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RICORRENZA SARÀ COMMEMORATA DA UNA «LETTERA APOSTOLICA» DI PAPA FRANCESCO
Girolamo e la Vulgata resistono ai secoli
Gianfranco Ravasi
Era il 30 settembre 420 e a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività di Cristo e della relativa basilica eretta da Elena, madre di Costantino, moriva san Girolamo. Aveva poco più di 70 anni (era nato a Stridone in Dalmazia in una data tra il 340 e il 350). Il Domenichino, tra il 1611 e il 1614, dedicherà a quelle ultime ore di questo celebre Dottore della Chiesa un’imponente pala d’altare alta più di quattro metri e larga due e mezzo, rappresentante l’estrema Comunione del santo, ora conservata nella Pinacoteca Vaticana, con l’altra impressionante tavola dedicata a Girolamo penitente nel deserto che Leonardo da Vinci eseguì attorno al 1482 e che ebbe una vicenda dai contorni romanzeschi.
Noi, però, a sedici secoli di distanza da quella giornata autunnale, che sarà commemorata da una Lettera apostolica di papa Francesco, vorremmo riannodare il filo dell’esistenza tormentata di questo personaggio dal carattere irto di spigoli ma dotato di una genialità unica. Risaliamo, perciò, alla quaresima del 375.
Mentre la febbre l’aveva fatto assopire, s’era acceso un sogno nella mente di Girolamo, allora residente ad Antiochia di Siria. Egli si era trovato ritto davanti al Giudice divino: «Interrogato circa la mia condizione, risposi di essere cristiano. Ma Colui che presiedeva quell’assise, mi investì: Tu mentisci! Tu sei ciceroniano, non cristiano!». «Signore – replicai – se ancora avrò in mano libri mondani, se li leggerò, sarà come se ti avessi rinnegato!». Così il santo raccontava, in una lettera indirizzata alla fedele discepola Eustochio, la grande svolta della sua vita.
«Divenni, allora – narrerà in un altro scritto epistolare – discepolo di un fratello ebreo convertito per imparare, dopo le sottigliezze di Quintiliano, i fiumi di eloquenza di Cicerone, la gravità di Frontone e la piacevolezza di Plinio, un nuovo alfabeto e per esercitarmi a pronunziare suoni striduli e aspirati. Quale fatica sia stata per me, quali difficoltà vi abbia incontrato, quante volte abbia smesso e poi, per il desiderio di imparare, abbia di nuovo ripreso, lo può testimoniare solo la mia coscienza, che ha sopportato tutto ciò, ma anche quella di coloro che mi erano compagni di vita».
Iniziava, così, la grande avventura divenuta celebre col nome di Vulgata, ossia l’elaborazione di una traduzione «popolare» latina della Bibbia.
L’avvio avvenne a Roma, ove Girolamo si era domiciliato a partire dal 382; inizialmente si trattò di una semplice revisione della versione latina del Nuovo Testamento allora già in uso, la cosiddetta Vetus latina, operazione condotta su incarico di papa Damaso I, eletto nel 366. Alla morte di quest’ultimo nel 384, il focoso Girolamo si era scontrato col successore, il papa Siricio, e aveva deciso di imprimere un’altra svolta alla sua esistenza. Lasciata la capitale, si era trasferito in Terrasanta, a Betlemme, ove sarà poi seguito da quel gruppo di donne aristocratiche romane con le quali aveva inaugurato nella capitale un circolo di studi biblici e spirituali.
Siamo nel 385-86. Là, accanto alla grotta dov’era nato Gesù, Girolamo, oltre a costituire due monasteri, l’uno maschile e l’altro femminile, si consacra all’impresa della traduzione latina delle Scritture. Nel 389-390 affronta il Salterio ma sulla base non dell’originale ebraico bensì dell’antica versione greca della Bibbia detta «dei Settanta» (solo più tardi ne eseguirà un’altra sull’ebraico, ma questa traduzione non entrerà nella Vulgata). Passerà, poi, agli altri libri anticotestamentari, procedendo in modo diseguale, anche secondo il suo temperamento mutevole, i suoi gusti e le circostanze.
Così, ad esempio, tradusse il libro di Giuditta di malavoglia in una sola notte, Tobia in un solo giorno, usando un testo aramaico a noi non pervenuto. Rigettò gli altri libri deuterocanonici (Siracide, Sapienza, Baruc, Maccabei) perché non scritti in ebraico e quindi non accolti dal Canone giudaico. In soli tre giorni affrontò il Cantico dei cantici, Qohelet e i Proverbi. Nell’anno 406, Girolamo giungeva alla fine della sua impresa e dal quel momento egli si sarebbe dedicato fino appunto alla morte, soprattutto all’attività di esegeta (attività per altro già prima praticata), di teologo e di instancabile polemista.
Con tutte le riserve e le critiche, spesso comprensibili considerati i tempi di lavoro e la nostra diversa sensibilità filologica, la Vulgata del santo dalmata costituì non solo un monumento letterario del tardo latino ma plasmò la lingua teologica dell’Occidente cristiano. In verità il successo arrise all’opera solo un paio di secoli dopo, quando essa ebbe l’avallo pratico di s. Gregorio Magno, papa dal 590 al 605. Da quel momento la Vulgata fu copiata in migliaia di codici, non di rado trascinando con sé detriti di ogni genere (errori degli scribi, mutamenti intenzionali, variazioni, contaminazioni con altre versioni e così via). Per tutto il Medio Evo la traduzione gerominiana brillò, anche se mai in un'unica forma definita.
Il mattino dell’8 aprile 1546, nella quarta sessione del Concilio di Trento si ebbe finalmente la «canonizzazione» dell’impresa di Girolamo (si noti, comunque, che forse per l’intero Nuovo Testamento – certamente per i Vangeli – il santo non eseguì mai una nuova versione ma revisionò solo l’antica traduzione latina preesistente).
La dichiarazione conciliare era “pesante” nel suo tenore: i Padri sinodali, infatti, ammonivano che «se qualcuno non avesse accolto come sacri e canonici gli stessi libri sacri integri con tutte le loro parti, così come nella Chiesa cattolica si è soliti leggere e si trovano nell’antica Vulgata latina, e avesse coscientemente e coerentemente disprezzato la suddetta traduzione, sarebbe stato anatema».
Naturalmente di mezzo c’era la polemica con la Riforma, ma fu lo stesso Concilio, nel pomeriggio del medesimo giorno, a precisare che l’«autenticità» della Vulgata riguardava «le lezioni pubbliche, le dispute, la predicazione e la spiegazione».
Non si trattava, quindi, di un’autenticità critico - letteraria e strettamente dogmatica in ogni sua parte, bensì di una norma di ordine giuridico, disciplinare e pastorale. Ci vollero, comunque, un secolo e mezzo di studi e di tentativi per approdare nel 1592 all’edizione definitiva del testo ufficiale ecclesiale della Vulgata, quella che sarà chiamata poi la «Bibbia sisto-clementina» dal nome dei due papi (Sisto V e Clemente VIII) che dettero il sigillo finale di approvazione. L’edizione critica in senso moderno verrà, invece, allestita attraverso diversi esperimenti nel secolo scorso. In quel periodo – con Paolo VI e col Concilio Vaticano II – si promosse anche una Nova Vulgata, ossia una revisione del testo gerominiano tenendo conto delle esigenze della moderna critica testuale e dell’esegesi, revisione approvata da Giovanni Paolo II nel 1979, destinata però a una scarsa incidenza ecclesiale.
Infatti, da tempo erano entrate in vigore le nuove versioni nelle varie lingue secondo i criteri attuali esegetici. Ma l’esperimento di san Girolamo da sedici secoli esercita ancor oggi non solo un indubbio fascino letterario ma condiziona in qualche modo il pensiero e il vocabolario teologico. Georges Mounin ironizzava definendo ogni buona traduzione comeuna belle infidèle, sulla scia del grande Cervantes, convinto che ogni versione fosse come il triste rovescio di un bell’arazzo. I problemi sollevati dal tradurre un testo non sono, infatti, solo linguistico - letterari ma ermeneutici, soprattutto quando di mezzo c’è una Scrittura «sacra». Tuttavia Girolamo rimane, ancor oggi, proprio in questo senso, un emblema di merito e di metodo, col suo rigore e la sua libertà, con la sua conoscenza e la sua creatività.
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Dalla Domenica del Il Sole24Ore - Domenica 27 settembre 2020
Decreto Pillon e soluzioni in favore dei figli
L’automatismo dei soli “tempi paritetici” non basta a soddisfare le esigenze della crisi famigliare
L’art. 11 del Disegno di Legge N. 735 del 2018 "Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità", rubricato “Modifica dell'articolo 337 – ter del codice civile” prevede che «Indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori, il figlio minore, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e con la madre, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali, con paritetica assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità. Ha anche il diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale».
L’inciso «diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale» è stato immediatamente, da più parti, interpretato nel senso che i padri, generalmente non collocatari dei figli, prevalentemente, invece, conviventi con le madri, ove il disegno di legge mantenesse il suo attuale contenuto, avrebbero la possibilità di recuperare spazi e tempi di frequentazione dei figli.
Già ad una prima lettura risulta, tuttavia, come non siano stati valutati i reali ed effettivi riflessi sui figli di un'applicazione così rigida della pariteticità dei tempi di permanenza. Ferma l'intangibilità del principio per il quale eguali opportunità debbano essere, effettivamente, garantite ai figli ed ai genitori separati (o divorziati), giova senz’altro ragionevolmente dubitare che ciò possa risolutivamente avvenire con l'elementare schema di un eguale tempo trascorso con entrambi i genitori. Basti solo considerare alcuni fattori di un’immediata evidenza: la scelta di due genitori di addivenire alla separazione o al divorzio, anche in presenza di figli minori, risulta evidentemente dettata non solo dalla crisi famigliare ma anche, ragionevolmente, dal desiderio di uno (o di entrambi) fra i coniugi di procedere ad una riorganizzazione della propria vita in modi e forme che, sia sotto il profilo dei legami ex novo eventualmente instaurati, sia dal punto di vista della nuova residenza e della nuova organizzazione professionale, potrebbe portare il genitore non collocatario, ad allontanarsi fisicamente (ma anche emotivamente) dalla propria originaria organizzazione di vita. Ciò anche senza considerare che la ricostituzione di nuovi vincoli affettivi, magari corredati dalla convivenza, richiede, proprio a tutela dei minori, il rispetto di un ingresso degli stessi con la gradualità che è necessaria a non sentirsi “tollerati” da chi loro genitore non è. D’altra parte, di non minor pregio sono gli interrogativi che, sul piano meramente pratico, suscita la proposta contenuta nel decreto Pillon, nella quale sembra volersi “liquidare” nel senso che a questa parola, in questo contesto, avrebbe forse attribuito Zygmunt Baumnan (filosofo polacco recentemente scomparso), la sacrosanta aspettativa dei genitori, separati o divorziati, non conviventi con i figli, di una «paritetica assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità». Proviamo allora a domandarci cosa significhi, in concreto, per i figli, l’acritica applicazione di un automatico, medesimo, tempo trascorso con i genitori: stare nella stessa casa entro la quale i genitori si alternano? Oppure dividersi tra l’una e l’altra casa, in tale ipotesi con grande sacrificio della propria organizzazione di vita in relazione a scuola, sport e amicizie, dovendo alternare tre giorni a quattro, con l’uno e con l’altro, o una settimana all’altra, magari anche in città diverse? In quest’ultimo caso si parla sostanzialmente di bambini sempre con il trolley al seguito, come si dice,con la conseguente spersonalizzazione del proprio ambiente domestico. Tutto ciò per avere, sia pure in modo sottile e silente, caricato sulle sole spalle dei figli l’onere di questo genere di organizzazione.
Ove si intenda tener fede alla funzione del diritto, la tutela del soggetto debole, ossia il minore, occorreranno proposte normative che, da un lato, rispettino la libertà del minore di formarsi egli stesso un’idea di cosa sia una famiglia, evitando che le principali figure affettive di riferimento, come i genitori, si facciano portatrici di una soggettiva e personalissima idea della stessa, quale quella che emergerebbe, ad esempio, dal loro alternarsi all’interno di una stessa casa, quasi che questa (e le persone che vi co – abitano) stia al di fuori di ogni legame stabile con l’ambiente di vita, dall’altro, permettano al minore di maturare la propria esperienza della separazione dei genitori, senza che gliene siano imposte modalità e tempi, favorendo, invece, soluzioni rispondenti a criteri di elasticità e creatività di un’organizzazione di vita, della quale il figlio va reso direttamente partecipe, tenendo conto delle sue esigenze, compatibilmente con il suo stadio di maturazione psicoaffettivo.
Reddito di cittadinanza e tutela della Privacy
Le regole del DL sul reddito di cittadinanza, ispirate ad una semplificazione delle procedure, pregiudicano le esigenze di garanzia dei dati sensibili
Con memoria in data 08 febbraio 2019, il Garante Privacy interviene sul ddl di conversione del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, Recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e pensioni. Il Garante osserva anzitutto che «il prospettato meccanismo di riconoscimento, erogazione e gestione del reddito di cittadinanza (di seguito Rdc) comporta il trattamento su larga scala di dati personali, riferiti ai richiedenti e ai componenti il suo nucleo famigliare» trattandosi di «dati relativi allo stato di salute e all'eventuale sottoposizione a misure restrittive della libertà personale». In modo particolare e preliminarmente si rileva come non sia stato richiesto il parere «di cui all’art. 36, par. 4 del Regolamento Generale sulla protezione dei dati ove è disciplinata la consultazione preventiva dell’Autorità» con la conseguente impossibilità di «evidenziare nel dettaglio i rischi derivanti dalle diverse attività di trattamento (…) individuare preventivamente misure idonee a mitigarli così da evitare limitazioni dei diritti degli interessati sproporzionate e ingiustificate rispetto al legittimo obiettivo di interesse pubblico perseguito». Fatta questa premessa il Garante rileva che il decreto legge contiene previsioni «inidonee a definire con sufficiente chiarezza le modalità di svolgimento delle procedure di consultazione e verifica delle varie banche dati»: nel dettaglio alcune disposizioni del decreto legge «presuppongono un massivo flusso di informazioni tra quelle assistite dalla maggior tutela, ivi incluse quelle presenti negli archivi dei rapporti finanziari tra diversi soggetti pubblici». Si imputa al Governo di avere previsto tutto questo «in assenza di un'adeguata cornice di riferimento che individui pertinenti regole di accesso selettivo alle banche dati, introduca accorgimenti idonei a garantire la qualità e l’esattezza dei dati, nonché misure tecniche e organizzative volte a scongiurare i rischi di accessi indebiti, utilizzi fraudolenti dei dati o violazione dei sistemi informativi, oltre a procedure idonee a garantire agli interessati l’agevole esercizio dei loro diritti». Venendo poi alle attività di monitoraggio delle quali tanto si è parlato all’epoca dell'approvazione dl decreto legge «altrettante perplessità» suscita nel Garante «la disposizione che attribuisce agli operatori dei Centri per l’Impiego e dei servizi comunali la funzione di monitoraggio dei consumi e dei comportamenti dei beneficiari, nonché di valutazione di eventuali anomalie dalle quali si possa dedurre l'insussistenza dei requisiti dichiarati (art. 6, comma 6)». Ad interessare l’attività di vigilanza cui è preposto il Garante sono in modo particolare «i controlli puntuali sulle scelte di consumo individuali, condotti dagli operatori dei centri per l'impiego e dei servizi comunali in assenza di procedure ben definite e di criteri normativamente individuati» cosicché «le legittime esigenze di verifica di eventuali abusi e comportamenti fraudolenti si traducono in una sorveglianza su larga scala continua e capillare sugli utilizzatori della carta, determinando così un’intrusione sproporzionata e ingiustificata su ogni aspetto della vita privata degli interessati». In conclusione il Garante rileva come il Decreto Legge sia stato approvato e venga attuato in aperta violazione «rispetto a quanto richiede il Regolamento Europeo (Artt. 24 e 25)». Venendo a cosa il Garante richiede per la riconduzione in un ambito di conformità al regolamento del decreto, «dovranno essere puntualmente definiti i presupposti per l'avviamento di tali attività di monitoraggio e individuate le tipologie di controllo, i criteri per la classificazione dei comportamenti anomali, nonché i soggetti legittimati allo svolgimento di tali attività, le garanzie per gli interessati e i tempi di conservazioni dei dati», in pratica l’intero arco di tutela dei dati sensibili che, stando a questa valutazione del Garante, il Decreto istitutivo del Reddito di cittadinanza, al momento, non tutelerebbe in alcun modo. E pure in relazione alle «attestazioni ISEE (art. 11, comma 2, lett. d) n. 2)» non mancano le perplessità, visto che esse sono «suscettibili di pregiudicare la sicurezza dei dati contenuti nell'anagrafe tributaria e, sopratutto, nell’archivio dei rapporti finanziari dell’Agenzia delle Entrate, finora inaccessibili persino nell’ambito delle normali attività di controllo tributario, in ragione degli elevati rischi connessi al relativo trattamento di tal informazioni». Il garante fa un preciso richiamo alla necessità di evitare «anche soltanto il rischio di fraudolente sostituzioni di identità presso i CAF, ovvero di attacchi informatici, facilitati anche dal coinvolgimento degli stessi CAF e dei relativi sistemi informativi (non sempre adeguatamente protetti) nella filiera del trattamento».
Il desiderio della fiducia nel secondo figlio
Una ricerca rileva che in dieci anni la percentuale di donne che afferma di rinunciare a una seconda maternità per motivi economici è salita dal 19 al 25% Un fenomeno che colpisce anche chi non ha avuto problemi. Eppure il 90% continua a desiderare almeno un altro bambino
articolo di Massimo Calvi
tratto da Avvenire del 17 marzo 2018
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ANALISI / L’IMPATTO DELLE RECESSIONI SUL DESIDERIO DI FAMIGLIA
Se la crisi lascia in eredità la «paura» del secondo figlio
Così l’incertezza ha penalizzato le madri più giovani
La crisi economica ha giocato un ruolo determinante nel crollo delle nascite che interessa l’Italia. Per intuirlo non sono necessarie ricerche particolari. Tuttavia indagare a fondo come e perché le difficoltà hanno trasformato la composizione delle famiglie e le attese delle coppie può fornire indicazioni molto importanti. Un contributo in questo senso arriva da un ricerca fresca di pubblicazione che ha cercato di capire come mai tra il 2002 e il 2012, cioè nel decennio che va dal periodo precedente la crisi del 2007-2008 alle prime tre recessioni successive, molte madri hanno deciso di non avere un secondo figlio. Quello che emerge è abbastanza sorprendente: la crisi non ha aumentato le disuguaglianze, al contrario ha avvicinato le donne di diverse condizioni sociali nella rinuncia ad avere una famiglia numerosa.
L’insicurezza e la sfiducia, insomma, hanno livellato verso il basso l’universo delle madri, contagiando anche chi non ha sperimentato direttamente problemi economici.
La ricerca a cura di Francesca Fiori ed Elspeth Graham, dell’Università di St Andrews nel Regno Unito, e di Francesca Rinesi dell’Istat (goo.gl/eKyk4z) rivela proprio che in un decennio la percentuale di madri che esprimono l’intenzione di fermarsi al figlio unico è salita dal 21% al 25%.
La percezione di insicurezza diffusa, di paura di andare incontro a problemi in futuro, ha come cancellato le differenze.
La motivazione economica è diventata rapidamente la ragione principale per dire no al secondo figlio (dal 16,7% al 25,8% dei casi), seguita dal fatto che si è raggiunto il limite di età (dal 14,1% al 18,8%), mentre l’idea di aver già soddisfatto i propri desideri riproduttivi è crollata significativamente di 7 punti (al 16%).
«Il risultato ci ha sorprese – spiega una delle ricercatrici, Francesca Fiori –. La rinuncia al secondo figlio per ragioni economiche non ha riguardato solo le madri in situazioni di disagio, ma anche quelle in condizioni migliori. Da un lato la situazione economica è peggiorata per tutte le famiglie giovani, dall’altro l’aumento della disoccupazione maschile ha probabilmente lasciato molte donne occupate nella condizione di unico percettore di reddito. Ma di sicuro la crisi ha agito anche a livello più intimo, aumentando l’incertezza e la sfiducia nel futuro. Spesso di fronte alle difficoltà la rinuncia a un figlio interessa proprio chi ha più da perdere, mentre chi è in condizione di svantaggio trova nella maternità un valore in più».
La crisi della fiducia incide sui desideri e sulla progettualità, e questo aspetto, spiegano le ricercatrici, è più preoccupante di altri fattori legati alla rinuncia ad avere figli.
Una recente ricerca a cura di Chiara Ludovica Comolli ( goo.gl/SkLrUQ), dell’Università di Stoccolma ha dimostrato come la tensione sugli spread vissuta dall’Italia tra il 2011 e il 2012 ha contribuito in modo importante a limare i tassi di natalità. D’altra parte si potrebbe pensare che in un Paese con un elevato debito pubblico come l’Italia, oggi al 130% del Pil, in mancanza di una seria strategia di stabilizzazione dei conti le famiglie possano avere atteggiamenti più prudenti in diversi ambiti, dai consumi alla famiglia. Negli ultimi 40 anni l’Italia non ha mai conosciuto tassi di fecondità particolarmente alti, tuttavia le coppie hanno storicamente manifestato una preferenza netta per la famiglia con due figli. Ancora nel 2012 il 75% delle neo madri con un figlio esprimeva la volontà di avere almeno un altro bambino. Ma se il persistere dell’incertezza trasformasse in breve tempo la 'regola dei due figli' in una regola del figlio unico più subìta che voluta? Al momento non sembra essere così. «Non abbiamo indicazioni in questa direzione – spiega Francesca Fiori – in Italia la preferenza per la famiglia con due figli è dura da sovvertire. A differenza di altri Paesi da noi c’è una fetta ampia di desiderio non soddisfatto in fatto di dimensione della famiglia. Perché si mantenga vivo servono soprattutto misure di ampio respiro capaci di creare un contesto favorevole in tutto alle famiglie, dalle politiche per il lavoro ai servizi che favoriscono la conciliazione, dalle misure per ridurre le disuguaglianze a un welfare in grado di rispondere veramente ai bisogni dei genitori».
Papa Francesco ai giovani: custodi delle radici
VEGLIA CON I GIOVANI
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Campo San Juan Pablo II – Metro Park (Panama)
Sabato, 26 gennaio 2019
Cari giovani, buonasera!
Abbiamo visto questo bello spettacolo sull’Albero della Vita che ci mostra come la vita che Gesù ci dona è una storia d’amore, una storia di vita che desidera mescolarsi con la nostra e mettere radici nella terra di ognuno. Quella vita non è una salvezza appesa “nella nuvola” in attesa di venire scaricata, né una nuova “applicazione” da scoprire o un esercizio mentale frutto di tecniche di crescita personale. Neppure la vita che Dio ci offre è un tutorial con cui apprendere l’ultima novità. La salvezza che Dio ci dona è un invito a far parte di una storia d’amore che si intreccia con le nostre storie; che vive e vuole nascere tra noi perché possiamo dare frutto lì dove siamo, come siamo e con chi siamo. Lì viene il Signore a piantare e a piantarsi; è Lui il primo nel dire “sì” alla nostra vita, Lui è sempre il primo. È il primo a dire “sì” alla nostra storia, e desidera che anche noi diciamo “sì” insieme a Lui. Lui sempre ci precede, è il primo.
E così sorprese Maria e la invitò a far parte di questa storia d’amore. Senza dubbio la giovane di Nazaret non compariva nelle “reti sociali” dell’epoca, lei non era una influencer, però senza volerlo né cercarlo è diventata la donna che ha avuto la maggiore influenza nella storia.
E le possiamo dire, con fiducia di figli: Maria, la “influencer” di Dio. Con poche parole ha avuto il coraggio di dire “sì” e confidare nell’amore, a confidare nelle promesse di Dio, che è l’unica forza capace di rinnovare, di fare nuove tutte le cose. E tutti noi, oggi, abbiamo qualcosa da rinnovare dentro. Oggi dobbiamo lasciare che Dio rinnovi qualcosa nel nostro cuore. Pensiamoci un po’: che cosa voglio che Dio rinnovi nel mio cuore?
Sempre impressiona la forza del “sì” Maria, giovane. La forza di quell’“avvenga per me” che disse all’angelo. È stata una cosa diversa da un’accettazione passiva o rassegnata. È stato qualcosa di diverso da un “sì” come a dire: “Bene, proviamo a vedere che succede”. Maria non conosceva questa espressione: vediamo cosa succede. Era decisa, ha capito di cosa si trattava e ha detto “sì”, senza giri di parole. È stato qualcosa di più, qualcosa di diverso. È stato il “sì” di chi vuole coinvolgersi e rischiare, di chi vuole scommettere tutto, senza altra garanzia che la certezza di sapere di essere portatrice di una promessa. E domando a ognuno di voi: vi sentite portatori di una promessa? Quale promessa porto nel cuore, da portare avanti? Maria, indubbiamente, avrebbe avuto una missione difficile, ma le difficoltà non erano un motivo per dire “no”. Certo che avrebbe avuto complicazioni, ma non sarebbero state le stesse complicazioni che si verificano quando la viltà ci paralizza per il fatto che non abbiamo tutto chiaro o assicurato in anticipo. Maria non ha comprato una assicurazione sulla vita! Maria si è messa in gioco, e per questo è forte, per questo è una influencer, è l’influencer di Dio! Il “sì” e il desiderio di servire sono stati più forti dei dubbi e delle difficoltà.
Questa sera ascoltiamo anche come il “sì” di Maria riecheggia e si moltiplica di generazione in generazione. Molti giovani sull’esempio di Maria rischiano e scommettono, guidati da una promessa. Grazie, Erika y Rogelio, per la testimonianza che ci avete donato. Sono stati coraggiosi questi due! Meritano un applauso. Grazie! Avete condiviso i vostri timori, le difficoltà, tutto il rischio vissuto prima della nascita di Ines. A un certo punto avete detto: “A noi genitori, per diverse ragioni, costa molto accettare l’arrivo di un bimbo con qualche malattia o disabilità”, questo è sicuro, è comprensibile. Ma la cosa sorprendente è stata quando avete aggiunto: “Quando è nata nostra figlia abbiamo deciso di amarla con tutto il nostro cuore”. Prima del suo arrivo, di fronte a tutte le notizie e le difficoltà che si presentavano, avete preso una decisione e avete detto come Maria “avvenga per noi”, avete deciso di amarla. Davanti alla vita di vostra figlia fragile, indifesa e bisognosa la vostra risposta, di Erika e Rogelio, è stata: “sì”, e così abbiamo Ines. Voi avete avuto il coraggio di credere che il mondo non è soltanto per i forti! Grazie!
Dire “sì” al Signore significa avere il coraggio di abbracciare la vita come viene, con tutta la sua fragilità e piccolezza e molte volte persino con tutte le sue contraddizioni e mancanze di senso, con lo stesso amore con cui ci hanno parlato Erika e Rogelio. Prendere la vita come viene. Significa abbracciare la nostra patria, le nostre famiglie, i nostri amici così come sono, anche con le loro fragilità e piccolezze. Abbracciare la vita si manifesta anche quando diamo il benvenuto a tutto ciò che non è perfetto, a tutto quello che non è puro né distillato, ma non per questo è meno degno di amore. Forse che qualcuno per il fatto di essere disabile o fragile non è degno d’amore? Vi domando: un disabile, una persona disabile, una persona fragile, è degna di amore? [rispondono: sì!] Non si sente bene… [più forte: sì!] Avete capito. Un’altra domanda, vediamo come rispondete. Qualcuno, per il fatto di essere straniero, di avere sbagliato, di essere malato o in una prigione, è degno di amore? [rispondono: sì!] Così ha fatto Gesù: ha abbracciato il lebbroso, il cieco e il paralitico, ha abbracciato il fariseo e il peccatore. Ha abbracciato il ladro sulla croce e ha abbracciato e perdonato persino quelli che lo stavano mettendo in croce.
Perché? Perché solo quello che si ama può essere salvato. Tu non puoi salvare una persona, non puoi salvare una situazione, se non la ami. Solo quello che si ama può essere salvato. Lo ripetiamo? [insieme] Solo quello che si ama può essere salvato. Un’altra volta! [i giovani: “Solo quello che si ama può essere salvato”]. Non dimenticatelo. Per questo noi siamo salvati da Gesù: perché ci ama e non può farne a meno. Possiamo fargli qualunque cosa, ma Lui ci ama, e ci salva. Perché solo quello che si ama può essere salvato. Solo quello che si abbraccia può essere trasformato. L’amore del Signore è più grande di tutte le nostre contraddizioni, di tutte le nostre fragilità e di tutte le nostre meschinità. Ma è precisamente attraverso le nostre contraddizioni, fragilità e meschinità che Lui vuole scrivere questa storia d’amore. Ha abbracciato il figlio prodigo, ha abbracciato Pietro dopo i suoi rinnegamenti e ci abbraccia sempre, sempre, sempre dopo le nostre cadute aiutandoci ad alzarci e a rimetterci in piedi. Perché la vera caduta – attenzione a questo – la vera caduta, quella che può rovinarci la vita, è rimanere a terra e non lasciarsi aiutare. C’è un canto alpino molto bello, che cantano mentre salgono sulla montagna: “Nell’arte dell’ascesa, la vittoria non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Non rimanere caduto! Dare la mano, perché ti facciano alzare. Non rimanere caduto.
Il primo passo consiste nel non aver paura di ricevere la vita come viene, non avere paura di abbracciare la vita così com’è. Questo è l’albero della vita che abbiamo visto oggi [durante la Veglia].
Grazie, Alfredo, per la tua testimonianza e il coraggio di condividerla con tutti noi. Mi ha molto colpito quando hai detto: “Ho iniziato a lavorare nell’edilizia fino a quando terminò quel progetto. Senza impiego le cose presero un altro colore: senza scuola, senza occupazione e senza lavoro”. Lo riassumo nei quattro “senza” per cui la nostra vita resta senza radici e si secca: senza lavoro, senza istruzione, senza comunità, senza famiglia. Ovvero una vita senza radici. Senza lavoro, senza istruzione, senza comunità e senza famiglia. Questi quattro “senza” uccidono.
È impossibile che uno cresca se non ha radici forti che aiutino a stare bene in piedi e attaccato alla terra. È facile disperdersi quando non si ha dove attaccarsi, dove fissarsi. Questa è una domanda che noi adulti siamo tenuti a farci, noi adulti che siamo qui, anzi, è una domanda che voi dovrete farci, voi giovani dovrete fare a noi adulti, e noi avremo il dovere di rispondervi: quali radici vi stiamo dando?, quali basi per costruirvi come persone vi stiamo offrendo? E’ una domanda per noi adulti. Com’è facile criticare i giovani e passare il tempo mormorando, se li priviamo di opportunità lavorative, educative e comunitarie a cui aggrapparsi e sognare il futuro! Senza istruzione è difficile sognare un futuro; senza lavoro è molto difficile sognare il futuro; senza famiglia e senza comunità è quasi impossibile sognare il futuro. Perché sognare il futuro significa imparare a rispondere non solo perché vivo, ma per chi vivo, per chi vale la pena di spendere la mia vita. E questo dobbiamo favorirlo noi adulti, dandovi lavoro, istruzione, comunità, opportunità.
Come ci diceva Alfredo, quando uno si sgancia e rimane senza lavoro, senza istruzione, senza comunità e senza famiglia, alla fine della giornata ci si sente vuoti e si finisce per colmare quel vuoto con qualunque cosa, con qualunque bruttura. Perché ormai non sappiamo per chi vivere, lottare e amare. Agli adulti che sono qui, e a quelli che ci stanno vedendo, domando: che cosa fai tu per generare futuro, voglia di futuro nei giovani di oggi? Sei capace di lottare perché abbiano istruzione, perché abbiano lavoro, perché abbiano famiglia, perché abbiano comunità? Ognuno di noi grandi, risponda nel proprio cuore.
Ricordo che una volta, parlando con alcuni giovani, uno mi ha chiesto: “Perché oggi tanti giovani non si domandano se Dio esiste o fanno fatica a credere in Lui ed evitano di impegnarsi nella vita?”. E io ho risposto: “E voi, cosa ne pensate?”. Tra le risposte che sono venute fuori nella conversazione mi ricordo di una che mi ha toccato il cuore ed è legata all’esperienza che Alfredo ha condiviso: “Padre, è che molti di loro sentono che, a poco a poco, per gli altri hanno smesso di esistere, si sentono molte volte invisibili”. Molti giovani sentono che hanno smesso di esistere per gli altri, per la famiglia, per la società, per la comunità…, e allora, molte volte si sentono invisibili. È la cultura dell’abbandono e della mancanza di considerazione. Non dico tutti, ma molti sentono di non avere tanto o nulla da dare perché non hanno spazi reali a partire dai quali sentirsi interpellati. Come penseranno che Dio esiste se loro stessi, questi giovani da tempo hanno smesso di esistere per i loro fratelli e per la società? Così li stiamo spingendo a non guardare al futuro, e a cadere in preda di qualsiasi droga, di qualsiasi cosa che li distrugge. Possiamo chiederci: cosa faccio io con i giovani che vedo? Li critico, o non mi interessano? Li aiuto, o non mi interessano? E’ vero che per me hanno smesso di esistere da tempo?
Lo sappiamo bene, non basta stare tutto il giorno connessi per sentirsi riconosciuti e amati. Sentirsi considerato e invitato a qualcosa è più grande che stare “nella rete”. Significa trovare spazi in cui con le vostre mani, con il vostro cuore e con la vostra testa potete sentirvi parte di una comunità più grande che ha bisogno di voi e di cui anche voi, giovani, avete bisogno.
E questo i santi l’hanno capito bene. Penso per esempio a Don Bosco [i giovani applaudono] che non se ne andò a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale – si vede che qui ci sono quelli che vogliono bene a Don Bosco!, un applauso! Don Bosco non è andato a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale; semplicemente imparò a guardare, a vedere tutto quello che accadeva attorno nella città e a guardarlo con gli occhi di Dio e, così, fu colpito da centinaia di bambini e di giovani abbandonati senza scuola, senza lavoro e senza la mano amica di una comunità. Molta gente viveva in quella stessa città, e molti criticavano quei giovani, però non sapevano guardarli con gli occhi di Dio. I giovani bisogna guardarli con gli occhi di Dio. Lui lo fece, Don Bosco, seppe fare il primo passo: abbracciare la vita come si presenta; e, a partire da lì, non ebbe paura di fare il secondo passo: creare con loro una comunità, una famiglia in cui con lavoro e studio si sentissero amati. Dare loro radici a cui aggrapparsi per poter arrivare al cielo. Per poter essere qualcuno nella società. Dare loro radici a cui aggrapparsi per non essere abbattuti dal primo vento che viene. Questo ha fatto Don Bosco, questo hanno fatto i santi, questo fanno le comunità che sanno guardare i giovani con gli occhi di Dio. Ve la sentite, voi grandi, di guardare i giovani con gli occhi di Dio?
Penso a tanti luoghi della nostra America Latina che promuovono quello che chiamano famiglia grande casa di Cristo che, col medesimo spirito di altri centri, cercano di accogliere la vita come viene nella sua totalità e complessità, perché sanno che «per l’albero c’è [sempre] speranza: se viene tagliato, ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessano di crescere» (Gb 14,7).
E sempre si può “rinnovarsi e germogliare”, sempre si può cominciare di nuovo quando c’è una comunità, il calore di una casa dove mettere radici, che offre la fiducia necessaria e prepara il cuore a scoprire un nuovo orizzonte: orizzonte di figlio amato, cercato, trovato e donato per una missione. Il Signore si fa presente per mezzo di volti concreti. Dire “sì” come Maria a questa storia d’amore è dire “sì” ad essere strumenti per costruire, nei nostri quartieri, comunità ecclesiali capaci di percorrere le strade della città, di abbracciare e tessere nuove relazioni. Essere un “influencer” nel secolo XXI significa essere custodi delle radici, custodi di tutto ciò che impedisce che la nostra vita diventi “gassosa”, che la nostra vita evapori nel nulla. Voi adulti, siate custodi di tutto ciò che ci permette di sentirci parte gli uni degli altri, custodi di tutto ciò che ci fa sentire che apparteniamo gli uni agli altri.
Così l’ha vissuto Nirmeen nella GMG di Cracovia. Ha incontrato una comunità viva, gioiosa, che le è andata incontro, le ha dato un senso di appartenenza, e dunque di identità, e le ha permesso di vivere la gioia che comunica l’essere incontrata da Gesù. Nirmeen evitava Gesù, lo evitava, teneva le distanze, finché qualcuno le ha fatto mettere radici, le ha dato un’appartenenza, e quella comunità le ha dato il coraggio di incominciare questo cammino che lei ci ha raccontato.
Un santo – latinoamericano – una volta si domandò: «Il progresso della società, sarà solo per arrivare a possedere l’ultimo modello di automobile o acquistare l’ultima tecnologia sul mercato? In questo consiste tutta la grandezza dell’uomo? Non c’è niente di più che vivere per questo?» (S. Alberto Hurtado, Meditación de Semana Santa para jóvenes, 1946). Io vi domando, ai voi giovani: voi volete questa grandezza? O no? [“No!”] Siete incerti… Qui non si sente bene, che succede?… [“No!”] La grandezza non è soltanto possedere la macchina ultimo modello, o comprare l’ultima tecnologia sul mercato. Voi siete stati creati per qualcosa di più grande! Maria l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Erika e Rogelio l’hanno capito e hanno detto: “Avvenga per noi!”. Alfredo l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Nirmeen l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Li abbiamo ascoltati qui. Amici, vi domando: Siete disposti a dire “sì”? [“Sì!”] Adesso rispondete, così mi piace di più! Il Vangelo ci insegna che il mondo non sarà migliore perché ci saranno meno persone malate, meno persone deboli, meno persone fragili o anziane di cui occuparsi, e neppure perché ci saranno meno peccatori, no, non sarà migliore per questo. Il mondo sarà migliore quando saranno di più le persone che, come questi amici che ci hanno parlato, sono disposte e hanno il coraggio di portare in grembo il domani e credere nella forza trasformatrice dell’amore di Dio. A voi giovani chiedo: volete essere “influencer” nello stile di Maria [“Sì!”] Lei ha avuto il coraggio di dire “avvenga per me”. Solo l’amore ci rende più umani, non i litigi, non lo studio soltanto: solo l’amore ci rende più umani, più pieni, tutto il resto sono buoni ma vuoti placebo.
Fra poco ci incontreremo con Gesù, Gesù vivo nell’eucaristia . Di certo avrete molte cose da dirgli, molte cose da raccontargli su varie situazioni della vostra vita, delle vostre famiglie e dei vostri paesi.
Stando di fronte a Gesù, faccia a faccia, abbiate il coraggio, non abbiate paura di aprirgli il cuore, perché Lui rinnovi il fuoco del Suo amore, perché vi spinga ad abbracciare la vita con tutta la sua fragilità, con tutta la sua piccolezza, ma anche con tutta la sua grandezza e bellezza. Che Gesù vi aiuti a scoprire la bellezza di essere vivi e svegli. Vivi e svegli.
Non abbiate paura di dire a Gesù che anche voi desiderate partecipare alla sua storia d’amore nel mondo, che siete fatti per un “di più”!
Amici, vi chiedo anche che, in questo faccia a faccia con Gesù, siate buoni e preghiate per me, perché anch’io non abbia paura di abbracciare la vita, perché sia capace di custodire le radici, e dica come Maria: “Avvenga per me secondo la tua parola!”.
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/january/documents/papa-francesco_20190126_panama-veglia-giovani.html
Intagliatori di raffinati oggetti mobili e non scultori ….
I grandi popoli nomadi che negli ultimi duemila anni hanno rimescolato le popolazioni del Nord Europa e dell’Am
erica così come quelle del Mediterraneo meridionale, cioè i barbari delle invasioni e gli arabi dell’Egira, hanno pratiche diverse, sono costruttori e non architetti, narratori e non pittori, intagliatori di raffinati oggetti mobili e non scultori.
Le arti occidentali si sono sviluppate nell’ultimo millennio e mezzo grazie al confronto dialettico fra questi due potentissimi poli stabili fino a raggiungere la sintesi della modernità nel XIX secolo. Nell’ultimo secolo il coagulo si è dimostrato instabile e il movimento delle identificazioni è sembrato rimettersi in moto.
Henri Matisse , borghese ottocentesco nato all’estremo nord della Francia, è morto a Nizza in pieno ventesimo secolo. Aveva trasferito il concetto di Luxe, calme et volupté, inventato da Baudelaire come invito al viaggio verso la Normandia, in un dipinto del 1904 realizzato nella luce e nei colori della Costa Azzurra. E le sue odalische sognano il tepore d’un Nord Africa ove Paul Klee scopre la sua vocazione moderna, così come per Fernand Braudel, appunto, la prima sede d’insegnamento nel 1924 è l’Algeria nella quale André Gide, coetaneo di Matisse, aveva scoperto la sua libertà letteraria prima che vi nascesse quella di Albert Camus, Pablo Picasso porta prorompente la forza del mediterraneo a Parigi, come De Chirico vi porta la visione greca.
Il Sud è culla del colore franco, della forma dichiarata, della materia plasmata. Tema utile oggi da ricordare a New York e a Londra, dove ci si è dimenticati del flash visivo che colpì Turner nella laguna di Venezia.
[Cfr. Philippe D’Averio – Art e Dossier, n. 274 febbraio 2011]
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La natura resta, in ogni caso, il riferimento privilegiato dell’architettura. La sfera celeste e i movimenti cosmici, le forme tettoniche della terra, le strutture vegetali e zoologiche, la fluidità dell’acqua sono solo alcune delle infinite manifestazioni naturali assunte come fonti di ispirazione dai costruttori di ogni epoca. La natura e, inoltre, essenzialmente evoluzione e trasformazione, ovvero un insieme di processi autoregolatori e e sistemi biofisici che sono serviti, e ancor più possono oggi servire, da modello pe la creazione di un’architettura organica ed ecosostenibile.
[Cfr. Andrea Ponsi – Archichettura e analogia
Art e Dossier, n. 350 febbraio 2018]
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I tre fanciulli appesi a un albero in una piazza milanese da un pubblicitario veneto non sono arte per mancanza di ambiguità. La lor lettura univoca è ragione della loro banalità. Mentre il mondo delle arti consente letture in direzioni diverse: è quindi etimologicamente ambiguo (va per ambo i lati del crinale) e triviale (porta a tre vie almeno). L’opera d’arte può generare stimoli stilistici, può suscitare voglie interpretative, può segnare la strada evolutiva delle tecniche della percezione e della restituzione di questa percezione, può limitarsi alle pratiche materiali della sua realizzazione, oppure può riassumere tute le contraddizioni o tutte le combinazioni di questi vari percorsi per diventare il più attraente campo d’indagine per chi abbia interesse nei suoi simili, gli altri uomini, o addirittura la specie che governa il nostro permanere sulla terra.
[Cfr. Philippe D’Averio – L’arte di Guardare l’arte, Introduzione, 2017]
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Prima itinera Conteggio articoli: 16
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L'esercizio della memoria Conteggio articoli: 9
L'esercizio della memoria
“Perché ricordare, se non per un tal quale esame di coscienza e per non disperdere i valori?”.
Massimo Ermini nella commemorazione di suo padre, Giuseppe Ermini, nel decennale della morte, svoltosi nel 1991
Sport luogo di storie ma, soprattutto, di valori. Conteggio articoli: 11
Sport luogo di storie ma, soprattutto, di valori.
«Al pomeriggio ci portavamo in cortile per la merenda e la ricreazione. Aspettavamo con ansia quel momento per correre dietro a un pallone e per sfinirci in memorabili sfide nel campetto della colonia. Ricordo come fosse adesso quel rombo di aereo. Aevavamo ancora nelle orecchie l'incubo dei motori da guerra e quindi ci fermammo tutti con il naso per aria. Lilina Macotta la nostra assistente, ci regalò un'ipotesi emozionante: «Dev'essere l'aereo del Toro». Ricominciammo subito a correre dietro alla palla». Il Mio Toro. La mia Missione, di don Aldo Rabino (1939 - 2015) e Beppe Gandolfo (1959) Don Aldo Rabino, promessa del calcio giovanile, lascia lo sport attivo per diventare, nel 1968, sacerdote salesiano. Si dedica ai poveri dell'America Latina attraverso OASI [http://www.oasimaen.it] da lui stesso fondata e operante con 500 volontari. Dal 1971 raccoglie il testimone di don Francesco Ferraudo nell'incarico di padre spirituale del Torino FC che manterrà per tutto il resto delal sua vita. Giuseppe "Beppe" Gandolfo è nato a Torino il 19 marzo 1959. È iscritto all'Ordine dei giornalisti del Piemonte-Valle d'Aosta come professionista dal 19 febbraio 1991. Ha collaborato con Telesubalpina Torino e Avvenire. Assunto per 8 anni all'Agenzia Ansa, oggi lavora al Tg5 e ha la qualifica di corrispondente dal Piemonte e dalla Valle d'Aosta.
Vedere … guardare, osservando Conteggio articoli: 13
Vedere … guardare, osservando.
Sapere per edificarsi: e questa è prudenza Conteggio articoli: 23
Sapere per edificarsi: e questa è prudenza
Così vi sono coloro che vogliono sapere per vendere la loro scienza, o per procurarsi denaro od onori: ed è un turpe guadagno. Ma vi sono anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità. E vi sono ancora altri che vogliono sapere per edificarsi: e questa è prudenza.
(Bernardo di Chiaravalle – Sermione XXXVI)
Volgerassi senza armatura Conteggio articoli: 24
Volgerassi senza armatura
Tutti in una sentenzia dicevano: «come s'armerà?» e ritornando lui sempre in su quello: «volgerassi senza armatura»
A. Manetti, Vita di Filippo di Ser Brunellesco
Gl'infiniti pensier mie d'error pieni Conteggio articoli: 24
Gl'infiniti pensier mie d'error pieni
Gl'infiniti pensier mie d'error pieni, negli ultim'anni della vita mia, ristringer si dovrien 'n un sol che sia guida agli etterni suo giorni sereni.
Rime (Michelangelo)/286
Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede! Conteggio articoli: 22
Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede!
SIGNORA PONZA - Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede. (Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. In silenzio.) LAUDISI - Ed ecco, o signori, come parla la verità. (Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.) Siete contenti?
Luigi Pirandello - Così è (se vi pare) Edizione 1925
L'ideale perpetuo è lo stupore Conteggio articoli: 21
L'ideale perpetuo è lo stupore
"Egrette bianche",
Quattordicesima raccolta di poesie di Derek Walcott
Con parole precise Conteggio articoli: 23
Con parole precise
«Non pensate a un elefante!», ingiunge George agli studenti di scienze cognitive all'Università di Berkeley. Nessuno è mai riuscito ad eseguire il compito. Se dico a qualcuno di non pensare a un elefante, l'unica cosa che può accadere è che questo qualcuno pensi immediatamente all'immagine del pachiderma.
Gianrico Carofiglio - Con parole Precise
Le opere e i giorni (Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Erga kài Hemérai) Conteggio articoli: 40
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