Altezza, larghezza e profondità nella prospettiva della nostra storia, anche personale

Editoriale Marzo 2019La prima reazione suscitata da questa foto è stata di quelle che sorprendono per la loro capacità di unire più sensazioni, contrastanti nella consapevolezza di averle vissute entrambe, sia pure in tempi e sulla scorta di altrettante sollecitazioni diverse, ossia: da un lato, la constatazione, ilare, della realtà rappresentata, in forma caricaturale ma densa del significato riprodotto nell’immagine; dall’altro, la sensazione, avvolgente, di meditare su un’inedita modalità, nell’assumere e vivere la relazione sociale, così ormai irrimediabilmente mutata, sotto i nostri occhi, al punto da svolgersi anche a dispetto dell’indubbio pericolo che la stessa comporta.

E, infatti, la marcia, debolmente trascinata sui passi di chi, guidato su un percorso altro rispetto a quello mosso per strada, segue l'itinerario delle righe che compongono le mail ed i messaggi WhatsApp, è infatti esposta al rischio di urti o cadute, specie in fase di incrocio (appunto come si dice nei manuali per i corsi di scuola guida) con altre persone le quali, invece che trattenute da quanto giunto per il tramite dello smartphone, sono protese verso che ciò che devono raggiungere, con le sensibili differenze di velocità e ritmo che derivano dalla differente ora della giornata nella quale si verificano, ma che sono fatalmente proprie solo di chi percorre le strade senza consultare altra tangibile struttura fuor da quella che ci contiene tutti fisicamente.

Ma non è questa l’unica differenza che si libera dal cammino, sospeso, del lettore di messaggi, inevitabilmente, invece, astratto, nel senso proprio del participio passato del verbo, più che attratto, dalla molteplicità delle dimensioni nelle quali ognuno di noi si proietta quando attraversa le vie della città, specialmente quelle che si percorrono a piedi.

Le strutture architettoniche, quand’anche non esprimano il passato risalente proprio delle costruzioni antiche, come, invece, accade nelle strade dei centri storici che si articolano lungo la signorile teoria di palazzi, che, magari riportati dal Medioevo o dal Rinascimento, convivono, oggi, con la viabilità contemporanea espressa in una più massiccia struttura urbana, condividono pur sempre con noi, che anche semplicemente le vediamo senza guardarle, la relazione verticale del tempo in cui siamo immersi, incidendo sulla percezione della nostra identità, che tale è, evidentemente in rapporto a ciò da cui si differenzia. Viene spontaneo pensare a come tutto questo si neutralizzi negli spostamenti mossi quando si è assorbiti dallo specchiarsi nella consultazione dei social media di cui lo smartphone ripropone la brulicante attività ad ogni ora del giorno (e della notte). D’altro canto vi è pure una dimensione prospettica sperimentabile nella profondità della relazione con le altre persone, delle quali si possono cogliere, camminandovi attraverso, frammenti di conversazione, che riportandoci minuscole e sfuggenti particelle di storie intuitivamente più complesse, ci fanno come camminare tra gli scaffali di un’immaginaria biblioteca, ove i libri si aprono per sfogliarsi casualmente, in una spontanea propria arrendevole partecipazione al nostro passaggio, fasciandoci però della gradevole sensazione di camminare nel mondo appena un po’ più consapevoli di quella naturale complessità sulla quale la distrazione può solo mentire. E, su questo, chi appartiene alla nostra generazione X, come usa dire adesso, ossia quella dei nati tra i 1960 e il 1980, così definita perché popolata da persone che, venute al mondo in un periodo di transizione tra il declino del colonialismo e la caduta del muro di Berlino con la fine della guerra fredda, costituiva una sorta di interrogativo endemico dell’epoca dei demografi che ne hanno coniato la definizione, chi appartiene, dicevo, a questa generazione ricorderà come i nostri genitori esaltassero innocentemente l’edificante funzione della televisione che proponeva la “diretta”, quella, maliziosamente, poi, ripresa da chi la televisione la produceva, con una sottolineatura, stabilmente riaffermata quasi fosse un mantra, del “bello della diretta”, non solo per giustificare inevitabili imperfezioni dei contenuti presentati, ma anche e soprattutto per continuare ad attrarre il pubblico al consumo dei programmi della cosiddetta TV di Stato, dopo che, con il Decreto Berlusconi, si era definitivamente entrati nell’epoca della televisione commerciale, e della concorrenza, in cui la convergenza e la condivisione di quanto attraversava l’ormai, quasi ex, tubo catodico, andava sempre più rarefacendosi.

Ma il ricordo di quell’orgoglioso «è in diretta», su noi, che di quella generazione siamo figli, avendoci anche convissuto, veste come un whoolrich che non passa mai di moda, stando a significare il valore dell’interazione, anche mediata ma pur sempre contestuale, quella, appunto, che si realizza ogni giorno mentre percorriamo una strada guardandoci intorno. E rispetto a ciò, certamente viene in mente l'attraversamento di una stanza buia in cerca dell’interruttore, se si pensa alla camminata scandita, o finanche interrotta, dalla consultazione di messaggi proposti, anche a distanza di tempo, da un dispositivo che non ne può evidentemente restituire il connotato emotivo, se non nella misura della traduzione ad opera delle parole alle quali essi siano affidati, magari con il soccorso dei simpatici, ma ripetitivi e sistematicamente convenzionali, emoticon chiamati a soccorso per intercettare l’impatto emotivo, potenzialmente generato da una ricezione cui non si potrà assistere, perché così è fatalmente programmato il dispositivo che la veicola. E, in tal modo, si neutralizza, così, anche la terza dimensione prospettica della nostra passeggiata, quella longitudinale.

Quindi: altezza, larghezza e profondità, i tre assi prospettici che hanno determinato le fasi cruciali proprio di quelle epoche, medievale e rinascimentale, delle quali ci sono rimasti gli affreschi, i quadri, i palazzi e, in generale, le opere d’arte che, naturalmente, strutturano la trama generativa delle nostre relazioni, all’interno delle quali, fuori dall’assai più limitata logica della verifica costante di contenuti, virtuali e differiti, che delle relazioni sono l’introverso specchio potenziale più che il tangibile contenuto, permettono di donarci e reciprocamente rigenerarci anche approfittando della più semplice dinamica quotidiana quale quella che si realizza negli spostamenti lungo e dentro le strade. Una verità intuitiva, e pure parte di un più ampio e complesso contesto, quale quello che viene proposto ai bambini dal saggio protagonista del fortunatissimo film di animazione della Dremworks, Kung–fu Panda, il quale, dialogando con un incerto e smarrito Panda Po, chiude con la sapiente battuta che gioca sulla struttura di una parola inglese che identifica una dimensione, appunto, temporale così come anche il contenuto, fisico, del dono: «Ieri è storia, domani è mistero, oggi è un dono, per questo si chiama presente».

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- 8 maggio 2014

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