Lo sguardo degli anziani per il futuro dei giovani
Giornata vita 2019. Il messaggio dei vescovi
Il Messaggio del Consiglio episcopale permanente della Cei per la 41ª Giornata nazionale per la vita che sarà celebrata in tutte le diocesi domenica 3 febbraio 2019
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Germoglia la speranza
«Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43,19). L’annuncio di Isaia al popolo testimonia una speranza affidabile nel domani di ogni donna e ogni uomo, che ha radici di certezza nel presente, in quello che possiamo riconoscere dell’opera sorgiva di Dio, in ciascun essere umano e in ciascuna famiglia. È vita, è futuro nella famiglia! L’esistenza è il dono più prezioso fatto all’uomo, attraverso il quale siamo chiamati a partecipare al soffio vitale di Dio nel figlio suo Gesù. Questa è l’eredità, il germoglio, che possiamo lasciare alle nuove generazioni: «facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1Tim 6, 18-19).
Vita che 'ringiovanisce'
Gli anziani, che arricchiscono questo nostro Paese, sono la memoria del popolo. Dalla singola cellula all’intera composizione fisica del corpo, dai pensieri, dalle emozioni e dalle relazioni alla vita spirituale, non vi è dimensione dell’esistenza che non si trasformi nel tempo, «ringiovanendosi» anche nella maturità e nell’anzianità, quando non si spegne l’entusiasmo di essere in questo mondo. Accogliere, servire, promuovere la vita umana e custodire la sua dimora che è la terra significa scegliere di rinnovarsi e rinnovare, di lavorare per il bene comune guardando in avanti. Proprio lo sguardo saggio e ricco di esperienza degli anziani consentirà di rialzarsi dai terremoti - geologici e dell’anima - che il nostro Paese attraversa.
Generazioni solidali
Costruiamo oggi, pertanto, una solidale «alleanza tra le generazioni», come ci ricorda con insistenza papa Francesco. Così si consolida la certezza per il domani dei nostri figli e si spalanca l’orizzonte del dono di sé, che riempie di senso l’esistenza. «Il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita con i piedi ben piantati sulla terra - e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide», antiche e nuove. La mancanza di un lavoro stabile e dignitoso spegne nei più giovani l’anelito al futuro e aggrava il calo demografico, dovuto anche ad una mentalità antinatalista che, «non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire». Si rende sempre più necessario un patto per la natalità, che coinvolga tutte le forze culturali e politiche e, oltre ogni sterile contrapposizione, riconosca la famiglia come grembo generativo del nostro Paese.
L’abbraccio alla vita fragile genera futuro
Per aprire il futuro siamo chiamati all’accoglienza della vita prima e dopo la nascita, in ogni condizione e circostanza in cui essa è debole, minacciata e bisognosa dell’essenziale. Nello stesso tempo ci è chiesta la cura di chi soffre per la malattia, per la violenza subita o per l’emarginazione, con il rispetto dovuto a ogni essere umano quando si presenta fragile. Non vanno poi dimenticati i rischi causati dall’indifferenza, dagli attentati all’integrità e alla salute della 'casa comune', che è il nostro pianeta. La vera ecologia è sempre integrale e custodisce la vita sin dai primi istanti.
La vita fragile si genera in un abbraccio: «La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo». Alla «piaga dell’aborto» – che «non è un male minore, è un crimine» – si aggiunge il dolore per le donne, gli uomini e i bambini la cui vita, bisognosa di trovare rifugio in una terra sicura, incontra tentativi crescenti di «respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze».
Incoraggiamo quindi la comunità cristiana e la società civile ad accogliere, custodire e promuovere la vita umana dal concepimento al suo naturale termine. Il futuro inizia oggi: è un investimento nel presente, con la certezza che «la vita è sempre un bene», per noi e per i nostri figli. Per tutti. È un bene desiderabile e conseguibile.
Il documento
Da quarantuno anni è l’appuntamento fisso per la prima domenica di febbraio per l’intera comunità cattolica del Paese. È diventata l’occasione per poter rilanciare e sostenere una cultura aperta alla vita in tutte le sue fasi
L’alleanza tra le generazioni e l’allarme denatalità al centro del tradizionale appello in vista della ricorrenza. Forti sottolineature anche per la vita fragile, dal concepimento alla morte naturale, compreso il dolore per i migranti
Da Avvenire del 02 dicembre 2018
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EDITORIALE NORMA CATTIVA E PAROLE AL VENTO
IL PRESEPE VIVENTE
MARCO TARQUINIO
Il presepe di cui qui si parla è vivente. Loro sono giovanissimi: Giuseppe (Yousuf), Fede (Faith) e la loro creatura. Che è già nata, è una bimba e ha appena cinque mesi. Giuseppe viene dal Ghana, Fede è nigeriana, entrambi godono – è questo il verbo tecnico – della «protezione umanitaria» accordata dalla Repubblica Italiana. Ora ne stanno godendo in mezzo a una strada. Una strada che comincia appena fuori di un Cara calabrese e che, senza passare da nessuna casa, porta dritto sino al Natale. Il Natale di Gesù: Uno che se ne intende di povertà e grandezza, di folle adoranti e masse furenti, di ascolto e di rifiuto, del 'sì' che tutto accoglie e tutti salva e dei 'no' che si fanno prima porte sbattute in faccia e poi chiodi di croce. Giuseppe e Fede solo stati abbandonati, con la loro creatura, sulla strada che porta al Natale e, poi, non si sa dove. Sono parte di un nuovo popolo di 'scartati', che sta andando a cercare riparo ai bordi delle vie e delle piazze, delle città e dell’ordine costituito, ingrossando le file dei senza niente. Sono i senza più niente. Avevano trovato timbri ufficiali e un 'luogo' che si chiama Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) su cui contare per essere inclusi legalmente nella società italiana, apprendendo la nostra lingua, valorizzando le proprie competenze, studiando per imparare cose nuove e utili a se stessi e al Paese che li stava accogliendo. Adesso quel luogo non li riguarda più. I 'rifugiati' sì, i 'protetti' no. E a loro non resta che la strada, una strada senza libertà vera, e gli incontri che la strada sempre offre e qualche volta impone: persone perbene e persone permale, mani tese a dare e a carezzare e mani tese a prendere e a picchiare, indifferenza o solidarietà.
Si può essere certi che il ministro dell’Interno, come i parlamentari che hanno votato e convertito in legge il suo decreto su sicurezza e immigrazione, non ce l’avesse con Giuseppe, Fede e la loro bimba di cinque mesi. Ma è un fatto: tutti insieme se la sono presa anche con loro tre, e con tutti gli altri che il Sistema sta scaricando fuori dalla porta. Viene voglia di chiamarla 'la Legge della strada'. Che come si sa è dura, persino feroce, non sopporta i deboli e, darwinianamente, li elimina. È un fatto: la nuova 'Legge della strada' già comanda sulla vita di centinaia di persone che diverranno migliaia e poi decine di migliaia. Proprio come avevamo avvertito che sarebbe accaduto, passando – ça va sans dire – per buonisti e allarmisti.
Eccolo, allora, davanti ai nostri occhi il presepe vivente del Natale 2018. Allestito in una fabbrica dell’illegalità costruita a suon di norme e di commi. Campane senza gioia, fatte suonare per persone, e famiglie, alle quali resta per tetto e per letto un misero foglio di carta, che ironicamente e ormai vuotamente le definisce meritevoli di «protezione umanitaria». Ma quelle campane tristi suonano anche per noi.
P.S. Per favore, chi ha votato la 'Legge della strada' ci risparmi almeno parole al vento e ai social sullo spirito del Natale, sul presepe e sul nome di Gesù. Prima di nominarlo, Lui, bisogna riconoscerlo.
Da Avvenire del 02 dicembre 2018
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