NON BASTA PROTEGGERE LE COSTE MA OCCORRE CAMBIARE MENTALITA'

Da Avvenire del 14 aprile 2016

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Le strategie, il quesito e i nuovi stili di vita che dobbiamo darci

STOP A TRIVELLE E IDEE FOSSILI MA NON BASTA PROTEGGERE LE COSTE

Sito Trivelle

 

Sul petrolio italiano c’è una buona e una cattiva notizia. La buona è che questo sta diventando un Paese normale. Appena sospettata (neanche accusata) di aver usato male del suo ruolo, una signora ministro si è dimessa. La cattiva notizia è che la volontà di incrementare in Italia il business dei combustibili fossili, è il frutto non di un peccato, ma di un tenace errore.

In duecento anni i combustibili fossili hanno messo il turbo al pellegrinaggio dell’umanità verso la prosperità e, per alcuni, la felicità. I pellegrini si sono messi a correre. In un solo secolo la durata media della vita è raddoppiata, il numero degli umani è raddoppiato due volte.

L’uso di energia si è moltiplicato per tredici. E per questo l’emissione di CO2, il gas che maggiormente altera il clima, si è moltiplicata per diciassette. Questo cambia tutto.

I pellegrini vedono ora che non possono più correre alla velocità del centometrista una maratona dal traguardo ignoto. La fede nelle energie fossili è diventata insostenibile sul piano (in ordine alfabetico) diplomatico, ecologico, economico, etico, finanziario, geopolitico e tecnologico. Scegliete l’ordine di importanza dei fattori, il prodotto non cambia.

«Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas – deve essere sostituita progressivamente e senza indugio». «Abbiamo deciso di disinvestire al più presto il nostro capitale dal carbone, e gradualmente anche dagli altri combustibili fossili» . La prima frase è di papa Francesco ( Laudato si’, 165), la seconda è della Fondazione Rockefeller, gli ex-baroni del petrolio. Se completassimo questo collage con le frasi di altri specialisti di clima, ecologia, economia e giustizia sociale, otterremmo un testo come scritto dalla stessa mano.

In dicembre i grandi e i piccoli della Terra hanno deciso a Parigi (Cop21) di impegnarsi per ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili. Per pungolare i governi, migliaia di scarpe depositate sul selciato di Place de la Repubblique sostituito la 'marcia dei popoli per il clima', organizzata da mesi, ma poi vietata a causa degli attentati. C’erano anche le scarpe di due pellegrini venuti da lontano. Le scarpe di papa Francesco e del cardinale Paul Turkson, presidente di Giustizia e Pace.

Secondo le grandi organizzazioni mondiali per il clima e per l’energia, per cercare di evitare un riscaldamento globale di più di 2 gradi centigradi, l’80% dei combustibili fossili va lasciato sottoterra. Questi due gradi sono un compromesso politico tra i pochi vincenti e i tanti perdenti dei cambiamenti climatici. Non sono una 'soglia di sicurezza'. Già l’aumento di 0,8° dell’ultimo secolo ha fatto gravi danni.

Eppure le grandi compagnie continuano a sviluppare l’estrazione degli idrocarburi, con investimenti di centinaia di miliardi, che l’Economist definisce «un non-senso». Il maggior danno di trivelle e infrastrutture petrolifere non è locale, ma planetario: l’accelerazione del riscaldamento globale, con drammatiche conseguenze per miliardi di persone. Ben prima però può accadere altro. Sempre secondo l’Economist «O i governi non sono credibili nell’impegno contro i cambiamenti climatici, oppure le compagnie dei combustibili fossili sono sopravvalutate». Per gli analisti di Carbon Tracker( un centro di studi finanziari londinese), una 'bolla del carbonio' minaccia la finanza mondiale. Se bruciassimo tutti i combustibili fossili delle compagnie minerarie, emetteremmo circa 2.800 Gt (gigatonnellate, o miliardi di tonnellate) di CO2, e il pianeta si riscalderebbe molto probabilmente tra i quattro e i sei gradi. Per restare sotto i due gradi, il massimo carbon budget che potremmo 'spendere' sarebbe di circa 600 Gt di CO2 , quindi – riecco la percentualeobiettivo – l’80% dei combustibili fossili rimarrà nel sottosuolo. Buona parte della ricchezza delle grandi compagnie sarebbe, insomma, un patrimonio incagliato ( stranded asset), con conseguenze drammatiche su finanza ed economia mondiali.

Chi voglia abbreviare la vita delle trivelle costiere italiane farà perciò bene a votare sì al referendum del 17 aprile. Ma si deve anche essere consapevoli che rinunciare al nostro poco 'petrolio (o gas) a chilometro zero' vuol dire bruciare più petrolio nei motori e nelle petroliere che vengono da altri continenti. E spesso è petrolio doppiamente sporco. È quello che scatena guerre e colpi di Stato (come in Medio-Oriente e altrove) e che causa ecocidi e devastazioni umane (come in Nigeria, Ecuador e altrove). L’unico modo per prevenire i disastri del clima e dei popoli è ridurre drasticamente e 'senza indugio' il nostro consumo di combustibili fossili e accelerare il passo verso le energie rinnovabili.

Come? Sia aumentando fortemente l’efficienza energetica, sia riducendo (chi può e chi deve) il livello materiale dei nostri stili di vita. Il 90% dell’energia commerciale usata nel mondo viene dai combustibili fossili. Ogni prodotto e servizio dipende – anche indirettamente – da essi. Difendere le nostre coste dalle trivelle è utile localmente. Ma sicuramente non basta.

di Marco Morosini

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L’astensione per rispondere a una domanda mal posta

L’AMBIENTALISMO DISTRUTTIVO CHE CERCA L’ENERGIA ALTROVE

Davanti a ogni referendum abrogativo occorre porsi almeno due domande: da un lato occorre capire quale sia il quesito referendario (la domanda cui gli elettori dovranno rispondere) e quali siano le conseguenze giuridiche della vittoria dei Sì, dei No o dell’astensione; dall’altro, è necessario chiedersi quale sia il 'plusvalore politico' del referendum, cioè il significato di sistema che esso riveste e il messaggio che invia all’opinione pubblica e alla classe politica, al di là dell’effetto giuridico di esso. Ora, di fronte al referendum 'antitrivelle' del 17 aprile, entrambe le domande sollevano questioni complesse.

Ciò vale anzitutto per il quesito referendario, il quale ha ad oggetto l’art. 1, comma 239, della legge n. 208/2015, che vieta nuove trivellazioni entro le 12 miglia marine dalla costa italiana, ma fa salve le concessioni già esistenti.

Esso, infatti, precisa che «i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». Il quesito propone di abrogare la seconda parte di questa frase, quella che inizia con le parole «per la durata di vita utile». Da ciò risultano due dati certi: entro le 12 miglia marine sono vietate nuove trivellazioni; ma le concessioni per le trivellazioni in corso restano valide.

Ciò che non è chiaro è fino a quando lo siano: fino alla durata utile del giacimento (con proroga automatica delle concessioni fino a tale data) o solo fino alla scadenza delle concessioni originarie? La Corte costituzionale, nel dichiarare ammissibile il quesito referendario, ha affermato che esso persegue il «chiaro ed univoco risultato di non consentire che il divieto stabilito nelle zone di mare in questione incontri deroghe ulteriori quanto alla scadenza dei titoli abilitativi rilasciati». Se ne desume che, in caso di vittoria del Sì, alla scadenza della concessione – di durata originariamente trentennale, ma in alcuni casi già prossima alla scadenza – gli impianti dovranno essere chiusi. In caso di vittoria dei No (o di mancato raggiungimento del quorum), le concessioni sono salve «fino alla durata in vita del giacimento». Se ne può desumereche la norma voluta dal governo Renzi ha disposto una proroga implicita delle concessioni? A chi scrive, a differenza di altri, pare che non sia così: quello che la norma prevede è che i titoli restano validi fino alla durata in vita del giacimento, ma, appunto, se validi: dunque essi scadranno alla data di scadenza della concessione e potranno essere prorogati, ma solo se la concessione verrà rinnovata dall’autorità competente, non automaticamente.

Se già la dimensione tecnica del quesito è poco chiara, ancor più complessa è la questione del suo 'plusvalore politico'. In altre parole, quale 'messaggio' manderanno gli elettori in caso di vittoria dei Sì, dei No o dell’astensione? In questa sede, non interessa tanto la dimensione di politique politicienne, vale a dire l’indebolimento o il rafforzamento del governo Renzi, che si è schierato in favore dell’astensione, ma il significato del voto in termini di cultura politica. Anche qui, ovviamente, sono possibili più letture: si può da un lato leggere questo referendum come una indicazione in favore della necessità di superare le risorse energetiche fossili (più inquinanti) in favore di un futuro energetico basato sulle energie rinnovabili. O si può leggere un eventuale Sì come una nuova vittoria della cultura del Nimby ( Not in my backyard: non nel mio giardinetto), vale a dire di un approccio alle questioni ambientali (dai rifiuti agli impianti per produrre energia) che vuole allontanare dalla propria casa le attrezzature inquinanti (o, più spesso, quelle credute tali).

Esiste il rischio che il referendum del 17 aprile spinga nella seconda direzione, una prospettiva miope, che oltretutto concepisce la tutela dell’ambiente in forma statica e negativa, mentre è solo grazie alla disponibilità di risorse energetiche che un Paese può garantirsi una base di ricchezza materiale, a partire dalla quale è possibile soddisfare i bisogni individuali e collettivi, soprattutto dei soggetti più deboli.

Questo, del resto, era l’approccio del padre dello sviluppo energetico italiano del dopoguerra, Enrico Mattei. Il che non è affatto incompatibile con un graduale passaggio verso un sistema basato sulle energie rinnovabili. Da questo punto di vista, il referendum del 17 aprile sembra invece proporre all’elettore la scelta fra ricavare dal nostro mare l’energia disponibile e importarla da lontano, pagandola di più e inquinando di più per il trasporto.

In conclusione, sia per la natura non chiara del quesito, sia per il messaggio da 'ambientalismo distruttivo' che trasmette, a mio parere è giustificato ricordare la moralità dell’astensione. Come già in passato, è lecito e moralmente buono, in questo referendum, operare attivamente per far mancare il quorum, lasciando in vigore la norma che si vorrebbe abrogare, rifiutando non solo la risposta, ma la stessa domanda posta al Paese.

 

di Marco Olivetti

 

 

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- 8 maggio 2014

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