesburg, ci fa capire che il passo verso l’astrazione era già stato compiuto: «Ora lavoro – afferma l’artista – alla ricostruzione di un cielo stellato, ma senza rifarmi a un dato presente in natura». L’astrazione diventa qui il resoconto intuitivo di una visione sorta nell’a priori, prima di situarsi in un punto di vista particolare. A un amico, che nella sua opera Molo e oceano - Composizione 10, in bianco e nero (1915) nota «l’atmosfera gioiosa del Natale», Mondrian risponde chiaramente: «Il significato del quadro – nel senso normale della rappresentazione – non era importante, e avevi ragione ad affermare che i miei lavori comunicano un sentimento natalizio… Se si visualizza l’idea del Natale in maniera totalmente astratta, si visualizzano la pace, l’equilibrio, il dominio spirituale ecc. Deve essere questo che intendevi». L’abbandono della forma particolare e la ricerca di nuovi rapporti universali anticipa l’idea che illustreremo in seguito: quella che l’arte ha un ruolo essenziale per l’equilibrio dell’umanità.
Per Mondrian, l’obiettivo dell’arte non è soltanto quello di costruire lo spazio, ma anche quello di rivendicare per esso una consistenza qualitativa. Per questo l’artista era sempre attento al modo in cui venivano esposti i propri lavori, alla posizione e alla luce necessaria. Nel 1915 egli scriveva a Theo van Doesburg: «La linea è diventata quasi opera d’arte per se stessa; non ci si può trastullare con lei». La linea è interrotta o percorre la tela da una parte all’altra, talvolta è affetta dal cromatismo, ma il più delle volte è un semplice tratteggio nero, retto, attraverso il quale si annuncia un nuovo piano visivo. Le linee non sono quasi mai vibrate e si aggregano nella composizione seguendo leggi rigorose. In un’altra lettera, indirizzata allo stesso van Doesburg, Mondrian precisa: «Si tratta, come si può vedere, di una composizione di linee verticali e di linee orizzontali che, in senso astratto, devono dare l’idea di una tensione verso l’alto, di un moto verticale: è la stessa idea che un tempo era collegata alla costruzione delle cattedrali».
Mondrian arriva a superare l’idea di cornice e vuole indirizzare lo spettatore al di là dello spazio ristretto di una tela. Per esempio, nella Composizione a losanga del 1921, se si guardano attentamente le linee nere, esse non toccano mai i margini del quadro. Esiste una sola eccezione: quella dell’orizzontale al centro, che si spinge nella parte destra oltre la tela. Questo procedimento è riconoscibile anche nell’arte delle icone, dove si verifica che la preminenza della frontalità è soppiantata da un particolare: ad esempio, un piede o un’aureola che fuoriesce dal quadro nella trascuratezza dell’impianto. L’artista era quindi consapevole che la bidimensionalità aveva ancora delle risorse inesplorate; che l’Occidente si era concentrato esclusivamente sulla tridimensionalità, cercando di imitare più perfettamente la natura, creando l’illusione della realtà.
In cammino verso la bellezza reale
Il saggio «Il neoplasticismo in pittura» (De Nieuwe Beelding), nel quale si trovano le basi teoriche della svolta proposta da Mondrian, fu pubblicato in parte nel primo numero della rivista De Stijl (1917), redatta da Theo van Doesburg, e nei numeri successivi a cadenza mensile, fino al mese di dicembre del 1918. Il pittore poi ritorna costantemente sulle sue concezioni teoriche, e in un saggio del 1931, per spiegare il concetto di neoplasticismo, parte da una legge non scritta della natura: quella dell’ondulazione universale. Basta sezionare il tronco di un albero per capire che gli anelli di crescita sono disposti in cerchi concentrici; oppure far rimbalzare un sasso sulla superficie dell’acqua per percepire i cerchi concentrici che si formano.
Alle leggi della creazione il pittore contrappone una prospettiva puramente razionale, che contraddice il ritmo della natura: la costruzione nella cadenza di linee rette e ortogonali, in continuo riferimento alla forma del quadrato. A livello di percezione, la successione di queste linee porterà alle cosiddette «equivalenze», un equilibrio che compensa ciò che nella natura si trova in disequilibrio o non è ancora giunto alla consapevolezza di sé. Al ritmo opprimente della vita Mondrian oppone il concetto di «ritmo semplice», purificato da ogni contraddizione, che sorge dall’equivalenza. Se nel passato l’arte si concentrava sulla forma particolare, la nuova arte dovrà occuparsi di quei rapporti che sono apparentemente contradittori: la linea orizzontale e quella verticale. Il risultato di tali elaborazioni consisterà nella creazione di una «nuova cultura d’arte». A livello sociale, acquisire l’equivalenza coincide con la scelta di una cultura della vita: l’impegno contro l’oppressione e lo sfruttamento, contro il militarismo, e contro il trascurare il disabile.
Dopo il periodo trascorso in Olanda – tempo nel quale l’artista ha dipinto poco, dedicandosi soprattutto, nell’estate del 1919, all’elaborazione delle basi del neoplasticismo –, Mondrian ritorna a Parigi. È un periodo intenso di creazione, che si riflette anche nella Composizione con giallo, rosso, nero, blu e grigio (1920), considerata da Joop Josten come il primo quadro di espressione neoplastica. Qui il discorso pittorico si svolge su un piano ravvicinato e in assenza di un punto di vista particolare, dal momento che il campo visivo è costituito dall’intera superficie del dipinto. L’artista è alla ricerca di nuove formule per esprimere l’idea di equivalenza, e in questo senso svincola la tela dall’idea di «centro della composizione», compensandola attraverso l’equilibrio cromatico. Le tonalità di bianco qui dialogano con i rettangoli colorati nelle tonalità semplici dei colori di base. Gli spazi di colore grigi e neri servono a mettere in rilievo l’intero rappresentazionale, evitando così, attraverso un riuscito accordo cromatico, l’idea di fondo o quella di profondità dell’immagine. Tuttavia, a causa di una concezione quasi simmetrica, l’attenzione dello spettatore resta ancora rivolta all’interno del quadro, senza essere proiettata al di fuori, come si è visto nella Composizione a losanga del 1921.
La città, luogo di memoria e profezia
I quadri dell’ultimo periodo artistico di Mondrian sono tra i più interessanti, per lo spunto che traggono dai paesaggi urbani parigini, londinesi e newyorkesi. Essi nascono dalla consapevolezza che «tutto ciò che si dà come fatto storico è interpretabile, suscettibile di attribuzione di valore, oggetto di giudizio». La pittura riferita alla città non è necessariamente volta a rivelare una sintonia dell’artista con le sue realtà: Mondrian era consapevole delle disuguaglianze che vi si trovavano. Tuttavia, all’interno di queste megalopoli, al di là di ogni mutamento, l’artista assume il compito di cogliere le loro basi rigenerative. Si tratta di un progetto che affonda le radici nella prima tappa del cammino dell’artista verso l’astrazione, quando nel 1922 egli annunciava che «la completa realizzazione del neoplasticismo dovrà avvenire in una molteplicità di edifici, come città». Come osserva Anna Vallye, per gli artisti dell’epoca le architetture urbane non sono più progetti in scatola, ma «di natura incorporea che dissolve il volume nell’aria e che annulla le distinzioni tra interno ed esterno».
Place de la Concorde è tra i quadri più significativi di questo ultimo periodo creativo, e si segnala per la sua lunga gestazione dal 1938 al 1943. Il pittore è tornato continuamente su questo quadro, nelle peregrinazioni continentali fino all’ultimo periodo newyorkese. Inoltre, esso nasce dopo un periodo creativo molto sobrio dal punto di vista cromatico. La rappresentazione ha come riferimento un paesaggio reale, uno dei luoghi più frequentati sull’asse che attraversa il centro di Parigi. Dalla topografia reale della piazza l’artista riprende soltanto la vaga idea di uno spazio centrale, possibile allusione alla forma dell’impianto ottagonale della piazza. Questo volume, in rapporto alle traiettorie dei colori primari che dai lati avanzano verso di lui, si presenta come un grembo privo di qualsiasi vitalità coloristica. Il reticolo di linee nere, alle quali non si sovrappongono affatto i colori, è a sua volta implicato, in modo del tutto autonomo, in un gioco di intersecazioni. Un modulo di due linee orizzontali e parallele viene ripetuto, ogni volta con dimensioni differenti. Come faceva notare Yves-Alain Bois riguardo ad altri quadri della stessa serie, si tratta di una falsa ripetizione, o piuttosto del «gioco con qualsiasi ripetizione». L’artista avvolge di ottimismo la composizione, e la serie di quadri ispirati dai paesaggi urbani è il preludio a «un’architettura del futuro», quella che avrà come fondamento «l’instaurazione di pure relazioni e di colori puri».
L’arte fa sperare
Mondrian ha volto lo sguardo a una bellezza che non è sensibile e immediata, legata più al «sesto senso» che alle forme sensibili o estetizzanti. Per lui, la bellezza coincide con la possibilità di elevarsi dalla forma particolare a quella universale, più esattamente all’«universalmente valido». Nell’opinione dell’artista, per essere veritiere, le forme devono attraversare il fuoco della purificazione dell’astrazione. L’arte non è una questione di gusto, ma di verità e di dogma. Ciò che è «bello » dev’essere anche vero: qui non c’è più la possibilità di una deroga. Attraversando il «punto zero», che è l’astrazione, l’arte rinasce continuamente dalle proprie ceneri in una molteplicità di espressioni. L’arte astratta si trova in un rapporto di continuità, e non di rottura, con l’arte realista, quella concepita in funzione di un modello. La giovialità, l’arricchimento cromatico, la rinuncia alle linee nere sono le caratteristiche dell’ultima tappa creativa di Mondrian, avvolta in un ottimismo sorprendente. Come afferma l’artista, «l’arte fa sperare». Essa ha il doppio ruolo dimostrativo e profetico, quello di aiutare a capire che la libertà è possibile, «in modo da poterci riavvicinare al vero sentimento e ricuperare il buon cuore. […]. Molti secoli fa fu imposto l’alto messaggio dell’amore universale: anche se la sua influenza è innegabile, l’uomo non è mutato. Noi insistiamo dunque su ciò che si è rivelato irrealizzabile».
Per Mondrian, quanto più, nella nostra epoca, si fa l’esperienza del «vuoto», dell’inquietudine e dei disequilibri, tanto più si è coinvolti nella logica ricerca di una «nuova bellezza». Il fatto che questa esiste è il messaggio del pittore olandese, che nel panorama dell’arte del XX secolo rimane quello che era sempre stato: una figura solitaria, ma certamente un grande umanista.
1. K. Dreier - H. Janssen, «La modernità di Mondrian», in B. Tempel(ed.), Mondrian. L’ armonia perfetta, catalogo di mostra (Roma, 8 ottobre 2011 - 29 gennaio 2012), Milano, Skira, 2011, 36. Certamente il fatto di aver dimenticato Vermeer è sorprendente.
2. La mostra Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione, in corso fino al 27 marzo 2022 presso le sale del Museo delle Culture di Milano, raccoglie più di 60 capolavori portati dal Kunstmuseum Den Haag dell’Aja. Per l’occasione, è stato pubblicato anche un catalogo: B. Tempel (ed.), Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione, Milano, Motta 24 ore Cultura, 2021.
3. Cfr M. White, «De Stijl: un’arte per il popolo?», ivi, 64.
4. Cfr Come osserva Els Hoek, i primi studi su Mondrian accentuavano l’importanza delle scelte cromatiche compiute dall’artista. Ad esempio, nel 1932, Jacob Bendien attribuiva a ciascun colore impiegato un significato: «Il giallo è da porre in relazione al senso di attivismo, l’azzurro alla passività, il rosso alla vita naturale, il nero alla morte, il bianco alla potenzialità vitale; il grigio neutrale, colore che si trova a metà strada fra nero e bianco, per lo più esprime il senso di tedio per la vita […]. L’effetto non dipendeva soltanto dalla scelta del colore, ma veniva condizionato in buona misura anche dalla quantità e dalla posizione dei colori sulla tela. Un piano di colore nella parte superiore della composizione aveva un valore completamente diverso da un piano identico posto nella parte inferiore e, situato a destra, aveva un effetto diverso che situato a sinistra» (E. Hoek, «Piet Mondrian», in C. Blotkamp[ed.], De Stijl. Nascita di un movimento, Milano, Electa, 1989, 117; 125, nota 73).
5. P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova vita», in Id.,Tutti gli scritti, Milano, Feltrinelli, 1975, 298.
6. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», in Id.,Piet Mondrian (1872-1944), Milano, Leonardo Arte, 1994, 313 s.
7. P. Mondrian, «Lettera a H.-P. Bremmer», 5 gennaio 1916: cfr ivi, 170.
8. Cfr H. Janssen, «La modernità di Mondrian», cit., 45 s.
9. Parole di Theo van Doesburg che si riferiscono alla Composizione 10. Cfr S. Polano, «Introduzione a “De Stijl”», in Id. (ed.), Theo van Doesburg. Scritti d’arte e di architettura, Roma, Officina Edizioni, 1979, 256.
10. P. Mondrian, «Lettera a Theo van Doesburg» (ca. 1915), in G. Fanelli,De Stijl, Roma - Bari, Laterza, 1983, 5. Sul rapporto di Mondrian con le dottrine teosofiche, cfr M. Di Capua, «Mistico Mondrian», in Mondrian l’armonia perfetta, cit., 68-77.
11. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 353. Per la questione dell’assenza delle cornici, problema che ha ispirato anche il titolo del nostro saggio, cfr A. Vallye, «Il pittore sul boulevard», in F. Léger,La visione della città contemporanea, Milano, Skira, 2014, 41 s.
12. Cfr P. Mondrian, «Il neoplasticismo in pittura», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 29- 76. Cfr S. Polano (ed.), Theo van Doesburg, cit., 252-270.
13. Cfr P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova arte», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 285.
15. Cfr Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 367, nota 31.
16. G.-C. Argan,Storia dell’arte come storia della città, Roma, Editori Riuniti, 1993, 228.
17. P. Mondrian, «La realizzazione del neoplasticismo nel lontano futuro e nell’architettura d’oggi. (L’architettura concepita come il nostro ambiente totale [non naturale])», in G. Fanelli,De Stijl, cit., 176.
18. A. Vallye, «Il pittore sul boulevard», cit., 42.
19. Y.-A. Bois, «L’iconoclasta», cit., 361.
20. P. Mondrian, «Verso la visione vera della realtà», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 381.
21. Id., «La realizzazione del neoplasticismo…», cit., 175.
22. P. Mondrian, «L’arte nuova, la nuova vita», in Id.,Tutti gli scritti, cit., 313 s.
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Da: La Civiltà Cattolica – 4121 – 5/19 marzo 2022
Valorizzare le eccellenze, imparando a fare gioco di squadra
«Il ricercatore può fare impresa solo imparando a fare un passo indietro»
La missione del Cnr. La neo presidente del più grande centro di ricerca italiano spiega i suoi obiettivi: «Creare le condizioni perché siano riconosciuti e rispettati i diversi ruoli per poter valorizzare le eccellenze. Imparando a fare gioco di squadra»
Alberto Di Minin
Nel corso della sua esperienza accademica, imprenditoriale e istituzionale, Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche fresca di nomina, afferma di aver compreso che la ricerca riesce a muovere un passo avanti verso l’impresa e il mercato quando il ricercatore è in grado di fare un passo indietro. Ciò può avvenire solo al verificarsi di condizioni particolari. Realizzarle sembra essere l’obiettivo della trasformazione che ha in mente per il più grande ente di ricerca italiano.
Innanzitutto, per quale ragione in un percorso di trasferimento tecnologico il ricercatore deve compiere un passo indietro? Il motivo principale, secondo Carrozza, sta nel fatto che uno spinoff di ricerca non può essere gestito nello stesso modo e con le stesse ambizioni con cui opera un gruppo accademico: «Una cosa è fare scienza, un’altra fare impresa». Inoltre, è assai difficile che uno spinoff abbia successo senza che i suoi obiettivi di crescita siano condivisi e supportati da partner esterni, sia finanziari che industriali: «Il ruolo dello scienziato-imprenditore è centrale nelle prime fasi di sviluppo, quando cioè nasce un’idea di business basata su scienza e tecnologia», ma può diventare un freno quando l’azienda si impunta su una via solitaria verso il mercato.
Il rischio nel percorso dell’imprenditorialità accademica non si trova però solo nell’inesperienza o nelle errate convinzioni del ricercatore. Esso talvolta risiede in una mancata o scorretta accoglienza dello spinoff da parte dell’ecosistema. I soci industriali e finanziari che accompagnano il percorso di trasferimento tecnologico devono mostrare di comprendere e rispettare una cultura d’impresa peculiare, nelle parole di Carrozza, «sono tenuti essi stessi a fare un passo indietro e resistere alla tentazione di ingessare uno spinoff di ricerca con le logiche e i modelli tipici della grande azienda corporate».
Se è vero che uno spinoff non può rifarsi alle pure logiche del laboratorio di ricerca, imporle le prassi di una grande azienda significa limitarne la flessibilità e ridurne la spinta propulsiva. Inoltre, il nucleo fondatore di una startup potrebbe reagire a questa irreggimentazione irrigidendosi a sua volta, mostrando meno sicurezza e propensione ad affidarsi a una strategia di innovazione collaborativa proposta da consulenti esterni. Nel suo vissuto di imprenditrice, Carrozza ha ben chiaro quanto è importante il contributo di industria e finanza, ma conosce anche le potenzialità del giusto mix di prassi e modelli di business che sono più funzionali alla collaborazione tra startup e grande impresa.
Nell’impianto della nuova presidente, è altresì chiaro come procedure e regole possano giocare un ruolo chiave nel processo di trasferimento tecnologico: «Abbiamo bisogno di giuristi d’impresa che mettano in campo servizi veloci e abilitanti», fondamentali per la definizione di contratti, la protezione della proprietà industriale, la fiscalità, la finanza e la strategia aziendale. Sono servizi che, laddove efficaci, permettono una maggiore fiducia da parte di tutti gli operatori del sistema. «L’amministrazione pubblica di un ente di ricerca deve renderli accessibili ai ricercatori e ai partner industriali nell’ottica del problem solving».
Secondo la presidente, la missione delle attività di trasferimento tecnologico e valorizzazione della ricerca dell’istituto dovrebbe essere quella di «abilitare, e non frenare, il ricercatore che dimostri capacità imprenditoriale, track record scientifico, volontà di trasferire sul mercato creando benessere e occupazione». Il sistema amministrativo gestionale non sempre dà fiducia ai ricercatori, imponendo vincoli e regole talvolta eccessivi «perché si parte da una presunzione di colpa», senza tenere conto di motivazioni e opportunità che un ricercatore ha davanti.
Ma c’è una questione chiave: se la priorità per un’organizzazione con settemila dipendenti consista nel liberare la forza delle eccellenze o piuttosto nell’elevare la qualità media del lavoro dei ricercatori. «La questione non va posta in questi termini», mi corregge. Un’altra lezione tratta dalla sua esperienza di ricercatrice è infatti quella per cui non esiste eccellenza senza un contesto di qualità elevata. Lo spiega con un’analogia che riporta alle sue origini toscane: «A Pisa c’è una prestigiosa scuola di scherma che ha saputo imporsi a livello nazionale e conquistare medaglie e soddisfazioni». Non l’ha però fatto puntando sui rari atleti eccellenti e dimenticandosi di tutto il resto: «Il successo è frutto di anni di lavoro di maestri e allievi che hanno creato una squadra e hanno nel complesso innalzato la qualità media degli schermisti. Da questo nucleo che si allenava e imparava insieme sono fioriti i fuoriclasse». Anche la strategia di sviluppo del Cnr dovrà dunque andare a mettere al centro la valorizzazione delle eccellenze, in un contesto che deve però essere globalmente sostenuto ed elevato.
In sintesi, creare le condizioni che consentono al ricercatore di fare un passo indietro e alla ricerca un passo avanti verso il mercato vuol dire riconoscere e rispettare i diversi ruoli che partner accademici e industriali ricoprono, gettando così le basi per un rapporto di fiducia e collaborazione. Vuol dire dotarsi di regole e procedure veloci ed efficaci, che abilitano soluzioni invece di creare ostacoli. Vuol dire presidiare un contesto di qualità della ricerca diffusa in grado di incubare e fare sviluppare le punte di diamante. Ecco la ricetta con cui la neo presidente Carrozza si appresta a rafforzare il ruolo del Cnr come motore propulsivo dell’innovazione italiana.
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Da Il Sole 24 Ore - 25 aprile 2021
Il tempo è ciò che ne facciamo
ALESSANDRO ZACCURI
Tre figli ancora piccoli, un lavoro che lo impegna cinquanta ore alla settimana, quattro insegnamenti universitari sparsi per l’Europa e, oltre a tutto questo, la scrittura di saggi, articoli e libri. L’elenco delle attività in cui è coinvolto aiuta a capire quanto, per Thomas Girst, il tempo sia davvero una questione personale. Manager culturale di Bmw dal 2003, l’autore tedesco ha presentato ieri a Ivrea, nell’ambito del festival 'La Grande Invasione', Tutto il tempo del mondo (add, traduzione di Daniela Idra. Pagine 192. Euro 16), una riflessione nella quale confluiscono racconti dal vero, dati delle più recenti ricerche scientifiche, aneddoti e ricordi. Con un unico obiettivo: cercare di comprendere come mai il tempo sembra non bastarci più, non bastarci mai. «In realtà - avverte Girst - il tempo è sempre ciò che ne facciamo».
Dovremmo imparare a usarlo meglio?
Chi si lamenta per la mancanza di tempo soffre di scarsa autoconsiderazione, di incertezza. Non sa che cosa vuol fare, né che cosa si sente in dovere di fare. Ma ciascuno di noi ha una vocazione ed è tenuto a realizzarla per quanto gli è possibile. Intelligenza, idee e visione d’insieme non contano nulla in confronto alla perseveranza necessaria per portare a termine un simile compito. Questo, almeno, è quanto sosteneva Steve Jobs.
Sì, però è percezione comune che il mondo vada sempre più di fretta.
La Terra ha ruotato su sé stessa alla medesima velocità per cinque miliardi di anni prima che gli esseri umani la trasformassero nell’habitat confortevole che ora stiamo distruggendo. Una volta che si riesce a comprendere e ad accettare che questo pianeta è l’astronave con cui viaggiamo nel cosmo, occorre tenere a mente l’avvertimento di Marshall McLuhan: «Sulla nave spaziale Terra non ci sono passeggeri. Siamo tutti parte della ciurma». Impariamo molto presto ad amare la velocità: dal momento in cui impariamo a camminare e a correre, direi, e dall’istante in cui in nostri genitori ci prendono per mano e ci fanno ruotare in aria. Nell’accelerazione e nella velocità non c’è nulla di sbagliato, almeno finché non mette in pericolo le nostre vite. La virtù da coltivare è la consapevolezza o, meglio, quella che oggi chiamiamo mindfulness.
Nel libro lei però rivendica anche l’importanza della lentezza nei processi creativi: come stabilire un accordofra queste due istanze?
La ricerca dell’equilibrio interiore è un elemento fondamentale, così come lo è l’esperienza personale di ciascuno. Più scaviamo in noi stessi, trovando il coraggio di esplorare il nostro paesaggio interiore, più facilmente individuiamo la misura che ci appartiene. Siamo noi stessi a tenere in pugno le chiavi di questa armonia, come ci ha insegnato santa Teresa d’Avila.
C’è chi sostiene che la tecnologia ci sottragga molto del tempo che dovrebbe farci risparmiare. Lei che ne pensa?
Penso che la tecnologia, non diversamente dalla carta o da una forchetta, possa essere buona o cattiva. Nelle società occidentali la tecnologia dei social media è uno strumento straordinario, che può semplificare la vita, favorire e rafforzare la democrazia in termini di accesso alle informazioni e ai servizi e quindi, sì, liberare molto tempo da impiegare in altri modi. Detto questo, accade troppo spesso che le grandi aziende della Silicon Valley introducano algoritmi che hanno il compito di distrarre gli utenti. La monetizzazione della scoperta fortuita (la cosiddetta serendipity) è uno dei peggiori espedienti di cui il turbocapitalismo si è dimostrato capace. E la sorveglianza attuata per via tecnologica rischia di spianare la strada alle più spietate violazioni dei diritti umani, come sta accadendo nella regione cinese dello Xinjiang con la detenzione illegale di oltre un milione di uiguri.
Di tempo si è parlato molto anche durante il lockdown: che cosa potremmo imparare dalla pandemia?
Sinceramente, considero una fortuna il fatto che questo libro sia uscito in Germania un anno prima della tragedia della Covid-19. Sono un ottimista e, di conseguenza, sono molto riconoscente per non essere stato colpito da perdite irreparabili. Credo che abbia ragione Yuval Noah Harari, quando sostiene che il coronavirus può portarci a dare il meglio di noi stessi. In piena emergenza Arundhati Roy ha scritto che la pandemia è come un portale attraverso il quale non si ritorna affatto alla normalità, comunque la si voglia intendere, né alle ingiustizie, agli orrori, alle terribili sofferenze che gli esseri umani continuano a infliggersi. Al contrario, questo portale va varcato per entrare in un mondo migliore, in vista del quale dobbiamo essere disposti a combattere tutti insieme.
InTutto il tempo del mondolei rievoca molti episodi storici. Qual è il suo preferito?
Il capitolo che amo di più è quello in cui racconto del postino Ferdinand Cheval, che tra il 1879 e il 1912 costruì da solo il suo 'palazzo ideale'. Nel 2015 ho noleggiato un’auto a Marsiglia e mi sono diretto a Hauterives, nel sud-est della Francia, per visitare questo Palais Idéal che avevo sempre voluto visitare e del quale intendevo scrivere nel libro. Ma ci sono così tante storie che si fanno avanti non appena si cominciano a fare ricerche su un determinato argomento o anche solo a parlarne con gli amici.
Nel libro ci sono anche molti riferimenti alla religione: come mai?
Ho descritto processioni e chiese, è vero, e mi sono soffermato sulla musica di Bach, che è quanto di più vicino alla percezione della presenza di Dio si possa avere sulla terra. Penso che dipenda dal fatto che ho frequentato una scuola cattolica e che sono stato chierichetto per più di dieci anni. Tutto questo ha significato molto nella mia vita.
E i suoi molti impegni attuali?
Non me ne faccio un vanto e non me ne lamento. L’esistenza diventa molto noiosa se non ci si spinge mai fuori dai dintorni di noi stessi, se non ci si avventura ai limiti del possibile. La vita non è un tentativo, non è una prova come a teatro. Non possiamo permetterci di spendere giornate intere o addirittura intere settimane senza fare nulla. La mia principale occupazione quotidiana consiste nel coltivare il dubbio e nell’evitare di prendermi troppo sul serio. Gli impegni ci sono, è vero, ma rappresentano un ostacolo superabile, indipendentemente dalle condizioni in cui ci troviamo. Io, per esempio, ho imparato a scrivere i miei libri sfruttando principalmente i viaggi aerei sulle lunghe distanze. Bisogna concentrarsi sulle proprie passioni: è questo che rende bella la vita.
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A colloquio col saggista tedesco e manager culturale della Bmw sulle lancette che corrono e sembrano togliere spazio alle nostre esistenze «Ognuno ha una vocazione ed è tenuto a realizzarla Non ci possiamo permettere di spendere giornate senza fare nulla»
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Da Avvenire del 29 agosto 2020
However I felt didn’t get me or them anywhere
Joan Didion
The legendary journalist and author of Let Me Tell You What I Mean on boredom, the Central Park Five and plans for Easter
—LUCY FELDMAN
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Lucy Feldman è un caporedattore per TIME e sovrintende all'ampia copertura di libri e autori della rivista. Durante il suo mandato, Colson Whitehead e Margaret Atwood sono diventati i primi autori in un decennio ad apparire sulla copertina di TIME. In precedenza, ha ricoperto ruoli presso Vanity Fair e il Wall Street Journal, dove dirigeva il WSJ Book Club.
https://time.com/author/lucy-feldman/)
Didion’s new book collects essays on Nancy Reagan, Martha Stewart and the art of writing(PIETER M. VAN HATTEM—CONTOUR BY GETTY IMAGES)
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A question that must be asked in these trying times: How are you feeling?
I feel fine. Slightly bored, but fine.
You once said that the bout with vertigo and nausea you had in the summer of 1968 was not an inappropriate response to that period. What’s an appropriate response to 2020?
Vertigo and nausea sound right.
You wrote two of the defining books on grief, The Year of Magical Thinking and Blue Nights. What would you say to the millions who have lost loved ones in the past year?
I don’t know. I don’t know that there’s anything to say.
Do you fear death?
No. Well, yes, of course.
Do you have hope?
Hope for what? Not particularly, no.
New York has completely changed since the pandemic hit. What do you miss most?
I miss having my friends to dinner. On the other hand, my wine bills have gone down.
Which feels more like home: New York or California?
Both.
What makes a better journalist: the ability to empathize, or the ability to observe with detachment? Which is your greater strength? I don’t know that I’m good at either.
What do you make of the old adage, write what you know?
I don’t make anything of it.
Do you ever reread your past writing? If so, what do you think?
Sometimes I do. Sometimes I think something is well done, sometimes I think, Whoops.
What does it mean to you to be called the voice of your generation?
I don’t have the slightest idea.
You famously wrote a piece in 1991 suggesting that the Central Park Five were wrongfully convicted. How did you feel when they were exonerated?
However I felt didn’t get me or them anywhere.
How does it feel to be a fashion icon?
I don’t know that I am one.
Is there anything you wish to achieve that you have not?
Figuring out how to work my television.
And what would you watch?
Aside from the news, nothing comes to mind. Documentaries, maybe. Some series.
What are you most looking forward to in 2021?
An Easter party, if it can be given.
‘HOWEVER I FELT DIDN’T GET ME OR THEM ANYWHERE’
https://www.theguardian.com/books/2011/nov/11/blue-nights-joan-didion-review
Blue Nights by Joan Didion – review
Joan Didion's memoir of the death of her daughter is troubling
Joan Didion with her daughter Quintana Roo Dunne at their Malibu home in 1976. Photograph: John Bryson/Time Life Pictures
oan Didion's The Year of Magical Thinking was a book that seemed to lend a certain credibility to a form – the memoir – that is sometimes regarded with suspicion, as a kind of sabbatical from the writerly duty to be interested in things other than oneself. On the contrary: The Year of Magical Thinking was instantly identified as a necessary book. An account of the year that followed the sudden death of Didion's husband of 40 years, the screenwriter John Gregory Dunne, it articulated a private experience – the experience of bereavement – for which it is difficult to find public expression. Blue Nights is a tragic kind of sequel to The Year of Magical Thinking, describing the subsequent death of Didion's daughter Quintana, aged only 39: where the earlier book drew its strength from the common well of suffering, the follow-up must grapple with the awful particularity of Didion's misfortunes.
Some of the best literary memoirs – Lorna Sage's Bad Blood, Mary McCarthy's Memories of a Catholic Girlhood, Paula Fox's Borrowed Finery – describe the author's survival of extreme or extraordinary circumstances. Others –The Year of Magical Thinking is one – document the effects on the author of events (in this case the death of a spouse) which, though difficult to bear, are universal and ordinary. The former might be said to be turning chaos into order, transforming or redeeming chaotic experience with the orderliness of the author's prose and the rational mind from which it issues; the latter begin with the proposition of order and proceed, through the honesty of their writing, to challenge and disrupt it. This is a delicate and difficult undertaking, for obvious reasons. To personalise common experiences is to assert a version of them with which others might not agree. The memoirist, while placing an unusual degree of trust in the reader, is also exposing herself to their judgment. She hopes to speak for everyone; she risks being ridiculed for speaking only for herself. Yet the very thing she is often exposing – as in Didion's case – is her vulnerability.
The memoir, being nominally a confessional form, has an interesting relationship to honesty; much like the confessional box itself, the question of whether disclosure is a need or a duty is obscured somewhere in the covenant between penitent and priest. The penitent is tired of harbouring her sins; she wishes to invoke the judgment that will free her from the truth she has told. But will she prize this freedom quite so highly if instead of forgiveness, damnation is the consequence of her honesty? The penitent wants to disburden herself, to get things off her chest. The memoir-writer may at the time not be sure why he or she wishes to place private material in the public domain, but perhaps – if "experience" can take the place of "sin" – it's for much the same reason.
The Year of Magical Thinking, published in 2005, was honest about numerous things: what it's like when someone you know and love dies right in front of you, what it's like to come home alone from the hospital and scrape the dinner you'd prepared for you both uneaten off the plates, what grief feels like, what trauma feels like. Didion's candour about these things was welcome, for in bereavement the public and private struggle to be reconciled: between mourning as public fact and mourning as private experience lies a gulf that Didion, as a writer, was able to navigate. The delineation of this uncharted space – between public and private, between what seems and what is – defines the moral core of memoir as a form. The book also had a strong streak of narcissism on which the reader, like the priest, was called to exercise forgiveness. "I wore a short white silk dress I had bought at Ransohoff's in San Francisco on the day John Kennedy was killed," Didion wrote, as a random instance, recalling her wedding day. The glamorising of her own experience, what might be called the sin of self-importance, risked undoing her achievement by alienating the "ordinary" reader on whose recognition and empathy the memoirist depends.
In The Year of Magical Thinking, the countless references to fame and social privilege have a second passport, as it were: they are an indelible aspect of the life Didion lived with her husband, and by enumerating them with such repetitive insistence she was also, in a sense, cataloguing the effects of her 40-year marriage. In Blue Nights they are, again, omnipresent, but the effect is altogether more troubling. Quintana died shortly after her own wedding and the death of her father, a series of events whose cruelty Didion has barely, by her own admission, managed to survive. "This book is called Blue Nights because at the time I began it I found my mind turning increasingly to illness, to the end of promise, the dwindling of the days, the inevitability of the fading, the dying of the brightness." These are sentiments with which the reader can only sympathise, yet the question of what kind of book can be made from them remains. The universality that was the basis of The Year of Magical Thinking no longer applies: losing a spouse is a common aspect of human experience; losing a child is not. The death of a child is unmitigated chaos: which writer could ever hope to exact order from it?
Didion's strategy, or rather her instinct – the instinctive response to chaos – is to repeat herself. She struggles to revive the form and style of her earlier book, to make it live again; she repeats anecdotes, and often sentences, word for word; she creates repeating prose patterns whose effect, in the end, is to confer the author's own numbness on the reader. What she cannot do is master her own material: instead of grieving with her, we are watching her grieve. This is a piteous and exposing process, and one which places a moral burden on the reader. And it is here that Didion's lack of humility comes back to haunt her, for by burdening the reader she is also making herself vulnerable to judgment. Early on, describing a set of photographs of Quintana as a child, she writes: "In a few she is wearing a cashmere turtleneck sweater I brought her from London when we went that May to do promotion for the European release of The Panic in Needle Park." What passed in The Year of Magical Thinking as the camaraderie of husband and wife becomes, at a stroke, something more disturbing – a kind of parental attention-seeking that again and again drives Didion's sentences away from their subject and back to herself. "Was I the problem?" she asks. "Was I always the problem?"
Blue Nights does contain an element of authenticity: Didion takes her time getting to it, but once there she is somewhat freed from the compulsive repetition and self-reference in which she has until now become increasingly entangled. It is the story of Quintana's birth family (she was adopted as a baby) and its members' attempts to contact her in adult life. Quintana's parents, after they gave her up for adoption, got married and had two further children. One of these children – Quintana's sister – tracked her down using the internet and a private detective, and Quintana, the privileged only child, was suddenly availed of a whole extended family in Dallas. "In Dallas these strangers had shown her snapshots, remarked on her resemblance to one or another cousin or aunt or grandparent, seemingly taken for granted that she had chosen by her presence to be one of them." Quintana struggled to cope with these revelations, and wrote to her birth mother and sister saying she needed time to adjust to them. "In reply she received a letter from her mother saying she did not want to be a burden and so had disconnected her telephone." When Quintana died, Didion notes drily, "her sister sent flowers".
This brief flaring of Didion's writerly power has its corollary in her admission of her own increasing physical and emotional fragility. Blue Nights is in a sense the manifestation of this fragility, the dwindling and fading of the artist's ability to create order out of the randomness and chaos of experience. Didion's portion of this chaos has been cruelly and unjustly large: it comes as no surprise that in the end, she should not be able to digest it all.
• Rachel Cusk's The Last Supper is published by Faber.
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Blue Nights di Joan Didion - recensione
Il ricordo di Joan Didion della morte di sua figlia è preoccupante
L'anno del pensiero magico di oan Didion era un libro che sembrava conferire una certa credibilità a una forma - il libro di memorie - che a volte è considerata con sospetto, come una sorta di anno sabbatico dal dovere dello scrittore di interessarsi a cose diverse da se stessi. Al contrario: The Year of Magical Thinking è stato immediatamente identificato come un libro necessario. Racconto dell'anno che seguì la morte improvvisa del marito di Didion di 40 anni, lo sceneggiatore John Gregory Dunne, articolava un'esperienza privata - l'esperienza del lutto - per la quale è difficile trovare espressione pubblica. Blue Nights è un tragico seguito di The Year of Magical Thinking, che descrive la successiva morte della figlia di Didion, Quintana, di soli 39 anni: dove il libro precedente traeva la sua forza dal pozzo comune della sofferenza, il seguito deve affrontare la terribile particolarità delle disgrazie di Didion.
Alcune delle migliori memorie letterarie - Bad Blood di Lorna Sage , Memories of a Catholic Girlhood di Mary McCarthy , Paula Fox's Borrowed Finery - descrivono la sopravvivenza dell'autore in circostanze estreme o straordinarie. Altri - L'anno del pensiero magicoè uno - documentare gli effetti sull'autore di eventi (in questo caso la morte del coniuge) che, sebbene difficili da sopportare, sono universali e ordinari. Si potrebbe dire che il primo trasforma il caos in ordine, trasforma o riscatta l'esperienza caotica con l'ordine della prosa dell'autore e la mente razionale da cui proviene; i secondi iniziano con la proposizione dell'ordine e procedono, attraverso l'onestà della loro scrittura, a sfidarla e interromperla. Questa è un'impresa delicata e difficile, per ovvie ragioni. Personalizzare le esperienze comuni significa asserire una versione di esse con la quale altri potrebbero non essere d'accordo. La memoirist, pur riponendo un insolito grado di fiducia nel lettore, si sta anche esponendo al loro giudizio. Spera di parlare per tutti; rischia di essere ridicolizzata per aver parlato solo per se stessa.
Il libro di memorie, essendo nominalmente una forma confessionale, ha un rapporto interessante con l'onestà; proprio come il confessionale stesso, la questione se la divulgazione sia una necessità o un dovere è oscurata da qualche parte nell'alleanza tra penitente e sacerdote. Il penitente è stanco di nutrire i suoi peccati; desidera invocare il giudizio che la libererà dalla verità che ha detto. Ma apprezzerà così tanto questa libertà se invece del perdono, la dannazione è la conseguenza della sua onestà? La penitente vuole sfogarsi, togliersi le cose dal petto. Lo scrittore di memorie potrebbe al momento non essere sicuro del motivo per cui desidera collocare il materiale privato nel pubblico dominio, ma forse - se "l'esperienza" può prendere il posto del "peccato" - è per lo stesso motivo.
L'anno del pensiero magico, pubblicato nel 2005, era onesto su numerose cose: com'è quando qualcuno che conosci e ami muore proprio di fronte a te, com'è tornare a casa da solo dall'ospedale e raschiare la cena che hai preparato per voi entrambi senza essere mangiati i piatti, come si sente il dolore, come si sente il trauma. Il candore di Didion su queste cose era ben accetto, perché nel lutto la lotta pubblica e privata deve essere riconciliata: tra il lutto come fatto pubblico e il lutto come esperienza privata c'è un abisso che Didion, come scrittore, è stato in grado di navigare. La delineazione di questo spazio inesplorato - tra pubblico e privato, tra ciò che sembra e ciò che è - definisce il nucleo morale del ricordo come una forma. Il libro aveva anche una forte vena di narcisismo su cui il lettore, come il prete, era chiamato a esercitare il perdono. "
In The Year of Magical Thinking , gli innumerevoli riferimenti alla fama e al privilegio sociale hanno un secondo passaporto, per così dire: sono un aspetto indelebile della vita che Didion ha vissuto con il marito, e enumerandoli con tanta ripetitiva insistenza è stata anche, in un certo senso, catalogare gli effetti dei suoi 40 anni di matrimonio. In Blue Nights sono, ancora una volta, onnipresenti, ma l'effetto è del tutto più preoccupante. Quintana morì poco dopo il proprio matrimonio e la morte di suo padre, una serie di eventi la cui crudeltà Didion è riuscita a malapena, per sua stessa ammissione, a sopravvivere. "Questo libro si chiama Blue Nightsperché nel momento in cui l'ho iniziato ho scoperto che la mia mente si rivolgeva sempre più alla malattia, alla fine della promessa, al declino dei giorni, all'inevitabilità dello sbiadimento, al morire della luminosità. "Questi sono sentimenti con cui il lettore può simpatizzare, ma resta la domanda su che tipo di libro si possa fare con loro L'universalità che era alla base dell'Anno del Pensiero Magico non vale più: perdere un coniuge è un aspetto comune dell'esperienza umana, perdere un figlio non lo è. La morte di un bambino è un caos assoluto: quale scrittore potrebbe mai sperare di ottenerne l'ordine?
La strategia di Didion, o meglio il suo istinto - la risposta istintiva al caos - è ripetersi. Si sforza di far rivivere la forma e lo stile del suo libro precedente, per farlo vivere di nuovo; ripete aneddoti, e spesso frasi, parola per parola; crea schemi di prosa ripetuti il cui effetto, alla fine, è quello di conferire al lettore il torpore dell'autore. Quello che non può fare è padroneggiare il proprio materiale: invece di soffrire con lei, la stiamo guardando addolorarsi. Questo è un processo pietoso ed esponente, che pone un fardello morale sul lettore. Ed è qui che la mancanza di umiltà di Didion torna a perseguitarla, poiché gravando sul lettore si rende anche vulnerabile al giudizio. All'inizio, descrivendo una serie di fotografie di Quintana da bambina, scrive: "The Panic in Needle Park . "Quello che è passato in The Year of Magical Thinking come cameratismo di marito e moglie diventa, in un colpo solo, qualcosa di più inquietante - una sorta di ricerca dell'attenzione dei genitori che allontana continuamente le frasi di Didion dal loro soggetto e torna a se stessa: "Ero io il problema?", chiede. "Sono sempre stato il problema?"
Blue Nightscontiene un elemento di autenticità: Didion si prende il tempo di arrivarci, ma una volta lì si è in qualche modo liberata dalla ripetizione compulsiva e dall'autoreferenzialità in cui è rimasta sempre più invischiata. È la storia della famiglia di nascita di Quintana (è stata adottata da piccola) e dei tentativi dei suoi membri di contattarla nella vita adulta. I genitori di Quintana, dopo averla data in adozione, si sono sposati e hanno avuto altri due figli. Uno di questi bambini - la sorella di Quintana - l'ha rintracciata usando Internet e un investigatore privato, e Quintana, l'unica figlia privilegiata, è stata improvvisamente avvalsa di un'intera famiglia allargata a Dallas. "A Dallas questi sconosciuti avevano mostrato le sue istantanee, sottolineato la sua somiglianza con l'uno o l'altro cugino, zia o nonno,
Questa breve esplosione del potere letterario di Didion ha il suo corollario nella sua ammissione della propria crescente fragilità fisica ed emotiva. Blue Nights è in un certo senso la manifestazione di questa fragilità, la diminuzione e lo sbiadimento della capacità dell'artista di creare ordine dalla casualità e dal caos dell'esperienza. La porzione di Didion di questo caos è stata crudelmente e ingiustamente grande: non sorprende che alla fine non sia riuscita a digerire tutto.
The Last Supper di Rachel Cusk è pubblicato da Faber.
Mauri, l’insostenibile vacuità di Re Lear
MICHELE SCIANCALEPORE
C’era una volta un Re che aveva tre figliole e voleva sapere quale di loro l’amasse di più. Sembra l’incipit di una fiaba sentimentale. In realtà è l’inizio di un funesto dramma elisabettiano che parte da un attacco di vanità per finire nella più assoluta e disgregante vacuità. Infatti il monarca in questione pretende di quantificare e valutare l’amore filiale in base alla pomposità degli orpelli verbali delle dichiarazioni delle figlie così poi da abdicare, dividere il reame e distribuirlo in parti direttamente proporzionali all’ars retorica delle tre discendenti, due delle quali faranno a gara a chi formalizza le più iperboliche e ampollose esternazioni d’amore, mentre la terza si rifiuterà di partecipare all’ipocrita tenzone e dirà: «Niente!». Lei sarà pertanto ripudiata e cacciata perché «niente nasce dal niente», sentenzia il regale padre ferito nel suo narcisistico affetto; mentre le altre due sorelle si spartiranno l’eredità tutta. Il re si illuderà poi di poter trascorrere la sua avanzata terza età coccolato e vezzeggiato a turno dalle due figlie a parole amorevoli e accoglienti ma in realtà ben presto pronte a disfarsi di un così lunatico peso che quindi si ritroverà solo e in compagnia della propria disperazione, impazzirà, tardi si ravvederà e amaramente si pentirà prima di morire di dolore dopo aver visto perire l’unica figlia che l’amava davvero, quella parca di parole ma schietta di cuore.
Ma chi può essere così insulso e pazzo da avanzare una tale astrusa e infantile richiesta, smembrare in questo modo così capriccioso e irrazionale un regno, svilire la propria autorevolezza e immiserire la propria vecchiaia? C’è un solo personaggio in grado di compiere una siffatta matta, sciagurata premessa alla disfatta: l’anziano protagonista della più rovinosa e ineluttabile delle tragedie shakespeariane, King Lear dove tutto è definitivamente nero e funereo e in cui si celebra il morire in tutte le sue declinazioni e involuzioni. A partire dalla vecchiaia qui sinonimo di stoltezza e contrario di sapienza: «Non dovevi diventare vecchio prima di diventare saggio», dirà con una battuta fulminante il fool a Lear ormai demente e depotenziato di ogni virtù. Ma la decadenza fisica, morale, sociale, relazionale, lo sfacelo, il senso di finitudine, fragilità e decrepitudine investe non solo l’anziano re ma in pratica tutti i personaggi, in primis il Conte di Gloucester, il quale anche lui si scaglia empiamente contro il figlio buono ingannato dall’altro figlio illegittimo. Persino la parola è svuotata, un involucro sterile e falso sulla bocca di Goneril e Regan, le due loquaci figlie o un “logos” che non può avere più veritiera forma come dimostra l’afasia dell’onesta Cordelia. Quindi per sostenere in teatro l’insostenibile vacuità di Re Lear ci vuole una buona dose di incoscienza oppure bisogna essere Glauco Mauri il quale, dopo aver già sopportato quest’onere interpretativo nel 1984 e nel 1999, ha debuttato al Teatro della Pergola di Firenze e ha affermato: «Questa è la volta giusta perché Re Lear dovrebbe avere più di 80 anni e io ne ho 89».
Al di là del dato anagrafico c’è un’altra coincidenza e sintonia molto più profonda che permette all’artista pesarese di comunicare una verità interpretativa di inusitata bellezza: la compassione, nel senso autentico di saper soffrire all’unisono col personaggio. Le fragilità, le meschinità, le sofferenze, i limiti fisici, mentali e morali di Lear sono vissuti da Mauri con un’empatia tale da creare un apparente paradosso: leggerezza nella gravità. I toni sono infatti spesso flebili, i movimenti limitati e controllati, certo per ragioni di età, ma anche per trasformare in strazio interiore l’urlo e il furore di almeno due delle scene che richiederebbero un violento dispendio di energie, la tempesta con la furia della natura e del senno e il finale con l’agnizione della morte di Cordelia. Lineare, chiara ma non superficiale è anche la regia di Andrea Baracco come sempre ricco di idee che valorizzano le peculiarità immaginifiche del teatro. Questo allestimento, che dopo Firenze sarà dal 21 gennaio al 2 febbraio al Teatro Eliseo di Roma, colpisce dal punto di vista scenografico per la grande cubitale scritta «King Lear» che sovrasta ingombrante e mutevole come il carattere del suo protagonista, così come imponente era l’enorme mantello con cui Mauri - Lear entrava in scena nello spettacolo del 1999. L’impostazione registica di Baracco mira argutamente alla semplicità e all’evocazione simbolica con la divisione del palco in due duttili spazi principali uno sopra l’altro e una mega - corona che prevedibilmente ma efficacemente viene fatta calare alla fine dall’alto e ingabbia l’unico superstite della tragedia mentre immagini di sgretolamento vengono proiettate sottolineando un po’ pleonasticamente l’idea di una «terra desolata». Re Lear è uno spettacolo corale e infarcito di sotto - trame, pertanto apprezzabile è anche il lavoro della compagnia tutta tra cui spicca quello dell’immarcescibile Roberto Sturno pienamente calato nei panni di Gloucester pur con qualche esubero di energia e di Dario Cantarelli, un «Matto» sorprendentemente fuori da ogni stereotipo. Coerenti tutti gli altri anche se non mancano toni eccessivamente isterici che producono momenti di saturazione. Nel complesso uno spettacolo che, come giustamente osserva Baracco, riesce a riflettere «la luce sotto il nero della tragedia, la luminosità della conoscenza ».
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TEATRO/ 1 Il grande attore 89enne: «Finalmente ho l’età giusta per interpretare il monarca shakespiriano». Ottima, puntuale e scrupolosa la regia di Andrea Baracco che del testo sottolinea «la luce sotto il nero della tragedia, la luminosità della conoscenza»
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Da Avvenire di domenica 19 gennaio 2020
Chi ha inventato la Banca Etica?
L’ANALISI
La pandemia rende chiaro, come già in altre fasi epocali, che l’economia non va demonizzata, ma convertita
Ecco perché alle banche serve una vera santità laica
Le grandi crisi sono sempre processi di 'distruzione creatrice'. Fanno cadere cose che fino a ieri sembravano incrollabili, e dalle ceneri fanno sorgere delle novità, prima impensabili. Lungo la storia i grandi cambiamenti istituzionali sono stati generati quasi sempre da dolori collettivi, da enormi ferite sociali che hanno saputo far nascere, qualche volta, anche una benedizione. Le guerre di religione tra cattolici e protestanti diedero vita nel Seicento alle Borse valori e alle Banche centrali in molti Paesi europei. La stessa fede cristiana non era più sufficiente a garantire gli scambi commerciali e finanziari in Europa. Occorreva allora creare una nuova fede e una nuova fiducia (fides), che fu offerta da nuove istituzioni economiche e finanziarie da cui fiorì il capitalismo. Nella seconda metà dell’Ottocento la rivoluzione industriale creò una grave crisi del credito: cattolici e socialisti risposero dando vita a banche rurali, banche cooperative e casse di risparmio. Nel Novecento le guerre mondiali ci hanno lasciato in eredità nuove innovazioni politiche e istituzionali (dalla Comunità Europea all’Onu), ma anche nuove istituzioni finanziarie (Bretton Woods). Come se soltanto nel grande dolore gli uomini fossero capaci, in quella notte, di guardare insieme e più in alto, sino a vedere, finalmente, le stelle.
Dopo il crollo dell’Impero romano i monasteri furono anche un evento economico. Mentre un mondo e una economia finivano, un nuovo mondo e una nuova oikonomiasi riedificavano dentro le mura delle abbazie: ora et labora. Quegli edificatori della nuova Europa capirono che non si sarebbe risorti senza resuscitare anche il lavoro e l’economia. E così, mentre salvavano i manoscritti di Cicerone e Isaia, salvavano anche antichi conii di monete, tecniche contabili, codici commerciali, statuti mercantili, e soprattutto fecero dei monasteri una rete europea di hub dove si svilupparono fiere, commerci, scambi, perché lì era custodita e alimentata la fides-fiducia. Dal Vangelo i monaci avevano capito che l’economia era troppo importante per la vita, e se non è messa al servizio della vita diventa essa padrona della vita. E se ne occuparono.
Nel Quattrocento, poi, il movimento francescano generò i Monti di Pietà, in uno degli episodi più interessanti e straordinari della storia economica europea, sebbene largamente sottovalutato e frainteso. I Monti di Pietà furono istituzioni decisive per le città italiane, per i poveri, per le famiglie e per l’economia nel suo insieme. Nascevano dalla predicazione, infaticabile, dei Frati minori osservanti, che a partire dalla metà del Quattrocento ne fondarono centinaia, soprattutto nel Centro e nel Nord Italia. Le città si stavano sviluppando e arricchendo, ma, come spesso accade, l’arricchimento di alcuni (i borghesi) non portava con sé la riduzione delle povertà bensì l’aumento. I francescani capirono che c’era un nuovo volto di 'madonna povertà' da amare, e senza indugio fecero nascere nuove banche, una nuova finanza che raggiungesse gli esclusi. E fecero qualcosa di sbalorditivo, che solo un carisma immenso come quello di Francesco poteva generare. Le banche, ieri molto più di oggi, erano icona dello 'sterco del demonio', erano i 'templi di mammona' immagine della lupa dell’avarizia. Francesco iniziò la sua storia dicendo 'no' a quel mondo del denaro, il no più radicale che si potesse immaginare e che sia stato mai immaginato in Europa. Le banche del tempo prestavano ai ricchi, e i poveri finivano spesso nelle mani degli usurai. La lotta all’usura fu la ragione della nascita dei Monti di Pietà. Bernardino da Feltre, Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano, Domenico da Leonessa, Marco da Montegallo e molti altri frati fecero della fondazione dei Monti la loro principale opera – alla fondazione del Monte di Firenze contribuì anche Savonarola. Fino al 1515 si contano sessantasei frati minori promotori di Monti di Pietà. Alcuni sono stati proclamati santi o beati. È stupendo che al centro dell’effigie di questi santi (ho recuperato personalmente quelle di Bernardino da Feltre e di Marco da Montegallo) ci fosse proprio il Monte di Pietà. Il simbolo di quella perfezione cristiana era proprio una banca, che da icona del peccato mortale diventava simbolo di santità cristiana. Come l’eucarestia, come i sacramenti, come il vangelo. Una laicità tutta biblica e evangelica, che abbiamo in buona parte perso con la modernità, e che lascia ancora senza fiato tutti coloro che (come me) credono che ci sono poche cose più 'spirituali' della partita doppia e di un cantiere di lavoro. Bernardino chiamava il Monte di Pietà: Monte di Dio: «Chi aiuta uno fa bene, chi due meglio, chi molti meglio ancora. Il Monte aiuta molti. Se dai denaro a un povero perché si compri il pane o un paio di scarpe, quando egli avrà speso il denaro, tutto è finito. Ma se quel denaro lo consegni al Monte aiuti più persone... Costruire chiese, comperare messali, calici, paramenti per le messe, è cosa santa, ma offrire denaro al Monte è più santo ancora. Non spendere denaro in pietre e calce, in chiese, perché tutto andrà in fumo, ma in ciò che non va perduto, cioè dando a Cristo nei poveri» (Sermoni di Bernardino da Feltre, vol. II). La nascita dei Monti è stato uno dei paradossi più affascinanti e generativi della storia europea. La spoliazione di Francesco, la sua rinuncia totale all’economia di suo padre Bernardone, il 'nulla possedere' e il 'sine proprio' generarono due secoli dopo delle banche. E vere banche erano, non istituti di beneficenza, tanto che la fondazione del primo banco di Ascoli Piceno nel 1458, in seguito alla predicazione di Marco da Montegallo, non è considerato da alcuni un vero e proprio Monte proprio per la mancanza del pagamento di un interesse sul prestito.
Il tema dell’interesse sul prestito è infatti centrale. Bernardino da Feltre fu il grande fautore della necessità della non totale grauità del prestito; o meglio, della tesi che perché la gratuità che animava la nascita del Monte potesse durare ed essere sostenibile era necessario pagare un interesse, sebbene il più basso possibile. La sua non fu una battaglia facile, perché ebbe come oppositori teologi e giuristi (molti domenicani) che accusavano i Monti di usura, proprio per il pagamento di un interesse maggiore di zero. Così sempre nei suoi Sermoni risponde Bernardino: «Considerata la cupidigia degli uomini e la poca carità, è meglio che chi ricorre al Monte paghi qualche cosa e sia servito bene, piuttosto che senza nulla pagare sia servito male. Vuoi essere servito male? Non pagare. In questo chi ha più esperienza di noi frati? Viene uno al convento, si presenta al portinaio e gli dice: sono disposto a lavorare il vostro orto gratuitamente. Va, e poco dopo chiede colazione. È giusto.» Quindi, in nome della gratuità, molti teologi di fatto impedivano la nascita dei Monti o la contestavano pubblicamente, come nel caso della fondazione del Monte di Mantova nel 1496. È questa una delle più importanti e convincenti dimostrazioni della differenza tra la gratuità e il gratis: un contratto, con il necessario pagamento, può contenere più charis (gratuità) di un atto di pura liberalità. La gratuità qui non coincide con il dono. La gratuità del Monte si esprimeva in molte altre cose: prestare a lungo termine (e non richiedere indietro il prestito entro un mese o una settimana, come facevano gli usurai), chiedere un tasso che coprisse solo le spese, prestare solo per reali necessità, se il mutuatario non riusciva a riscattare il pegno percepiva il di più che il Monte otteneva dalla vendita, prestavano possibilmente a tutti. Erano istituzioni senza scopo di lucro, o sine merito. Bernardino distingueva l’interesse che nasceva dal prestito (sbagliato) dall’interesse per il prestito (per consentire l’esistenza del Monte). In nome della pura gratuità alcuni Monti o non partirono affatto, o finirono in bancarotta presto o divennero proprietà di alcuni ricchi mercanti che mettendo il capitale per coprire le spese di gestione da bene di comunità lo trasformarono in bene privato.
Infine, impressionante è una tecnica retorica di quei frati minori, usata soprattutto da Marco da Montegallo. Per mostrare la gravità del prestare il denaro agli usurai, il beato confrontava il bene che si faceva prestando al Monte con la spropositata ricchezza che gli usurai ricavavano investendo quella stessa somma. Scriveva nella sua 'Tabula della salute': «È da sapere che cento ducati dati a trenta per cento l’anno, dopo cinquanta anni li detti cento ducati che furono il primo capitale, tra interessi et capitale montano e sommano: 49.750.556,7 ducati». Una somma enorme, frutto di anatocismo (interessi sugli interessi), che doveva colpire molto la fantasia dei suoi uditori - e la nostra. E convincerli. Quei francescani risposero così alla grave crisi del loro tempo, dando vita a nuove istituzioni bancarie. Lo fecero perché conoscevano i bisogni veri della gente, e quindi capirono che nelle grandi crisi occorre riformare l’economia e la finanza, e non solo temerle, facendo banche nuove, non solo criticando le vecchie.
Oggi siamo nel mezzo di una crisi mondiale di dimensioni non diverse dalle grandi crisi dei secoli passati. Serviranno nuove istituzioni, anche finanziarie e assicurative, capaci di gestire il durante e il dopo - Covid, che lascerà il mondo ancora più diseguale, con poveri ancora più poveri. Mentre pensiamo a queste novità, quell’antica creazione dei Monti ha delle importanti lezioni da darci. La prima riguarda la natura stessa dell’economia e della finanza. Le banche e il denaro sono creazioni umane, sono vita, non vanno demonizzate, perché se le demonizziamo diventano veramente demoni. Vanno trattate come si tratta la vita. Di fronte a una finanza che aumenta la povertà si può e si deve rispondere creando un’altra finanza che le riduce. Infine, questa splendida storia francescana ci suggerisce che anche oggi è probabile che i nuovi Monti di Pietà, certamente molto diversi da quelli del Quattrocento, non nasceranno dai ricchi mercanti e dai banchieri for - profit (che erano, sempre, i primi nemici delle fondazioni dei Monti), ma da chi conosce i poveri, li stima, li ama, perché ha ricevuto un carisma. Non necessariamente dai poveri, ma certamente dagli amici dei poveri. I frati non erano i proprietari dei Monti, erano solo i promotori, gli attivatori dei processi di creazione di quelle banche. Servono oggi nuovi 'francescani', conoscitori e amanti dei poveri, che invece di maledire l’economia e la finanza, ne facciano, semplicemente, una diversa. Una nuova santità laica, nuove 'effigi' con al centro imprese e banche.
Luigino Bruni
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La grande lezione della fondazione dei Monti di pietà ci dice oggi che non usciremo migliori da questa crisi se non daremo vita a nuove istituzioni, anche finanziarie
La nascita dei Monti, promossa dai frati, è stato uno dei paradossi più affascinanti e generativi della storia europea
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Da Avvenire del 08 novembre 2018
Il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale architrave di ogni società che voglia dirsi pienamente umana (Mauro Barsi)
Domenica 27 ottobre alla SS. Annunziata a Firenze c'è stata la festa di Agata Smeralda, con il cardinale Giuseppe Betori. Il presidente Mauro Barsi ha tracciato un bilancio dell'anno passato e dell'attività svolta fino ad oggi.
Carissimo Mauro come dici tu “sempre avanti!”