Ci siamo accorti del fatto che ...?
EDITORIALE : Ci siamo accorti del fatto che ...?
Della metamorfosi della parola e della cura di noi stessi ossia degli altri
In questi primi giorni del mese di giugno la lettura dei giornali restituisce il sentore di un clima emotivo assimilabile a una sorta di invocata rinascita o di fin troppo atteso risveglio da una condizione che non esiteremmo a definire letargica se non fosse stato per la sensibile cifra di sofferenza che ne ha caratterizzato il lungo e lento decorso negli ultimi sedici mesi da quel 9 marzo 2020 nel quale il mondo, a vari livelli e con molteplici modalità, si è visto costretto a “chiudere”, come si è detto, rivelando a se stesso la fragilità che il picco di narcisismo della parte più ingenua e distratta della cultura dominante aveva abitualmente obliato dentro a pratiche di socializzazione le quali sono state proprio l'incolpevole e fertilissimo terreno di diffusione del Covid – 19.
In questi primi giorni di una primavera, freddina nelle temperature ed appannata nel mood di un mondo disorientato dagli echi di un invito al rientro che, negli stessi annunziatori, appare più inedito che spontaneo, ci ha lasciato uno dei più grandi cantautori della storia della musica italiana (e non solo): Franco Battito era un poeta, un pensatore, una di quelle persone delle quali si sente davvero il bisogno, per la sua capacità di rigenerarci, come avesse la capacità di volare appena sotto alle nuvole che, in modo ricorrente e naturalmente, all’alternarsi della stagioni, incombono su di noi, sulle nostre esistenze, ricordandoci come lo sviluppo dell'esperienza non è circolare, bensì lineare, sempre diverso da se stesso, differente per ognuno di noi.
Ascoltando La cura, scritta nel 1997 e che, senza il timore di esagerare, si può senz’altro definire il suo più autentico e maturo capolavoro, Battiato ci consente di sperimentare tutto, con il valore aggiunto che esso acquista, come solitamente accade nei capolavori dell’arte, della musica e della letteratura, in momenti tra i quali possiamo far rientrare anche quello che stiamo attraversando.
Ed in questa caleidoscopica linearità sappiamo di avere rivissuto una sensazione di metamorfosi della parola, quel processo che ha caratterizzato anche fasi, tutto sommato neutre, della nostra storia personale e collettiva: non ci era forse già accaduto? Magari ce ne ricordiamo se torniamo un momento ad epoche alquanto più benevole e tranquille, per fare solo uno tra innumerevoli esempi che ciascuno di noi può annoverare, tipo quella dell’introduzione di quelli che all'epoca furono chiamati GSM ossia i telefoni cellulari nella disponibilità di una quantità differenziata e tendenzialmente sterminata di utenti: ci eravamo accorti che non dicevamo (e non ci dicevano) più «pronto?» ma dicevamo (e ci dicevano) «dove sei?»; durante e dopo la pandemia, non più il «come stai?» nel semplice intercalare introduttivo della buona educazione nella conversazione, ma una frase proferita con la sensazione di fare un giro attorno ad entrambi i membri della relazione, un check a distanza, su una tra le condizioni più preziose e intime della nostra esistenza e di quella dei nostri interlocutori, ossia la salute.
Possiamo anche provare a capovolgere l’inclinazione di questa suggestione pensando anche a quel «spero tutto bene», sideralmente lontano da quello «stiamo tutti bene» che nel 1990 ci portò al cinema pensando che vi avremmo trovato una storia della più efficace e raffinata commedia italiana ma che, sorpresa, ci proponeva, dalle abilissime mani di un conterraneo di Battiato, il siciliano Giuseppe Tornatore, un personaggio come Matteo Scuro, un anziano, vedovo, siciliano anch’egli, rimasto solo ad immaginare sempre di parlare con la propria moglie ed i figli pensandoli ancora bambini.
Quasi un'eterogenesi dei fini, indotta nella contemporaneità dalla pandemia, e che proprio sulla relazione interpersonale ha inciso, impedendola, facendocela vivere come qualcosa di pericoloso e, tendenzialmente, da evitare proprio allo scopo di proteggere il bene della salute, tutto ciò per evitare il contagio, ossia per preservare se stessi e gli altri, in qualche modo prendendosi cura di entrambi, con un unico atto.
Viene allora da domandarsi che cosa accadrà adesso, quando, gradualmente, si andranno a rimuovere i paletti imposti dalle autorità, sanitarie o governative, e la differenza, auspicabilmente, non sarà più tra chi è sano e chi è malato, almeno rispetto al Covid – 19, ma tra coloro i quali vorranno acriticamente tornare ad alcune pratiche che erano il portato storico e sociale della vita precedente e dello stile che la caratterizzava e coloro, invece, che volgeranno sulla realtà circostante uno sguardo, rinnovato, come solo quello informato ad una reale speranza può essere, nella piena consapevolezza dell’utilità dell’esperienza appena vissuta e del suo rapporto con quella che ci si propone nella contemporaneità post pandemica.
Probabilmente assisteremo anche a qualche conflitto tra chi penserà di conservare i vantaggi (ma anche la qualità di vita) conseguiti attraverso una riduzione degli spostamenti ed un lavoro più ordinato e performante proprio perché in maggiore armonia con la nostra natura che ci siamo resi conto, forse, avevamo messo sotto eccessiva pressione oltre che inserito in meccanismi tendenti più alla prestazione che gli altri danno per scontata che non riconducibili ad auspicabili personali e sempre rinnovate gratificazioni.
Insomma, secondo una domanda che rimane, essa sì, invece sempre uguale, «che mondo sarà?»: un mondo nel quale dare auspicabilmente più spazio alla cura, quella di noi stessi e quella rivolta agli altri: ci sarà chi vorrà comprensibilmente concentrasi sul ritorno alle (e sul ripristino delle) condotte precedenti la fase di emergenza pandemica ed è altrettanto comprensibile porsi il dubbio sulla consapevolezza che ciò possa realmente accadere nel nostro intimo sentire, visto che la percezione, pur inattesa ed imposta, della nostra fragilità e, quindi, del nostro bisogno di cura, tenderà ad affrancarci dallo sguardo ingenuo che in passato si permetteva potesse essere gettato sulla nostra quotidianità, mentre ne potremo avere senz’altro in dono uno nuovo e più consapevole.
E la buona notizia è che tutto questo farà lievemente assomigliare il nostro sguardo sulle cose del mondo a quello di un artista, spesso riconoscibile proprio per la sua capacità di oltrepassare il limite imposto, nell’assuefazione, dalla forma convenzionale che gli oggetti delle nostre esperienze assumono nella realtà.
E un grande artista era (ed è) certamente Franco Battiato, così come un vero e proprio capolavoro è La Cura, di un lirismo intenso e maturo, in una struttura che sembra essere quella di una sorta di prosa in versi che, come scrive il suo Autore, ci può salvare da quella malinconia (Ti salverò da ogni malinconia perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te, Io sì, che avrò cura di te) che potrebbe sopraffare coloro che sono disposti a cedere all’ingenua tendenza di tornare a una quotidianità di relazione con gli altri che non potrà né dovrà più essere quella di prima.
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https://www.youtube.com/watch?v=cLJp-YJeuzc
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore
Dalle ossessioni delle tue manie
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te
Vagavo per i campi del Tennessee
Come vi ero arrivato, chissà
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni
Attraversano il mare
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi
La bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Ti salverò da ogni malinconia
Perché sei un essere speciale
Ed io avrò cura di te
Io sì, che avrò cura di te
[Franco Battiato]
Ma potremmo salutarci, il sorriso affiora dalle labbra anche se coperte dalla mascherina che ci copre ma si riflette nell'espressione degli occhi.
Ci allontaniamo quando ci rendiamo conto che potremmo incrociarci.
L'atteggiamento ci ferisce, entrambi, per averlo tenuto e per averlo subito.
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Ma potremmo salutarci,
il sorriso affiora dalle labbra anche se coperte dalla mascherina
ma si riflette nell'espressione degli occhi.
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L’atmosfera surreale e, a tratti, anche preoccupata, nella quale siamo immersi in questi giorni, ci induce talvolta ad oscillare, più volte al giorno, nell’incerta successione delle fasi della nostra vita, come è naturale che sia, quando capita che il futuro si leghi, non più alle nostre orgogliose ed oniriche proiezioni, frutto anche di precarissime certezze, ma all’essenziale, quello che nel corso della nostra esistenza siamo grati a noi stessi di avere afferrato, quando lo abbiamo incontrato, anche se poteva sul momento sembrare del tutto normale, finanche banale al punto da considerare l'idea di rinviarlo.
Mi è curiosamente tornata in mente una conversazione a margine di quello che, in linguaggio tecnico – giuridico, si chiama “stillicidio”, volendo identificare il fenomeno che investe l'obbligo di un proprietario confinante di non far cadere acqua nel fondo del vicino; niente di più banale (?) per un militare di leva ed un sottotenente A(lievo) U(fficiale) di C(omplemento), come si chiamava all’epoca in cui c’era ancora la leva obbligatoria, entrambi impegnati, dopo essere stati garbatamente cooptati dal comandante in quanto entrambi laureati in giurisprudenza: un sopralluogo lungo le mura della caserma di artiglieria di Modena, pareti visibilmente interessate, ci dicemmo in quella parentesi professionale, che faceva ad entrambi sentire l'aria di casa.
E come gadget aggiuntivo di quell'intero servizio avemmo anche la possibilità di passeggiare tranquillamente per un po’ quand’anche fossero le dieci di mattina. Nella sua sorprendente capacità di restare con la mente ai suoi studi, in prevalenza di storia, l’AUC mi spiegò l'origine del saluto militare, probabilmente legato al gesto dei cavalieri medievali che, prima di affrontare l'avversario, alzavano la visiera, in omaggio al nemico che avevano di fronte, un saluto che veniva espresso a rischio della vita, visto che mostrare gli occhi, non solo significava rendersi irrimediabilmente vulnerabili per qualche istante, ma anche rischiare che l'avversario intuisse lo stato d'animo di quel momento; peraltro tutto trascorreva, sembrava dire più a se stesso che me, così come guardava la campagna circostante, senza inattese conseguenze, e ciò solo per una fondamentale e saldissima condivisione del valore della lealtà tra i contendenti.
Confesso che, come forse il mio interlocutore intuì, non ero molto interessato alla rievocazione storica, ma all'essenza del saluto tra persone che non si conoscono, dischiusa da quella conversazione che, attraversando gli anni (molti), è, per innumerevoli volte, riapparsa nella quotidiana esperienza dell'incontro.
Ci si saluta in montagna, durante le passeggiate estive, nei colori illuminati ed espansi dal calore del sole, propri di un ambiente “altro”, non solo per la sua incontaminata bellezza ma anche per le insidie che può riservare a chi non lo rispetta, un valore condiviso tra le persone che si incontrano e che, appunto, si salutano.
Ci si saluta mentre si fa sport all'aria aperta e, qualche, volta, ancora lo si fa, quando si abbandona il posto sul treno dal quale ci si appresta a scendere.
Ci si saluta quando si condivide qualcosa di bello, come lo sono gli attimi in cui si cerca la poltroncina nel palco al teatro, mentre l'abbassarsi intermittente delle luci segnala l'imminenza dello spettacolo; oppure quando ci si scambia una semplice cortesia, magari lasciando il posto per l'auto, quando ormai non serve più, e ce lo chiedono, mentre facciamo manovra.
Per il resto, la mancanza di questo gesto, rarefatto fino ad eclissarsi levandosi dalle innumerevoli pulsazioni consumate su notebook e smartphone, ci ha progressivamente un po' privato della presenza dell’altro, scarnificando l'incontro, proprio nell'attimo che ci offre un piacere misto a necessità, esattamente come quello di un respiro, che si ripete, costantemente, e del quale ci accorgiamo solo quando viene a mancarci.
E questo è l'aspetto che, al di là delle improvvide iniziali minimizzazioni, segno di una scarsa consapevolezza, maggiormente ci spaventa del Covid 19, ossia il fatto che possa compromettere la capacità respiratorie.
Paradossale. "Ironic", come nella lingua più moderna al mondo, quella della nostra contemporaneità, nell'accelerazione incontrollabile della temporalità, come dice Recalcati, ad identificare, non tanto ciò che suscita una sottile ilarità come l'ironia in italiano, ma ben diversamente, ciò che ci sorprende, anche negativamente, ossia qualcosa di paradossale, tale da disarticolare il perimetro delle mappe cognitive mediante le quali leggiamo e percorriamo il mondo.
E' infatti paradossale che un'entità microscopica, come il Covid 19, la cui sopravvivenza è legata alla relazione, nella sua più inquietante e deteriore componente, con l’essere del quale costituisce il parassita, e del quale tende a fagocitare l'identità, ci riporti all'essenza propria della relazione tra gli esseri umani, dove «non ci sarebbe l'altro se non ci fossi io» come amava dire Camilleri, e dove la relazione non toglie nulla gli uni agli altri ma, semmai, regala sempre qualcosa, essendo naturalmente impostata nella logica del dono e della gratuità.
Non paghiamo né vantiamo alcun merito per incontrare qualcuno per strada, né per chi ci è amico o per essere amici di qualcuno.
E proprio adesso che l'essenziale è quanto di più vicino al futuro di tutto ciò con cui entriamo in contatto, riconsideriamo come i valori e i beni, che ci siamo troppo prematuramente abituati a considerare esclusivi, siano parte di una relazione permanente: la stessa salute, finita per lungo tempo ad essere coltivata nella logica di un illusorio e a tratti nevrotico benessere personale ed esclusivo, spesso anch'essa scarnificata nella logica dell'apparenza di un essere umano assai poco realisticamente perfetto, risulta adesso un bene che riscopriamo umile, legato alla terra ed all'essenziale, condiviso, adesso che il fare di tutto per stare bene (senza il bisogno di mostrarsi a chi neanche può incontrarci) risulta un bene anche per gli altri.
In quest'ordito di riflessioni nate nella condizione nella quale il decreto "Io resto a casa", giustissimamente, ci mantiene, si può allora compiere un passo ulteriore, scendendo, dalla lingua della modernità e dall’ironic {[A stop sign ironically defaced with a plea not to deface stop signs - Un segnale di stop ironicamente deturpato da un appello a non deturpare i segnali di stop.] - A literary technique in which what is written or stated is different from or the opposite of what is expected - [Una tecnica letteraria in cui ciò che è scritto o dichiarato è diverso o l'opposto di ciò che ci si aspetta]} ad una lingua antica come il latino, nella quale la nostra lingua affonda le proprie radici e che affida il saluto alla parola "Salvē", un avverbio, ossia una parte del discorso non declinabile e teso ad identificare l'augurio di stare "in buona salute, bene, prosperamente", quantomai appropriato in questo momento in quanto naturalmente declinabile nella relazione che si stabilisce ogni volta che ci incrociamo e calcoliamo la distanza alla quale questo incrocio può avvenire e che può immediatamente curare la ferita che ci procura il fatto di distanziarci evitando lo sguardo.
Il contagio NON si realizza con i raggi fotonici degli ufo robot che ci facevano compagnia quando quelli della nostra generazione di quaranta e cinquantenni erano bambini, e non vi è pertanto motivo alcuno di evitare lo sguardo.
Mentre potremmo rischiare di contagiarci con il senso dell'esclusione che genera l'evitamento dello sguardo ed il distanziamento fisico tra volti spesso coperti da una mascherina.
Restiamo a casa certamente e, quando usciamo per le più strette necessità, potremmo sin da subito cominciare a curare le ferite salutandoci: il sorriso affiora dalle labbra anche se coperte dalla mascherina, ma si riflette nell'espressione degli occhi.
Da soli si va certamente più veloci ma insieme si arriva decisamente più lontano (Antico Proverbio Africano)
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Il mese di Febbraio propone, tra le altre, la festa di san Valentino, a ricordarci quando ci siamo innamorati, anche nelle molteplici occasioni in cui questo può essere, successivamente, accaduto, specie a chi ha avuto il dono di innamorarsi già da quando era molto giovane.
Eppure, si dirà, su questa festa grava l'esorbitante peso specifico delle iniziative commerciali: vero, ma ciò non vale ad oscurare quel “per sempre” che è insieme speranza e progetto, oltre che valore, della persona amata, incommensurabile tanto che neppure il tempo può bastare a misurarlo.
Insomma una festa per il valore della fedeltà.
Beninteso, l’idea di limitare ad un’acritica adesione ad un precetto astratto di obbedienza riduce assai, sino in qualche modo a neutralizzarne (nel senso etimologico del termine che allude a ciò che è reso anonimo e indefferenziato) il contenuto, e questo è il principale motivo per il quale nessuno è (ne tanto meno è legittimato a sentirsi) migliore di chi non abbia avuto la possibilità di sperimentare questo valore o abbia comunque visto terminare anzitempo una relazione di amore o di affetto.
Del resto si è innamorati di una persona, ma, in modo certamente anche diverso, lo si può essere del proprio lavoro, delle amicizie, del proprio impegno: difficile, allora, pensare di scindere l’amore dalla fedeltà ossia da quell’esperienza umana mediante la quale si àncora al presente il futuro di una relazione, varcando la soglia delle difficoltà e del cambiamento, a mano a mano (come nella splendida canzone di Rino Gaetano) che i giorni e gli anni ce li ripropongono, cominciando e ricominciando, in una crescita nella quale le nostre storie, anziché confrontarsi si intrecciano, confondendosi e generandosi l’una nell’altra.
Come si può essere fedeli se non dentro ai percorsi del cambiamento, continuo e costante, che avviene in ognuno di noi nel corso della vita, cambiamenti che, non meno, ci vengon costantemente riproposti da tutto quanto ci mettiamo a fare?
E’ lecito domandarsi come si possa restare innamorati del proprio mestiere se ci ostiniamo a metterlo a confronto con la laudatio temporis acti del lavoro che si faceva in passato, quasi che si potesse continuare a vivere in un mondo che non c’entra niente con il nostro o senza apprezzare quanto ci propone quello in cui viviamo. Né sarebbe facile comprendere come si possano coltivare relazioni senza accettarne i percorsi di vita che i nostri amici scelgono ogni giorno e nei quali ci chiedono di accompagnarli o anche solo di comprenderli.
E’ interessante, semmai, allora pensare a cosa si perde in assenza di questo grande valore: forse il rispetto, anche qui nel significato che ci restituisce la sua origine etimologica di respicere, ossia guardare indietro, che, nel trionfo del paradosso, è proprio il contenuto della fedeltà, la quale, per antonomasia, è la virtù con la quale si guarda avanti: il rispetto, un sentimento suscitato dalla consapevolezza del valore proprio di qualcuno o di qualcosa: viverlo ci porta a rimeditare e comprendere anche il nostro. E ci riporta sempre alle radici dalle quali è il frutto dell’amore e che, tenendoci avvinti a qualcuno o a qualcosa, niente affatto limitandoci, ci rigenerano costantemente.
E, senza dubbio, tutto questo è inestricabilmente complesso al punto da risultare impermeabile alle solite iniziative commerciali dalle quali, pertanto, la fedeltà resta in assoluto riparo così che, forse, è proprio il caso di tenerci stretta e di festeggiare la ricorrenza di San Valentino.
In questi giorni qualcuno ha ricordato che nella cultura africana, notoriamente segnata da limiti e difficoltà nella corso della sua storia, esiste un proverbio secondo il quale da soli si va certamente più veloci ma insieme si arriva decisamente più lontano.
Si potrebbe forse dire, magari tentando di adattare alla nostra cultura occidentale, che una persona con un cuore innamorato è più portata ad ascoltare il battito altrui che a perfezionare il proprio.
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P.S. Se ci va di ascoltare buona musica mentre leggiamo………: https://www.youtube.com/watch?v=E4tz68hyT8s
Rino Gaetano
A Mano a mano
A mano a mano ti accorgi che il vento
Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso
La bella stagione che sta per finire
Ti soffia sul cuore e ti ruba l'amore
A mano a mano si scioglie nel pianto
Quel dolce ricordo sbiadito dal tempo
Di quando vivevi con me in una stanza
Non c'erano soldi ma tanta speranza
E a mano a mano mi perdi e ti perdo
E quello che è stato mi sembra più assurdo
Di quando la notte eri sempre più vera
E non come adesso nei sabato sera
Ma, dammi la mano e torna vicino
Può nascere un fiore nel nostro giardino
Che neanche l'inverno potrà mai gelare
Può crescere un fiore da questo mio amore per te
E a mano a mano vedrai con il tempo
Lì sopra il suo viso lo stesso sorriso
Che il vento crudele ti aveva rubato
Che torna fedele
L'amore è tornato
Ma, dammi la mano e torna vicino
Può nascere un fiore nel nostro giardino
Che neanche l'inverno potrà mai gelare
Può crescere un fiore da questo mio amore per te
Nella Foto: Rino Gaetano da bambino
Compositori: Marco Luberti / Riccardo Vincent Cocciante
Testo di A mano a mano © Universal Music Publishing Group
Altezza, larghezza e profondità nella prospettiva della nostra storia, anche personale
La prima reazione suscitata da questa foto è stata di quelle che sorprendono per la loro capacità di unire più sensazioni, contrastanti nella consapevolezza di averle vissute entrambe, sia pure in tempi e sulla scorta di altrettante sollecitazioni diverse, ossia: da un lato, la constatazione, ilare, della realtà rappresentata, in forma caricaturale ma densa del significato riprodotto nell’immagine; dall’altro, la sensazione, avvolgente, di meditare su un’inedita modalità, nell’assumere e vivere la relazione sociale, così ormai irrimediabilmente mutata, sotto i nostri occhi, al punto da svolgersi anche a dispetto dell’indubbio pericolo che la stessa comporta.
E, infatti, la marcia, debolmente trascinata sui passi di chi, guidato su un percorso altro rispetto a quello mosso per strada, segue l'itinerario delle righe che compongono le mail ed i messaggi WhatsApp, è infatti esposta al rischio di urti o cadute, specie in fase di incrocio (appunto come si dice nei manuali per i corsi di scuola guida) con altre persone le quali, invece che trattenute da quanto giunto per il tramite dello smartphone, sono protese verso che ciò che devono raggiungere, con le sensibili differenze di velocità e ritmo che derivano dalla differente ora della giornata nella quale si verificano, ma che sono fatalmente proprie solo di chi percorre le strade senza consultare altra tangibile struttura fuor da quella che ci contiene tutti fisicamente.
Ma non è questa l’unica differenza che si libera dal cammino, sospeso, del lettore di messaggi, inevitabilmente, invece, astratto, nel senso proprio del participio passato del verbo, più che attratto, dalla molteplicità delle dimensioni nelle quali ognuno di noi si proietta quando attraversa le vie della città, specialmente quelle che si percorrono a piedi.
Le strutture architettoniche, quand’anche non esprimano il passato risalente proprio delle costruzioni antiche, come, invece, accade nelle strade dei centri storici che si articolano lungo la signorile teoria di palazzi, che, magari riportati dal Medioevo o dal Rinascimento, convivono, oggi, con la viabilità contemporanea espressa in una più massiccia struttura urbana, condividono pur sempre con noi, che anche semplicemente le vediamo senza guardarle, la relazione verticale del tempo in cui siamo immersi, incidendo sulla percezione della nostra identità, che tale è, evidentemente in rapporto a ciò da cui si differenzia. Viene spontaneo pensare a come tutto questo si neutralizzi negli spostamenti mossi quando si è assorbiti dallo specchiarsi nella consultazione dei social media di cui lo smartphone ripropone la brulicante attività ad ogni ora del giorno (e della notte). D’altro canto vi è pure una dimensione prospettica sperimentabile nella profondità della relazione con le altre persone, delle quali si possono cogliere, camminandovi attraverso, frammenti di conversazione, che riportandoci minuscole e sfuggenti particelle di storie intuitivamente più complesse, ci fanno come camminare tra gli scaffali di un’immaginaria biblioteca, ove i libri si aprono per sfogliarsi casualmente, in una spontanea propria arrendevole partecipazione al nostro passaggio, fasciandoci però della gradevole sensazione di camminare nel mondo appena un po’ più consapevoli di quella naturale complessità sulla quale la distrazione può solo mentire. E, su questo, chi appartiene alla nostra generazione X, come usa dire adesso, ossia quella dei nati tra i 1960 e il 1980, così definita perché popolata da persone che, venute al mondo in un periodo di transizione tra il declino del colonialismo e la caduta del muro di Berlino con la fine della guerra fredda, costituiva una sorta di interrogativo endemico dell’epoca dei demografi che ne hanno coniato la definizione, chi appartiene, dicevo, a questa generazione ricorderà come i nostri genitori esaltassero innocentemente l’edificante funzione della televisione che proponeva la “diretta”, quella, maliziosamente, poi, ripresa da chi la televisione la produceva, con una sottolineatura, stabilmente riaffermata quasi fosse un mantra, del “bello della diretta”, non solo per giustificare inevitabili imperfezioni dei contenuti presentati, ma anche e soprattutto per continuare ad attrarre il pubblico al consumo dei programmi della cosiddetta TV di Stato, dopo che, con il Decreto Berlusconi, si era definitivamente entrati nell’epoca della televisione commerciale, e della concorrenza, in cui la convergenza e la condivisione di quanto attraversava l’ormai, quasi ex, tubo catodico, andava sempre più rarefacendosi.
Ma il ricordo di quell’orgoglioso «è in diretta», su noi, che di quella generazione siamo figli, avendoci anche convissuto, veste come un whoolrich che non passa mai di moda, stando a significare il valore dell’interazione, anche mediata ma pur sempre contestuale, quella, appunto, che si realizza ogni giorno mentre percorriamo una strada guardandoci intorno. E rispetto a ciò, certamente viene in mente l'attraversamento di una stanza buia in cerca dell’interruttore, se si pensa alla camminata scandita, o finanche interrotta, dalla consultazione di messaggi proposti, anche a distanza di tempo, da un dispositivo che non ne può evidentemente restituire il connotato emotivo, se non nella misura della traduzione ad opera delle parole alle quali essi siano affidati, magari con il soccorso dei simpatici, ma ripetitivi e sistematicamente convenzionali, emoticon chiamati a soccorso per intercettare l’impatto emotivo, potenzialmente generato da una ricezione cui non si potrà assistere, perché così è fatalmente programmato il dispositivo che la veicola. E, in tal modo, si neutralizza, così, anche la terza dimensione prospettica della nostra passeggiata, quella longitudinale.
Quindi: altezza, larghezza e profondità, i tre assi prospettici che hanno determinato le fasi cruciali proprio di quelle epoche, medievale e rinascimentale, delle quali ci sono rimasti gli affreschi, i quadri, i palazzi e, in generale, le opere d’arte che, naturalmente, strutturano la trama generativa delle nostre relazioni, all’interno delle quali, fuori dall’assai più limitata logica della verifica costante di contenuti, virtuali e differiti, che delle relazioni sono l’introverso specchio potenziale più che il tangibile contenuto, permettono di donarci e reciprocamente rigenerarci anche approfittando della più semplice dinamica quotidiana quale quella che si realizza negli spostamenti lungo e dentro le strade. Una verità intuitiva, e pure parte di un più ampio e complesso contesto, quale quello che viene proposto ai bambini dal saggio protagonista del fortunatissimo film di animazione della Dremworks, Kung–fu Panda, il quale, dialogando con un incerto e smarrito Panda Po, chiude con la sapiente battuta che gioca sulla struttura di una parola inglese che identifica una dimensione, appunto, temporale così come anche il contenuto, fisico, del dono: «Ieri è storia, domani è mistero, oggi è un dono, per questo si chiama presente».
Possiamo augurarci che il 2019 non “paia brutto….” imparando a salutare
Se il miglior augurio per l’anno nuovo, qualsiasi anno nuovo, è quello di saper efficacemente contrastare la vista di ciò che teme a riaffiorare, confermandosi dall’anno precedente, motivo per cui, onde andare sul sicuro, esisteva e, forse, esiste ancora, la superstiziosa usanza di rompere alcuni oggetti di uso comune al fine di evitare che questi entrassero nel nuovo anno con i loro proprietari, allora, senza la pretesa di andare troppo in profondità, possiamo partire dalle espressioni con le quali spesso capita di sentir chiosare alcuni momenti di altrettante fra le nostre relazioni sociali: pare brutto non andare nel suo locale, non glielo dico perché mi dispiace, abbiamo sempre fatto così, e, la versione peggiore, come si fa a non rimanere in buoni rapporti, finiamo sempre per incontrarci, in tal modo correndo il serio rischio di bypassare le vicende di incomprensione o di delusione che formano normalmente parte del contenuto affettivo delle relazioni sociali di amicizia, anestetizzandone la potenzialità, con il rischio di cristallizzare le relazioni dentro alla sclerosi propria di due facce della stessa ipocrisia. E non è certo un caso che il termine ipocrita, dal greco: υποκριτής, υπò (sotto) κρινειν (spiegare). Nell'antica Grecia υποκριτής era l'attore.
Ovviamente lungi da chi scrive l’intento di propugnare l’istintiva e precipitosa rottura delle relazioni sociali, anche se, assai spesso, pare che questa, di fatto, si possa incistare in relazioni che riducono la significatività del loro contenuto oltre che la possibilità di evolvere e crescere anche attraverso alcune fisiologiche fasi di conflitto.
D’altra parte la giornata resta, per fortuna e per ciascuno di noi, di complessive ventiquattro ore e questo implica che la gestione delle relazioni nella forma descritta toglie il tempo e la possibilità di aprirne altre, che, se la matematica non è un'opinione, grazie a questo falso e diffusissimo rispetto umano, si vedranno permanentemente negata la possibilità di costituirsi.
Se, come scrive, nel 1964 Eric Berne, in “What do you say after you say hallo?”, tradotto in Italia con il titolo “Ciao…e poi? La psicologia del destino umano” ,
«Salutare correttamente significa vedere l’altra persona, diventarne coscienti come fenomeno, esistere per lei ed essere pronti al suo esistere per noi (1964, pag.11)»
a partire dal saluto, ossia dal gesto di apertura della relazione, si esprime la percezione, prefigurandosi la presenza, dell’altro che, in tal modo, entra a far parte del nostro universo umano e personale.
Una buona ragione per evitare, sulla scia di un falso rispetto umano,
la cronicizzazione delle fasi alle quali, in modo analogo rispetto
a quelle felici e gratificanti, è affidata la crescita e l’evoluzione
umana e personale delle relazioni.